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Quando il disegno della mia vita sarà completo, vedrò, o altri vedranno una cicogna? - K. BLIXEN
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Cat.n. 129

Marco Francini – Fabio Giannelli (a cura di)

Partono i bastimenti. Storie di emigranti pistoiesi.

ISBN 88-87296-28-6, 1998, pp. 112 formato 140x210 mm., Euro 10.

In copertina: Emigranti in attesa sulle banchine del porto. Dipinto di Raffaello Gambogi, 1895. Per gentile concessione del Museo G. Fattori di Livorno.

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10,00

L’emigrazione è stata definita il “grande dramma economico e sociale” dell’Italia post-unitaria. Di fatto, essa ha coinvolto le popolazioni di tutta la penisola negli ultimi decenni dell’Ottocento ed al principio del Novecento.
La Toscana, per la sua posizione geografica, è stata sempre interessata da migrazioni sotto forma di passaggio temporaneo o di stanziamenti definitivi: siano stati insediamenti di popoli nell’antichità, come gli Etruschi, o invasioni, come quella longobarda, più tardi; sia stata sede di tappe per i pellegrini nel medioevo o area per spostamenti interni di pastori (“transumanza”), ed oggi luogo di lavoro per comunità cinesi, sta di fatto che il flusso è stato ininterrotto, tanto verso l’interno quanto verso l’esterno, in entrata come in uscita.
Le famiglie toscane di estrazione popolare contano in larga parte fra i propri avi, vissuti fra XIX e XX secolo, qualche emigrante, ossia individui che abbandonavano casa e parentela per andare a “far fortuna” dove la ricerca del lavoro appariva più facile, a portata di mano. Un’esperienza analoga è stata quella della gente del Sud della penisola all’epoca del “miracolo economico” (tra la fine degli anni ’50 ed il decennio successivo), per cui molte persone di origine meridionale si trasferirono nelle città dell’Italia centrale-settentrionale ed attualmente numerosi nuclei — in certe zone addirittura maggioritari rispetto alla popolazione “indigena” — vivono sparsi su tutto il territorio nazionale.
Oggi il fenomeno delle migrazioni si sta ripetendo, cambiati gli attori e le destinazioni, dall’Est europeo e dall’Africa, dalla Cina e dal Brasile o dalle isole caraibiche, secondo linee direttrici che mettono in movimento migliaia e migliaia di persone dalle aree più povere verso i paesi ricchi del mondo. I governi europei — specialmente quello italiano perché più esposto di altri all’arrivo di consistenti contingenti di emigranti dalle coste dell’Albania, della Tunisia, del Marocco, ecc.— hanno emanato apposite leggi per disciplinare l’afflusso e “difendersi dall’invasione”. Anche questo comportamento non è nuovo: in verità, gli Statuti cinquecenteschi, in vigore in alcune località della Montagna pistoiese, includevano norme di stretta sorveglianza e di forte limitazione nei riguardi di quanti volessero trasferirvisi perché avrebbero gravato sulle proprietà comuni.
Torniamo, però, ai nostri emigranti. Per secoli i boscaioli degli Appennini sono andati, anno dopo anno, in Maremma, in Sardegna ed in Corsica, durante la stagione invernale, a praticare il mestiere del carbonaio, a produrre la cenere per il bucato e per il sapone, a tagliare ràdiche, a togliere il sughero dalle piante, perché sui loro monti non avevano possibilità di svolgere nessuna attività lavorativa.
Dalla fine del secolo XIX l’emigrazione cominciò a trasformarsi da stagionale in definitiva, per lo più in un altro Stato (Svizzera, Belgio, Germania, ma in particolare Francia): furono in prevalenza i giovani a partire “alla ventura”, per sfuggire ad un’esistenza di stenti e di miseria. Si recavano in paesi stranieri, oltre i monti delle Alpi da un lato ed oltre il mare — poi l’oceano — dall’altro, perché le magre entrate non consentivano di “sfamare le bocche”, di mantenere tutta la famiglia. Trovata un’occupazione — spesso faticosa, umile e mal retribuita — essi “rimettevano” (inviavano) a casa quel che riuscivano a guadagnare e a risparmiare. Spesso altri familiari li raggiungevano là dove si erano stabiliti i primi, partiti in avanscoperta, ipotecando spesso ogni avere patrimoniale per un passaggio su una nave stracolma verso un presunto paradiso: proprio come oggi, alla fine del XX secolo, capita a chi viene in Europa. Quanti parallelismi, quante corrispondenze!
Il flusso migratorio non riguardò solo l’Italia, ma coinvolse una grossa parte dell’Europa: le partenze furono assai consistenti da altri Paesi poveri, come l’Irlanda e la Polonia. L’affare-emigrazione conoscerà periodi floridissimi, per gli armatori, sin verso il 1950. Un secolo, quindi, di spostamenti “biblici”, durante il quale dall’Europa partirono, verso i “nuovi” continenti, circa centosessanta milioni di persone (altro che sbarco a Lampedusa di cento marocchini!).
Abbiamo scelto di proporre alla lettura alcune testimonianze di emigranti pistoiesi e documenti d’archivio, perché essi, più che i dati statistici, danno conto dei drammi individuali, microcosmo del dramma collettivo che l’emigrazione rappresentò e continua a rappresentare.



Ci rivolgiamo a lettori che vogliano imparare qualcosa di nuovo, che dunque vogliano pure pensare da sé (K. Marx). – Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada (Eraclito). – ... se uno ha veramente a cuore la sapienza, non la ricerchi in vani giri, come di chi volesse raccogliere le foglie cadute da una pianta e già disperse dal vento, sperando di rimetterle sul ramo. La sapienza è una pianta che rinasce solo dalla radice, una e molteplice. Chi vuol vederla frondeggiare alla luce discenda nel profondo, là dove opera il dio, segua il germoglio nel suo cammino verticale e avrà del retto desiderio il retto adempimento: dovunque egli sia non gli occorre altro viaggio (M. Guidacci).

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