|
|
|
Cat.n. 125 |
|
|
Israel Shamir
|
Carri armati e ulivi della Palestina. Il fragore del silenzio. Note di Roberto Giammanco e Miguel Martinez. Traduzioni dal russo di Pier Giovanni Donini.
|
ISBN 88-87296-45-6, 2002, pp. 240, formato 170x240 mm., Euro 15.
|
In copertina
|
indice - presentazione - autore - sintesi
|
|
€ 15,00 |
|
A nessuno è permesso di entrare nella striscia di Gaza o di uscirne. È circondata da filo spinato, i cancelli sono chiusi e anche se si è in possesso dei documenti richiesti non si può visitare il più grande carcere di massima sicurezza del pianeta, residenza di più di un milione di palestinesi. L’esercito israeliano che una volta era una rinomata forza combattente, è ormai diventato soltanto un corpo di guardie carcerarie. Le tattiche dello Tsahal1 furono formulate già negli anni Trenta, “Non c’è bisogno di ammazzare un milione di persone, ammazziamo i migliori, e gli altri si sottometteranno tutti”. Questo metodo lo applicarono per primi gli inglesi con l’aiuto dei loro amici ebrei durante la sollevazione palestinese del 1936. Da allora migliaia dei migliori figli e figlie di questa terra, l’élite potenziale dei palestinesi, sono stati sterminati. Ancora una volta l’esercito israeliano viene usato per mettere in atto questo piano, “per tenere a bada gli indigeni inquieti” uccidendo d’abitudine i potenziali ribelli.
Gli israeliani hanno un facile compito. Loro possiedono l’esercito più forte del Medio Oriente. Sono una delle massime potenze nucleari, hanno a loro disposizione tutte le armi del mondo mentre i palestinesi imprigionati nei territori hanno soltanto le pietre e qualche arma leggera. Recentemente gli israeliani hanno intercettato un battello carico di armi che stava dirigendosi verso Gaza. L’esercito ha subito proclamato una grande vittoria ma ha espresso “preoccupazione”. Hanno certamente ragione di preoccuparsi. Dal 1973, l’esercito israeliano ha avuto poco da preoccuparsi che i palestinesi fossero in grado di sparare contro di loro. I soldati israeliani si erano abituati ad un lavoro abbastanza semplice: preferivano sparare su bambini inermi.
Ma Gaza è una realtà diversa che ricorda i pianeti-prigione dei film di serie B. La recinzione in filo spinato protegge il segreto, la volontà indomabile del suo popolo. È come uno studio nel quale si sta allestendo un film di serie B, ma i suoi uomini e le sue donne sono di prima grandezza.
Questo messaggio segreto è uscito dalla Palestina, incarnato in un ragazzo di tredici anni, Faris Ode. Era un gioioso Davide palestinese quello che noi abbiamo visto confrontarsi con il Golia israeliano, nella periferia di Gaza, nella foto immortale scattata da Laurent Rebours dell’Associated Press. Faris il Senzapaura scagliava le sue pietre contro il mostro corazzato, con la grazia di un ragazzo di campagna che caccia via un cane feroce. Questa fotografia è stata presa il 29 ottobre 2000 e pochi giorni dopo, l’8 novembre, un tiratore scelto ebreo lo ha assassinato a sangue freddo.
Ci lascia l’immagine di un eroe, un’immagine che deve essere messa accanto a Che Guevara, un nome che deve essere pronunciato insieme a quello di Gavroche, il coraggioso ragazzo ribelle che combatté sulle barricate di Parigi nel romanzo I Miserabili di Victor Hugo, simbolo dell’invincibile ed irriducibile spirito umano. Era nato in tempi diversi, in tempi in cui l’eroismo non era una parola disonorevole, quando gli uomini andavano alla guerra pronti a combattere e morire per una nobile causa. Simbolicamente, il suo primo nome era “Cavaliere”, il secondo vuol dire “del Ritorno”. Questa immagine evocava l’idea dei valorosi cavalieri del passato. Questo spirito è del tutto estraneo al miserabile edonismo commerciale, l’ideologia dominante dei nostri giorni che con tanta abbondanza ci viene fornita dalla pop-culture americana. L’eredità di Faris è un segno del fallimento del piano d’Israele. Questo giovane ribelle era nato sotto l’occupazione militare israeliana ed è morto sfidando i soldati dello Tsahal.
Questo messaggio di speranza non è stato capito subito dagli amici della Palestina, perché ci siamo ormai abituati all’idea dei palestinesi che soffrono e del loro martirio. Nei nostri scritti, quasi inconsciamente non facciamo altro che riferirci a quella specie di atteggiamento che presenta “la nostra parte” come vittime sfortunate che meritano compassione e pietà. L’ultimo sentimento che dovremmo avere verso i palestinesi è proprio la pietà. Ammirazione, amore, solidarietà, culto dell’eroismo, persino invidia, ma mai pietà. Perché se noi abbiamo pietà di loro, allora, per la stessa ragione dovremmo provare pietà per i trecento guerrieri di Leonida che caddero combattendo alle Termopili, o per i soldati russi che fermarono i carri armati di Guderian con i loro corpi, o addirittura per il Gary Cooper di Mezzogiorno di fuoco. Non si deve avere pietà per gli eroi perché essi sono un esempio edificante per tutti.
Prima di tutto, non siamo stati capaci di collocare in modo giusto l’immagine di Faris. La narrazione della sofferenza si adattava al quadro di un Muhammad al-Durra tutto accucciato, che moriva sotto i nostri occhi, un bambino che somigliava tanto alla piccola vietnamita nuda che fuggiva dall’inferno del napalm.
L’immagine del Cavaliere che Ritorna, di Faris Ode, appartiene ad un diverso tipo di icona: quella dell’eroe. Il suo posto è accanto all’immagine dei marines ad Iwo Jima o in una chiesa vicino al suo conterraneo San Giorgio. Dopotutto, il santo guerriero fu martirizzato e seppellito sul suolo palestinese non lontano da Faris, nella cripta della vecchia chiesa bizantina di Lidda.
I nemici dei palestinesi hanno compreso bene questa realtà, meglio dei loro amici di New York. La stampa americana, dominata praticamente dagli ebrei, non ha risparmiato alcuno sforzo per cancellare la memoria di Faris, come certamente intendono fare per tutte le passioni eroiche che si agitano intorno a lui. Il sito Internet MSNBC.com fece un concorso idiota per la più importante fotografia dell’anno, con la scelta tra al-Durra il Martire e una fotografia di cani. In questo concorso, vi offrono sempre una scelta, ma qualsiasi cosa scegliate, è sempre quella sbagliata. I cani erano sponsorizzati dal console d’Israele a Los Angeles. Per loro votarono moltissimi sostenitori d’Israele mentre i sostenitori della Palestina si alzarono per votare al-Durra. L’unica fotografia veramente importante, l’immagine di Faris, non fu presentata al pubblico.
Come se tutto questo non bastasse, il Washington Post ha mandato il suo corrispondente in Palestina Lee Hockstader, per insultare addirittura la memoria del ragazzo caduto. Questo ignobile giornale vicino alla lobby ufficiale sionista negli Stati Uniti, l’AIPAC,2 poteva ben fidarsi di Hockstader.
Le sue corrispondenze dovrebbero essere studiate nelle scuole di giornalismo, nel corso sulla disinformazione. Quando i carri armati d’Israele e gli elicotteri da combattimento hanno bombardato Betlemme indifesa, Lee Hockstader ha scritto: “Nella città biblica di Betlemme [lui non menziona neppure la Natività, figuriamoci!] i soldati israeliani e i palestinesi hanno combattuto con carri armati, missili, elicotteri, mitragliatrici e pietre”. Sospetto che se Hockstader avesse scritto la storia della Seconda guerra mondiale sicuramente ci avrebbe gratificati con la favoletta secondo cui gli Stati uniti e il Giappone si affrontarono con armi nucleari.
Hockstader, naturalmente, ha giustificato così le scorrerie israeliane contro la popolazione civile: “I portavoce dell’esercito israeliano dicono che queste scorrerie erano limitate ed essenzialmente difensive. Ma il governo israeliano ha assunto una visione più ampia, notando come le scorrerie offrano ai comandi militari locali una certa flessibilità contro un nemico che si nasconde”. Se lui accetta “una visione più ampia” delle azioni israeliane, i palestinesi in queste corrispondenze, appaiono come folli terroristi. “I palestinesi hanno minacciato di far pagare un prezzo molto alto per quella che loro considerano una guerra d’aggressione. Un rappresentante del movimento islamico di resistenza, noto come Hamas, ha fatto appello perché si facciano ancora attacchi suicidi e si spari con i mortai contro Israele”.
Bene, certamente lui ha il progetto, e il compito, di affermare la supremazia ebraica e di discreditare i palestinesi. Infangare la memoria di Faris rientra perfettamente in questo compito. Hockstader è andato a Gaza e ha riferito nella sua corrispondenza che Faris era un ragazzo turbolento che non obbediva ai suoi genitori, che non andava a scuola, che era un “adolescente scatenato”, che poi in realtà voleva essere ucciso, e un tiratore scelto ebreo ha esaudito il suo desiderio. Lee Hockstader non ha tralasciato niente: il ragazzo venne ucciso mentre stava scagliando una pietra e perciò doveva essere ucciso, la sua fama postuma non è altro che “una leggenda sulla sua morte”; e in ogni caso sua madre “ha poi ricevuto dal presidente Saddam Hussein dell’Iraq un assegno di 10.000 dollari”.
In questo caso, Hockstader non correva rischi. Se avesse osato concludere che i genitori della bambina ebrea uccisa ad Hebron desideravano la morte della loro figlia, e se avesse riferito che la reazione d’Israele era una “leggenda”, o menzionato l’assegno così sostanzioso che i genitori avevano ricevuto dalla mani del macellaio di Sabra e Chatila, Hockstader non sarebbe uscito vivo da Israele, e Katherine Graham, la proprietaria del Washington Post, si sarebbe pentita di questo fino alla fine dei suoi giorni.
Gli ebrei sono riusciti a sottomettere ed a umiliare i loro nemici e non solo con la magia delle parole. Lord Moyne, ministro di stato britannico per il Medio Oriente3 e decine di soldati ed ufficiali inglesi e centinaia di leader palestinesi furono assassinati dagli ebrei nella loro corsa verso la supremazia nella Terra Santa negli anni Quaranta, mentre gli inglesi terrorizzati fuggivano dal porto di Haifa, il 15 maggio del 1948. Ancora oggi, due attivi pacifisti e religiosi di San Francisco, un prete cattolico, Labib Kobti,4 e un rabbino ebreo, Michael Lerner,5 ricevono minacce di morte da gruppi terroristici ebraici che, credete pure, prendono sul serio.
I palestinesi sono in genere contadini e abitanti delle città molto pacifici. Sanno come coltivare oliveti e vigneti, come fare uno zir, un orcio che mantiene fresca l’acqua anche nel più caldo khamsin o scirocco. In ogni angolo della Palestina si hanno prove della loro abilità di costruttori. Scrivono poesie e venerano i loro morti. Non sono guerrieri e certamente non sono assassini. Con sbigottimento ed incredulità guardano nello specchio di una stampa dominata dagli ebrei e si vedono riflessi con la maschera di sanguinosi terroristi. Ma questi contadini sono ancora in grado di darci una lezione sull’eroismo, tutte le volte che un nemico cerca di toglier loro la terra. I palestinesi lo hanno dimostrato molti secoli fa nei giorni leggendari dei Giudici, quando i loro antenati combatterono contro gli invasori venuti dal mare.
Negli anni Trenta, un fervente nazionalista ebreo russo e fondatore del partito di Sharon, Vladimir Zeev Jabotinsky6 scrisse in russo un racconto storico, Sansone, sviluppando la storia biblica del suicida che uccide tremila uomini e donne (Giudici, 18,27) e muore con i suoi nemici. Pochi anni fa, questo racconto è stato pubblicato in Israele in una moderna traduzione in ebraico, e il recensore del giornale Davar notò un’interessante contraddizione.
Per Jabotinsky, gli inglesi erano i moderni filistei, mentre gli israeliti erano gli ebrei. Ma per un lettore moderno israeliano, il racconto si presenta come la glorificazione della lotta dei palestinesi contro il dominio d’Israele. I filistei, altamente civilizzati, detentori di una tecnologia superiore, che venivano dal di là del mare ad invadere la terra, abitanti edonistici della Pianura e bellicosi intrusi delle Terre Alte ricordavano molto gli ebrei. Mentre il popolo di Sansone, Banu Israel,7 i nativi delle Terre Alte, certi delle loro profonde radici, fiduciosi nell’inevitabile vittoria del loro attaccamento alla terra, contro la potenza militare dell’invasore, gli ricordavano gli abitanti palestinesi delle Terre Alte di oggi.
La cosa è ragionevole perché i veri discendenti della Israele biblica, di quel popolo indigeno che ha abbracciato la fede di Cristo e di Maometto e sono rimasti da sempre nella Terra Santa, sono proprio i palestinesi. Gli israeliani lo sanno. Nei laboratori di genetica di Tel Aviv, i ricercatori del “DNA ebraico” presentano con orgoglio ogni risultato che confermi, sia pure vagamente, una relazione di sangue tra gli ebrei e i palestinesi. Sanno che la nostra pretesa di essere i possessori dell’orgoglioso nome d’Israele è perlomeno dubbia. Come Riccardo III, noi ci siamo impadroniti del titolo e della corona, ma come Riccardo III, ci sentiamo poco sicuri finché gli eredi legittimi sono ancora in vita. Questa è la spiegazione psicologica della nostra, altrimenti inspiegabile, crudeltà nei confronti dei palestinesi.
Gli israeliani vorrebbero essere palestinesi. Noi abbiamo adottato la loro cucina, serviamo il falafel e l’hummus come se fosse il cibo della nostra etnia. Abbiamo adottato il cactus locale, sabra, che cresce intorno ai loro villaggi come nome dei nostri figli e delle nostre figlie nati qui. La nostra lingua ebraica moderna è nata con centinaia di vocaboli palestinesi. Noi dovremmo chiedere loro perdono, abbracciarli come fratelli da lungo tempo perduti ed imparare da loro. Questo è il raggio di speranza che viene fuori dall’oscuro presente.
Come è stato dimostrato dai moderni studi archeologici israeliani, tremila anni fa le tribù delle Terre Alte (Banu Israel della Bibbia) riuscirono a trovare un modus vivendi con il “popolo del mare” della costa, e insieme questi figli di Sansone e Dalila diventarono i progenitori di coloro che hanno scritto la Bibbia, degli apostoli di Cristo e dei moderni palestinesi. L’unione della tecnologia avanzata dei filistei e l’amore degli abitanti delle Terre Alte per la nostra terra screpolata e arida, ha permesso di realizzare il miracolo spirituale dell’antica Palestina. Non è impossibile, e soprattutto è decisamente auspicabile, che la storia si ripeta e la gloriosa immagine del giovane Faris, che combatte da solo contro il carro armato, si fonda con le immagini di re Davide e di San Giorgio nelle menti e nei libri di testo dei nostri figli palestinesi.
|
|