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Cat.n. 125 |
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Israel Shamir
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Carri armati e ulivi della Palestina. Il fragore del silenzio. Note di Roberto Giammanco e Miguel Martinez. Traduzioni dal russo di Pier Giovanni Donini.
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ISBN 88-87296-45-6, 2002, pp. 240, formato 170x240 mm., Euro 15.
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In copertina
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indice - presentazione - autore - sintesi
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€ 15,00 |
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Israel Shamir
Israel Shamir è nato a Novosibirsk, Siberia, nel 1947. Espulso dall’università per attività sovversiva nel 1969, emigrò “per libera scelta” in Israele e combatté nella guerra del 1973. Corrispondente in Vietnam, Cambogia, Laos e, per molti anni, in Giappone tanto da diventare uno studioso e traduttore della letteratura giapponese. Dal 1989 al 1993 è stato inviato di Ha’aretz in Russia. Al suo ritorno in Israele si è impegnato nella denuncia della politica sionista di apartheid e del genocidio strisciante che, ormai, sembra stia per raggiungere il suo obiettivo finale. Con una febbrile attività letteraria e giornalistica sulla carta stampata e su Internet (il sito http://www.israelshamir.net), nei giri di conferenze in Europa, in Egitto e negli Stati Uniti, Shamir presenta una visione altra del conflitto israelo-palestinese. Rifiuta la soluzione dei “due stati per due popoli” perché nelle presenti circostanze paralizzante, distruttiva e senza sbocchi. E lo fa in nome di una pace fondata su di un unico Stato, tra il Giordano e il mare, con diritti uguali per tutti i suoi abitanti, senza discriminazioni etniche o religiose.
“Io non sono un amico dei palestinesi, io sono palestinese” dichiara Shamir, e lo fa in nome del ritorno dei palestinesi, dal 1948 esiliati ed espropriati delle loro terre e di ogni diritto. Questo è reso impossibile dalla folle politica che ha “importato” centinaia di migliaia di rumeni, tailandesi, cinesi, africani e un milione di russi e ucraini che formano la galassia di ghetti che è oggi lo Stato d’Israele. Al contrario, i nativi palestinesi sono stati via via assiepati in steccati-carcere, sempre più ristretti, dipendenti, vulnerabili. Il perfetto “modello coloniale” per tutto il Terzo Mondo, ci ricorda Shamir: ville con piscina e roccaforti dei dominatori sui luoghi alti e, in basso, intersecati da autostrade, campi profughi per lavoratori senza diritti e senza nessun controllo sulle proprie vite e sulla propria morte. Tutto questo sotto la vigilanza del terzo esercito più moderno del mondo. All’apartheid politica, psicologica e culturale dello Stato d’Israele, finanziata dagli interessi statunitensi e dalla lobby ebraica (AIPAC) autodefinitasi rappresentanti mondiali del popolo ebraico, Shamir contrappone un atteggiamento di resistenza che rivaluti la memoria storica non unilaterale, i momenti più alti di tutte le esperienze religiose, la coscienza di appartenere ad un’unica umanità di cui occorre garantire il futuro. Per le migliaia di ulivi sradicati dai bulldozer, dice con accenti spesso poetici Shamir, con il paesaggio della Palestina trasformato in una qualsiasi squallida periferia, tutta l’umanità è offesa e degradata. Realizzare l’utopia non è più speranza, ma è rimasta l’unica necessità.
Nel maggio del 2002, il figlio di Israel Shamir, che per via di madre ha la cittadinanza svedese, ha partecipato all’incursione di un gruppo di pacifisti che sono riusciti a penetrare nella Basilica della Natività a Betlemme, portando cibo e medicine ai palestinesi assediati. Il giovane è stato arrestato e immediatamente deportato da Israele con diffida a rientrarvi per i prossimi dieci anni.
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