Introduzione di Costanzo Preve
1. Nell’accettare di scrivere un’impegnata introduzione al saggio storico-sociologico (entrambe le dimensioni devono essere infatti tenute ben presenti non c’è sociologia senza storia e non c’è storia senza sociologia) del mio amico e collaboratore Eugenio Orso intitolato Alienazioni e uomo precario ho voluto prima accertarmi non solo di condividere nell’essenziale i contenuti storici, politici e filosofici del saggio stesso (considero infatti una forma di malcostume scrivere un’introduzione ad un saggio che non si condivide su punti espressivi essenziali), ma anche di aver individuato dove si trova il nucleo espressivo essenziale del saggio stesso. Un’introduzione, per non essere una inutile forma di narcisismo, deve essere infatti prima di tutto utile al lettore, per aiutarlo a non equivocare sul messaggio dialogico e razionale che il saggio stesso vuole mandargli. E quindi non è tempo perso e carta sprecata tutto quanto va in questa direzione.
2. Ad un primo sguardo, sembra che l’individuazione del nucleo essenziale del saggio non sia difficile, e debba essere ricercata nel titolo stesso, che parla di alienazioni (al plurale, e non si tratta di un semplice dettaglio teoreticamente irrilevante, come vedremo più avanti) e di uomo precario (e non si tratta di una semplice categoria economica il precariato opposto al lavoro stabile, permanente e sicuro ma di una categoria antropologica ben più rilevante ed espressiva, come vedremo più avanti). Sebbene si tratti di un titolo ben scelto (i titoli ben scelti sono quelli che comunicano immediatamente al lettore il contenuto del saggio e le intenzioni dell’autore), dietro questa apparente semplicità ci sta infatti qualcosa d’altro e di più importante, qualcosa al cui servizio è subordinata la stessa tesi del rapporto fra alienazioni e uomo precario.
Si tratta, infatti, di una tesi espressa in forma sintetica da Orso nella nota 7 del primo capitolo, e che riporto qui direttamente perché non ha bisogno di parafrasi o di chiarimenti ulteriori: «Nel caso dell’“evoluzione” del capitalismo contemporaneo, rispetto a ciò che è stato per buona parte della seconda metà del novecento, ho modo di ritenere che stiamo entrando, non in una nuova fase capitalistica, ma in un nuovo evo della storia umana, perché viviamo in un periodo storico di graduale, ancorché rapido, passaggio dal vecchio modo di produzione ad un nuovo modo di produzione sociale, caratterizzato da un cambiamento culturale epocale, da un cambiamento antropologico ugualmente rilevante, e da nuovi paradigmi in via di affermazione».
La tesi è estremamente impegnativa. E ripeto che, se avessi scoperto di non condividerla, in tutto o in parte, avrei declinato cortesemente l’invito a scrivere questa introduzione, nonostante i rapporti di stima, amicizia e collaborazione con Eugenio Orso. In questa come in tutte le altre cose vale sempre il vecchio detto di origine aristotelica Amicus Plato sed magis amica veritas. E tuttavia la condivisione non può semplicemente essere dichiarata in forma sapienziale ed apodittica, ma deve essere argomentata. Per poterla argomentare adeguatamente bisogna prima evocare le possibili confutazioni razionali di una tesi del genere. Se nel dibattito scientifico è centrale l’esperimento, nel dibattito storico e filosofico è centrale la confutazione. E passiamo allora in rassegna le possibili confutazioni di questa tesi.
3. Prima di passare in rassegna le possibili confutazioni (e ne prenderei in considerazione soltanto due, quella liberaldemocratica e quella marxista tradizionale) voglio immediatamente chiarire un ostacolo preliminare il quale, se non chiarito subito, potrebbe rendere più avanti difficoltosa l’adeguata comprensione della relativa novità del testo di Orso.
Esiste oggi una superficiale retorica delle cosiddette “svolte epocali”, retorica abbondantemente nutrita (ed anzi innaffiata, se mi si permette questa analogia con le piante che teniamo sul balcone) da circa un trentennio dal cosiddetto Postmoderno. Apparentemente il saggio di Orso si colloca in questo nuovo genere letterario, che possiamo definire sommariamente “nuovismo”, anzi, Nuovismo con la maiuscola.
È necessario liberarsi immediatamente di questo possibile equivoco. Il cosiddetto Nuovismo è uno strumento retorico rivolto soprattutto a non far capire, e a non permettere di capire, le novità reali che si affermano nella società in cui viviamo. Il Nuovismo, uno dei profili più abbietti, degenerati e schifosi dell’attuale panorama culturale contemporaneo (il lettore non deve indignarsi per la pesantezza dei termini impiegati, ma deve interpretare questa pesantezza come una forma di parrhesia, la sincerità greca di cui peraltro l’ultimo Foucault ha fatto l’apologia), è nell’essenziale un semplice strumento retorico a disposizione dei ceti politici professionali, del circo mediatico di manipolazione e del clero universitario privo di interpretazioni adeguate della contemporaneità. In un certo senso la paroletta “nuovo” (anzi, Nuovo) ha la stessa funzione del jolly nel gioco delle carte. Dove non esiste ancora un concetto, o meglio un sistema concettuale coerente che permetta di spiegare realmente le novità qualitativamente emerse, l’agitare scomposto della paroletta Nuovo può supplire a questa mancanza. Ma può supplirvi, appunto, soltanto in provvisoria assenza di oppositori politicamente e socialmente organizzati in grado di “presentare il conto” ai manipolatori.
4. L’ormai trentennale dibattito sul cosiddetto Postmoderno può essere definito in prima approssimazione come un esempio del come le novità qualitative della trasformazione sociale in corso non sono state discusse, e sono anzi state nascoste ed occultate, attraverso l’uso incontrollato dei due termini “nuovo” e “post”. Gli intellettuali sono forse il gruppo sociale meno indicato a cogliere questo problema, mentre un normale poliziotto potrebbe facilmente individuarlo, essendo abituato alle azioni di diversione nel caso di attacco ad un luogo in cui sono insediati criminali armati con ostaggi. Bisogna infatti creare cortine fumogene artificiali in un luogo e dare l’impressione che proprio lì avverrà l’irruzione armata, per poter spostarvi l’attenzione del criminale. Nello stesso modo, anche se in forme sofisticatissime, la retorica nuovistica e postmoderna, considerata nel suo insieme come foresta e non come semplice insieme di alberi, sarà probabilmente considerata fra qualche decennio come un fenomeno culturalmente unitario, e cioè come una grande e maestosa operazione di diversione rispetto alle reali modificazioni sociali che si stavano attuando.
Le rappresentazioni ingenue del Postmoderno (in termini hegeliani, una considerazione della storia della filosofia occidentale in termini di disordinata filastrocca di opinioni) lo caratterizzano come una sorta di scoperta, ad opera soprattutto di Jean-François Lyotard, del carattere illusorio della promessa di emancipazione delle cosiddette Grandi Narrazioni (in realtà del solo comunismo marxiano, cui si aggiungevano altre inesistenti grandi narrazioni a scopo di pura e semplice diversione), e del disincanto generalizzato che necessariamente ne conseguiva. Questo disincanto si sarebbe creato nel decennio 1975-1985, che in questo modo avrebbe potuto essere classificato nelle storie della filosofia come il Decennio del Disincanto.
Si trattò in realtà, almeno in Europa Occidentale (o più esattamente fra i ristrettissimi gruppi intellettuali universitari dell’Europa Occidentale ansiosi di passare dalla coppia Hegel-Marx alla coppia Nietzsche-Heidegger), dell’elaborazione sofisticata del lutto della precedente infatuazione sociologica verso la classe operaia della catena di montaggio fordista, vista come il vero e proprio “intelletto attivo” aristotelico del passaggio dal capitalismo al comunismo (a sua volta concepito di fatto come un anarchismo sociale del consumo affluente). Ad una superstizione sociologica (erroneamente giustificata attraverso un rimando a Marx, anzi, ad un mitico “Marx oltre Marx”) seguì una razionalizzazione sofisticata del disincanto. Questo disincanto fu battezzato Postmoderno.
Il discorso sarebbe qui appena iniziato, e non può certamente essere sviluppato in modo analitico in una semplice introduzione come questa. E tuttavia, non intendo lasciare equivoci sull’insieme del fenomeno, che ricompendio ancora una volta sommariamente.
La funzione sociale della retorica postmoderna è stata quella di far dimenticare che le disillusioni verso le troppo facili promesse del progressismo erano vecchie come il cucco, ed erano già state ad esempio sviluppate e sistematizzate da Max Weber negli anni dieci del novecento, e che queste “riscoperte”-vintage non erano che un adattamento alla necessità di razionalizzare il lutto della precedente superstizione sociologica: la funzione sociale della retorica “nuovista” stava nel fornire un facile jolly alla triade ceto politico-circo mediatico-clero accademico per non far capire quello che stava in realtà capitando.
E che cosa stava in realtà capitando? Il declino della capacità politica e sindacale della classe operaia organizzata? Il ripiegamento del ceto sociale degli intellettuali in un comodo accademismo autoreferenziale? Il crollo dissolutivo dell’esperimento di ingegneria sociale egualitaria sotto cupola geodesica protetta convenzionalmente chiamato “comunismo storico novecentesco” (da non confondere con il comunismo utopico-scientifico di Marx, ove lo spaesamento concettuale dell’ossimoro è totalmente intenzionale)? L’affermarsi della cosiddetta globalizzazione neoliberale, che portava necessariamente con sé il dominio delle oligarchie finanziarie, sinonimo di svalorizzazione del lavoro, e non solo del lavoro salariato propriamente detto? Il venir meno della sovranità monetaria e politica degli stati nazionali (indipendentemente dal loro essere stati o meno omogenei etnicamente), sovranità che era stata il quadro politico imprescindibile per le conquiste normative delle classi subalterne, ivi compresi ovviamente i sistemi di welfare state?
Certo, tutto questo, ed altro ancora. Ma soprattutto, e questo è il cuore espressivo del saggio di Eugenio Orso, stava affermandosi un grande ed inedito esperimento antropologico di massa, mai prima d’ora tentato nella storia comparata delle società umane, la costruzione sociale dell’uomo precario. Questo uomo precario, sempre esistito sin dai tempi delle piramidi egizie, ma mai fino ad oggi generalizzato in forma sistematica, è certamente uno sviluppo dell’individuo occidentale. Vedremo più avanti che il moderno individuo occidentale non ha alcun carattere universalistico, ma rappresenta una novità antropologico-sociale seicentesca e post-seicentesca, che potremo definire in prima approssimazione come un’unità dialettica minima di indipendenza e di impotenza (o se si vuole di indipendenza impotente, o meglio ancora socialmente impotente).
5. La tesi di fondo di Eugenio Orso (da me condivisa, per cui segnalo a coloro che apprezzano il mio pensiero che la possono considerare tranquillamente come mia a tutti gli effetti) può essere criticata in molti modi, ed è sempre buona regola prendere in esame ogni possibile critica. Essendo una tesi radicalmente “discontinuista”, è chiaro che le principali obiezioni che le possono essere mosse sono tutte o in parte tesi “continuiste”, che insistono cioè in vario modo sulla continuità storica e sul fatto che alcuni paradigmi teorici consolidati sviluppati e sistematizzati in questi ultimi tre secoli (e particolarmente nell’ultimo, cioè nel novecento) continuano ad essere validi.
Sebbene queste obiezioni possibili siano numerose, per chiarezza le raggrupperò tutte in due sole classi di argomentazioni polemiche, che definirò quella dell’Ortodossia Occidentalistica Dominante e quella del Paradigma Marxista Tradizionale. Segnalo subito un fatto curioso, ed a mio avviso ricco di insegnamenti (ovviamente, ricco di insegnamenti solo per chi vuole rifletterci sopra). L’ortodossia occidentalistica dominante ed il paradigma marxista tradizionale sono due contrari in opposizione reale (uso qui la terminologia di Kant, per indicare come due contrari in opposizione reale non danno luogo ad un possibile superamento del dualismo, ma solo ad un insieme di antinomie irrisolvibili, anticamera psicologica inevitabile per lo scetticismo ed il relativismo), e saremmo costretti ad oscillare per l’eternità fra questi due poli opposizionali se non capissimo che essi sono solo apparentemente opposti, ma sono in realtà segretamente complementari. Occorre infatti trasformare questa polarità rigida in polarità dialettica, e capire come l’ortodossia occidentalistica dominante ed il paradigma marxista tradizionale fanno soltanto il gioco delle parti in una stucchevole commedia dell’arte, e se non si superano razionalmente entrambi la tesi di Orso (e mia) appare del tutto incomprensibile, e può essere così “neutralizzata” archiviandola nello stucchevole genere giornalistico del “nuovismo” e delle “svolte epocali”, che oggi la rapida obsolescenza della curiosità giornalistica e dell’industria editoriale scopre ogni settimana.
Appare chiaro che possiamo procedere in questa introduzione soltanto se riusciamo ad illustrare in modo chiaro e preciso il codice sia dell’ortodossia occidentalistica dominante sia del paradigma marxista tradizionale. Accingiamoci a farlo.
6. L’ortodossia occidentalistica dominante si presenta come un codice pluralistico, ma in realtà di pluralistico c’è soltanto la forma superficiale, mentre il contenuto è ferreamente unitario. E del resto non potrebbe essere diversamente, perché tutti i codici identitari sono ferreamente unitari, in quanto si dispongono e si organizzano, coerentizzandosi, intorno ad un nucleo espressivo necessariamente unitario. Il cristianesimo presenta teologie diversissime, anche all’interno delle sue tre principali forme storiche (la cattolica, la protestante e la ortodossa), ma tutte devono necessariamente girare intorno al monoteismo biblico ed al conseguente creazionismo (al di là dei vari accorgimenti compromissori con la teoria darwiniana dell’evoluzione). Ciò avviene, ovviamente, anche per quanto concerne l’ortodossia occidentalistica dominante.
Ma è possibile definire in una formula il cuore espressivo dell’ortodossia occidentalistica dominante, che si presenta come teoria politica liberaldemocratica basata sull’economia di mercato e sullo stato di diritto? È evidente che ogni formula riassuntiva è sempre e solo un’interpretazione, ma non voglio sottrarmi ipocritamente ad assumermi la responsabilità di proporre la mia formula personale, evitando di proposito il rimando opportunistico alla cosiddetta “complessità”, il mantra del clero universitario, che sostituisce il ben più serio ed onesto Om Mani Padme Hum dei monaci buddisti del piccolo veicolo.
In prima approssimazione, il codice teorico dell’ortodossia occidentalistica dominante si basa su di una sottomissione della filosofia della storia della libertà di Hegel all’interno della teoria di Hume dell’autofondazione dell’economia politica borghese-capitalistica su se stessa, al di fuori di ogni fondazione religiosa (l’esistenza di Dio), politica (il contratto sociale) e filosofica (il diritto naturale). Il lettore non creda di poter farsi aiutare dai normali manuali in uso di storia della filosofia, la cui funzione (quasi sempre inconsapevole ai loro stessi estensori, non importa se di centro, di destra o di sinistra, atei o credenti, eccetera) è proprio quella di impedire che si arrivi agli elementi minimi di questa comprensione, che qui espongo in forma semplificata e riassuntiva.
La filosofia della storia di Hegel accoglie elementi della storiografia filosofica precedente (in particolare del pensiero greco classico, del posteriore pensiero cristiano, ed infine del pensiero illuministico settecentesco), ma li riformula tutti all’interno del primato della coscienza della libertà individuale. Non si tratta però egualmente di un individualismo, perché Hegel è un pensatore comunitarista, non individualista (come ha peraltro compreso intelligentemente il filosofo comunitarista MacIntyre), ed il suo pensiero non può essere compreso senza mettere al centro la sua dettagliata critica all’individualismo illuministico (in tutte le sue varianti, da Rousseau a Kant, dal contratto sociale russoviano di individui originari all’imperativo morale kantiano di individui pensati anch’essi come autonomi e privi di legami comunitari).
L’individuo di Hegel è un individuo inserito in legami comunitari, che sono però “moderni” e non organicistici, in quanto presuppongono l’acquisizione della integrale libertà di coscienza dell’individuo. Su questo punto Hegel prosegue (e non rompe affatto) la concezione comunitaria dell’individuo di Fichte, che aveva già chiarito che la stessa definizione filosofica di individuo è coestensiva con quella di genere umano (nel linguaggio di Marx, di Gattungswesen, e cioè di ente naturale generico). La filosofia di Hegel è una filosofia della storia della libertà, e sbagliano tutti coloro i quali (sulla base spesso di citazioni di Hegel slegate dal loro contesto espressivo) trasformano questa filosofia della storia in teologia della storia, e cioè di divinizzazione idolatrica del corso storico eretto a nuova divinità secolarizzata, quanto di più mostruoso si possa concepire, insieme con la pedofilia, il cannibalismo rituale, il rogo delle vedove, la speculazione borsistica ed il rimbecillimento televisivo pianificato.
Ma non c’è qui ovviamente lo spazio per un “raddrizzamento” dei fraintendimenti di Hegel. Questi “fraintendimenti” sono anzi del tutto sistemici, in quanto l’odio verso Hegel (che nel ceto intellettuale è addirittura maggiore dell’odio verso Marx) è motivato razionalmente dal fatto che in Hegel il primato della connessione sociale comunitaria è assegnato alla filosofia, mentre viene esplicitamente rifiutato per l’economia, che Hegel connota come un semplice sapere dell’intelletto astratto, insieme alla religione tradizionale, alla morale kantiana ed alla semplice critica illuministica alla Voltaire.
È del tutto intuitivo che l’ortodossia occidentalistica non può accettare un primato della filosofia (e cioè della verità intesa come socialità solidaristica e comunitaria e non come semplice accertamento “scientifico” di un dato esterno dato come presupposto) sull’economia, dal momento che si basa proprio sul presupposto del primato assoluto dell’economia. La filosofia della libertà non è quindi respinta (il richiamo alla libertà è anzi il “pezzo forte” dell’ideologia occidentalistica, continuamente agitata contro il fondamentalismo religioso, il populismo, il fascismo, il comunismo e gli altri mostri della teratologia liberaldemocratica), ma è subordinata ed inserita in una teoria più comprensiva della autofondazione assoluta dell’economia politica su se stessa (intesa come rete di scambi fra individui lockianamente presupposti come proprietari originari del suolo e dei mezzi di produzione). Il massimo teorico di questa autofondazione assoluta dell’economia su se stessa non è stato Adam Smith (come molti pensano), in quanto Adam Smith si è limitato a fornire una teoria delle armonie economiche del mercato e della sua “mano invisibile” (ed anche qui con molti limiti, messi in luce dal compianto Giovanni Arrighi), ma è stato lo scozzese David Hume. Chiariamo bene questo punto, che è essenziale.
David Hume è stato a suo tempo un gentiluomo scozzese di buon carattere e di modi urbani (a differenza dell’ombroso ed inaffidabile Rousseau), e non avrebbe probabilmente mai immaginato di essere lo scopritore strategico della religione idolatrica del capitalismo, l’autofondazione dell’economia su se stessa, con la retrocessione della religione (inesistenza di Dio, e almeno illegittimità della normatività sociale compiuta in suo nome abolita questa normatività, Dio può continuare ad esistere ridimensionato come organizzatore di pellegrinaggi e di culto di icone e reliquie), della filosofia (inesistenza del diritto naturale) e della politica (inesistenza del contratto sociale, che al tempo di Hume si legittimava come unico interprete pubblico dei diritti naturali dell’uomo). Eppure, Hume ha trovato in questo modo la formula aurea per fondare l’assolutezza dell’economia capitalistica. Sulla base della precedente teologia monoteistica, di cui il protestantesimo aveva favorito l’iniziale secolarizzazione, e che si basava sull’assolutezza autofondata di Dio, Hume porta brillantemente a termine la secolarizzazione, sulla base dell’assolutezza autofondata dello scambio economico capitalistico.
I commenti da fare sarebbero infiniti, ma in questa sede mi limiterò a farne soltanto due, i due che si possono maggiormente collegare alla lettera ed allo spirito del saggio di Eugenio Orso.
In primo luogo, appare chiara l’ingenuità (o più esattamente la stupidità) di tutti coloro che negli ultimi due secoli se la sono presa con il concetto di Assoluto in Hegel, individuandolo come la sorgente ultima delle pretese autoritarie e totalitarie della filosofia (e da Popper in poi c’è soltanto l’imbarazzo della scelta). In realtà il cosiddetto Assoluto di Hegel è del tutto innocente, e del tutto inutilizzabile per ogni strategia ideologica di legittimazione totalitaria (a meno che, appunto, si trasformi la filosofia della storia di Hegel in teologia idolatrica della storia stessa), in quanto si limita anzi a sottrarre l’arte, la religione e la filosofia ad ogni incorporazione statalistica e partitica determinata (esattamente il contrario, sia detto en passant, di quanto credono i dilettanti ed i disinformati). Pigliandosela con Hegel, si concentra su di un falso obiettivo l’attenzione degli imbecilli, laddove passa del tutto inosservata la vera assolutezza idolatrica autofondata dello scambio capitalistico.
In secondo luogo (e questo secondo punto è ancora più importante del primo) appare particolarmente ingenua la strategia filosofica di chi se la prende genericamente con il nichilismo e con il relativismo (ad esempio il papa filosofo Ratzinger, di cui non discuto comunque la superiorità hymalaiana sull’individualismo laicista contemporaneo), senza però risalire a monte alla sua origine, che è l’autofondazione humeana dell’economia politica su se stessa. Questo mi ricorda irresistibilmente l’intervento per fermare la marea nera inquinante al chilometro venti, laddove appare ovvio che essa, se vuole essere fermata, deve essere fermata alla fonte.
L’origine del nichilismo non sta certamente in una generica delegittimazione dei cosiddetti “fondamenti metafisici” da parte della scienza moderna (chi crede a questo può credere a qualunque cosa, da Babbo Natale al capitalismo compassionevole), ma sta nel fatto che il semplice valore di scambio dal punto di vista ontologico è appunto il Nulla, in quanto non può fare da fondamento alla comunità sociale che caratterizza invece l’essere umano come animale politico, sociale e comunitario (l’aristotelico politikòn zoon).
Ed a sua volta l’origine del relativismo non sta certamente nel nesso fra disincanto del mondo e politeismo dei valori, come pensano i professori universitari maxweberiani, ma sta invece nel fatto che in un mondo in cui l’economia capitalistica si autofonda su se stessa, ed in questo modo legittima la sua assolutezza metafisica, tutto il resto viene derubricato, e diventa appunto “relativo” al semplice potere d’acquisto dell’individuo inteso come unità minima di acquisto (di beni) e di vendita (della propria forza-lavoro).
Questa analisi filosofica potrà forse apparire “indigesta” a coloro che non sono abituati all’analisi filosofica stessa. Eppure essa era necessaria per corroborare il riorientamento gestaltico cui Orso invita il lettore. Se infatti esiste, come esiste, un’ortodossia occidentalistica, è bene risalirne alla sorgente, anche se questa risalita ci porta a più di due secoli fa.
7. L’assolutezza dell’autofondazione dell’economia politica capitalistica su se stessa è quindi il codice esplicativo del processo che nel suo saggio Orso definisce la transizione dalla prima alla seconda società della crescita. Ed infatti è proprio così. Nella prima società della crescita si erano già in parte accumulate le condizioni di questo passaggio (modello della scienza galileiana di quantificazione integrale della natura, individualismo possessivo di Hobbes, riduzione della verità in certezza del soggetto in Cartesio, eccetera), ma i tempi per una integrale autofondazione dell’economia su se stessa non erano ancora maturi.
La legittimazione della società (allora già tardofeudale ed anche tardosignorile) era ancora in larga parte religiosa, la struttura organicistica della società rendeva difficile se non impossibile la piena tolleranza religiosa sia per i settarismi fondamentalisti che per gli atei e gli agnostici (e questo non certo per una generica cattiveria umana o per una generica arretratezza culturale, ma per il fatto che sia il settarismo che l’ateismo avevano sbocchi direttamente politici di contestazione e di delegittimazione), e questo dava spazio alle due teorie razionalistiche del diritto naturale e del contratto sociale, di cui esistevano molte varianti (dalle più privatistiche alle più collettivistiche), ma che avevano tutte in comune il fatto di non consentire il primato dell’economia su tutti gli altri ambiti della vita umana, e tanto meno l’autofondazione assoluta dello scambio economico su se stesso.
Eppure, il passaggio dalla prima alla seconda società dello sviluppo richiedeva questa transizione filosofica, che sta alla base del codice occidentalistico. In estrema sintesi, il codice occidentalistico presenta il proprio passaggio particolare dalla prima alla seconda società dello sviluppo come la forma massima possibile dell’universalismo. Si è qui di fronte ad una vera e propria interpolazione, equivalente filosofico della abilità dei giocatori delle tre carte negli atri delle stazioni, che nel lessico filosofico si chiama anche “ipostasi”. Il particolare viene ipostatizzato ad universale, ma questo avviene perché se ne occulta abilmente la genesi integralmente particolarista.
Eppure neanche la seconda società dello sviluppo permette veramente la realizzazione e la generalizzazione di questa autofondazione idolatrica dell’economia. È questo il punto essenziale che deve essere ben compreso prima di procedere ulteriormente. Il programma di Hume era già stato formulato intorno al 1770, eppure soltanto intorno al 2010 si presentano veramente le condizioni per la sua realizzazione. Se così non fosse, e se questa realizzazione si fosse già presentata in precedenza in forma dispiegata, allora la tesi di Orso (e la mia) sulla novità qualitativa dell’evo in cui stiamo entrando sarebbe inesatta, e dovrebbe essere cortesemente respinta. Ma così non è, ed allora bisogna cercare di chiarire perché esattamente così non è.
In quella che Orso chiama seconda società dello sviluppo il processo di accumulazione capitalistica si realizza concretamente sulla base della sovranità monetaria (e quindi anche politica) dello stato nazionale. Certo, anche in questa seconda società dello sviluppo il capitale finanziario era già largamente cosmopolitico (pensiamo ai banchieri Rothschild ed alle basi ideologiche dell’antisemitismo europeo), ma nell’essenziale lo stato nazionale resta sovrano, ed è al suo interno che può svilupparsi il confronto fra forme politiche organizzate, di “destra” come di “sinistra”, in quanto il contenzioso che le separa, fondamentalmente distributivo, è ancora del tutto interno alla sovranità monetaria dello stato nazionale stesso. La variante politica dominante del codice occidentalistico, il modello liberaldemocratico, trova il suo fondamento materiale in una situazione di sovranità monetaria dello stato nazionale. In assenza di quest’ultima (ed oggi ci troviamo proprio in una situazione di generalizzata assenza di quest’ultima) questo modello liberaldemocratico gira a vuoto, ed assomiglia ad un motore in folle che magari fa un rumore terribile, ma non per questo è “sovrano” sul movimento e sullo spazio, perché non trasmette alcuna energia alle ruote motrici.
Qui sta il paradosso del codice occidentalistico. Esso si legittima con la presunta esportazione universalistica del modello liberaldemocratico, ma questo modello di fatto non esiste più, perché è caduto irreversibilmente con la caduta della sovranità politica e monetaria dello stato nazionale. Ed è oggi la messa a nudo dell’inesistenza di questa sovranità che è all’ordine del giorno, mentre gli intellettuali laici di regime sono ancora fermi al programma di Hume e di Kant del 1770, quello della dimostrazione razionale dell’inesistenza di Dio, oggi resa più facile dai progressi della geologia, della paleontologia, dell’astrofisica e della teoria dell’evoluzione. Siamo dominati da una divinità cannibalica molto peggiore della precedente, e gli intellettuali laici vogliono esortarci a studiare Darwin per smontare le innocue (e comunque da me non condivise meglio non lasciare equivoci) teorie antropomorfiche sul cosiddetto “disegno intelligente”.
Qualche parola sulla cosiddetta Modernità. Se fossi un dittatore (benevolo, certamente), uno dei primi provvedimenti che prenderei in campo culturale sarebbe la sospensione per almeno un decennio del diritto a pronunciare in pubblico la parola “modernità”. Prima che il lettore frettoloso erompa in grida indignate desidero informarlo della ratio che sta sotto a questo interdetto pubblico.
Oggi la parola “modernità” è un alibi generalizzato per sottrarsi agli obblighi di un’etica comunicativa elementare, per cui chi pretende di enunciare la sua particolare interpretazione del tempo presente dovrebbe entrare nel merito di quello che intende dire, e non rifugiarsi opportunisticamente nel riferimento ad una generica “modernità”, in cui poi ciascuno mette arbitrariamente quanto desidera. Un divieto di dieci anni, lungi dall’avere conseguenze negative sullo sviluppo del pensiero umano, costringerebbe ad esplicitare dialogicamente (e sarebbe quindi un’operazione socratica, consistente nell’ammettere di sapere di non sapere in cosa consiste questa formuletta di “modernità”) che cosa ciascuno intende per natura del tempo presente.
Ma questo ci conduce ad una serie di considerazioni ulteriori.
8. È giunto infatti il momento di soffermarsi sul concetto di “individuo”, e soprattutto sul perché la terza società della crescita di cui parla Orso non può che essere una società di individui integralmente sradicati e privati di ogni fondamento comunitario. Ma il fondamento comunitario della convivenza umana non è altro che ciò che i filosofi chiamano verità, che è ben altra cosa della certezza scientifica e della veridicità artistica. La seconda società della crescita è certamente stata anch’essa una società di individui, ma questi individui erano ancora inseriti in comunità ed in gruppi sociali ancora parzialmente sovrani, anche se in qualche misura “alienati” (secondo i quattro significati fondamentali di alienazione presenti nello opere del giovane Marx e da Orso diligentemente riportati nel primo capitolo del suo saggio). Detto altrimenti, il processo di individualizzazione integrale della società era già in corso, ma la presenza di due classi sociali contrapposte (la borghesia ed il proletariato, appunto, intesi non solo come aggregati sociali, ma come portatori di identità culturali “strategiche” permanenti e di lungo periodo) e soprattutto della sovranità politica e monetaria degli stati nazionali non permetteva che il processo di sradicamento individualizzante integrale potesse essere portato a termine.
Etimologicamente, individuo non è che la traduzione latina del greco a-tomon, che significa unità minima non ulteriormente divisibile (è questo il latino in-dividuum). Il termine nasce all’interno di una interpretazione della natura (Democrito, Epicuro, atomismo antico), e si contrappone ad interpretazioni naturalistiche fondate sulla divisibilità illimitata dei corpi più piccoli (Platone, ma anche Aristotele). Ma i greci non si sarebbero mai sognati, essendo comunitaristi e non individualisti, di connotare gli esseri umani come atomi o come in-dividui, e per indicare il singolo essere umano concreto utilizzavano il termine di “anima” (psychè). Il greco era un’anima, non un individuo, e l’umanesimo greco era indivisibile dalla critica alla degenerazione crematistica della società (c’è in Italia un pensatore poco noto ma di grande capacità filosofica che ha messo questo fatto al centro del suo pensiero, ed è Luca Grecchi). Possiamo quindi parlare di individuo greco, perché tutti lo fanno ed è ormai entrato nell’uso lessicale comune, ma bisogna essere consapevoli del fatto che questa resta un’improprietà terminologica.
Il fondatore dell’individualismo moderno è stato l’inglese Hobbes, nemico giurato del comunitarismo di Aristotele, che ha costruito il suo modello di società sulla base della paura che ogni individuo prova nei confronti degli altri, presupponendo che l’altro abbia nei nostri confronti intenzioni malevole e non benevole. Nonostante la cordiale antipatia che personalmente nutro per la filosofia di Hobbes, sono tuttavia disposto a concederle un ben preciso ruolo storico, quello della critica agli insiemi repressivi di tipo organicistico della società feudale e signorile. Il comunitarismo non è sempre buono a priori ed a “prescindere”. Quando il comunitarismo impedisce il libero fiorire del pensiero umano (i cacciatori di teste sono certamente più comunitaristi degli svedesi ubriachi del sabato sera, ma questo non comporta affatto che siano migliori), una critica di tipo individualistico risulta ampiamente legittimata.
C’è qui un paradosso, di cui è bene essere pienamente coscienti. Ogni critica all’individualismo deve cominciare con un suo elogio, o più esattamente con un elogio della sua funzione critica. Se l’individuo empirico chiamato Eugenio Orso riesce a concepire una teoria critica del capitalismo nuotando contro corrente contro la stragrande maggioranza degli individui suoi contemporanei (ed in particolare contro la stragrande maggioranza degli intellettuali “ufficiali” del clero universitario), ciò avviene perché l’individuo moderno è pur sempre l’unità minima di potenziale resistenza alla manipolazione. Dimenticare questa ovvietà sarebbe sciocco, e sarebbe anche suicida.
E tuttavia, fatta questa precisazione, il problema non è affatto risolto, ma è appena impostato.
9. In questa terza società della crescita l’individuo è l’unità dialettica minima di indipendenza e di impotenza (o di indipendenza impotente). Nella sua ottima Ontologia dell’Essere Sociale Lukács parla di compresenza nell’individuo moderno nel capitalismo di onnipotenza astratta e di concreta impotenza, e nota altresì (cito a memoria) che la stessa individualità “avvizzisce” (sic!) in una oscillazione fra specialismo e stravaganza.
Più che di individuo, infatti, sarebbe bene parlare di strategie di individualizzazione da parte del potere. Da un lato, l’individuo resta l’unità minima di consumo solvibile, e per questo l’offerta di beni e di servizi deve essere ampliata ed arricchita il più possibile. Dall’altro, l’individuo deve essere reso politicamente sempre più impotente, e questa impotenza si costruisce proprio incrementando il lato del consumatore su quello del cittadino. L’analisi a suo tempo fatta da Marx nella sua opera giovanile La Questione Ebraica appare profetica, ed anzi al di sotto della realtà odierna.
Questa osservazione ci permette di ritornare brevemente sulla obsolescenza della dicotomia Destra/Sinistra, di cui ho già parlato a lungo in un saggio precedente scritto proprio con Eugenio Orso. Questa dicotomia non è certo venuta meno (mi limito all’Europa Occidentale occupata oggi da basi atomiche USA) per la semplice fine del comunismo, per il semplice fatto che il comunismo non ha mai avuto il monopolio sulla sinistra (anche se si è spesso arrogantemente concepito come l’unica vera sinistra contrapposta alla falsa, fino a che qualche divinità lo ha punito!), e ci sono sempre state delle robuste sinistre non comuniste. Questa dicotomia è venuta meno perché in questa terza società della crescita, insieme al comunismo, sono finiti anche il socialismo, la socialdemocrazia, il liberalsocialismo e la liberaldemocrazia.
Tutte queste varie forme della “sinistra”, infatti, presupponevano per esistere la sovranità politica e monetaria dello stato nazionale, arbitro in ultima istanza delle forme di riequilibro redistributivo. Venuta meno questa sovranità, la cosiddetta “sinistra” è costretta a ridefinire la sua identità non più all’interno di una struttura, ma sulla base di un profilo puramente culturalistico. Ed è interessante che si cominci ad ammettere apertamente (almeno in Italia) che questo profilo diventi sempre più individualistico ed anticomunitario.
Norberto Bobbio, liberaldemocratico della vecchia generazione novecentesca che si muoveva ancora nell’ambito della sovranità politica dello stato nazionale, ha sostenuto a suo tempo che la dicotomia Sinistra/Destra era sempre valida, non doveva essere abbandonata, e si incardinava sul valore dell’eguaglianza sociale fra i cittadini. La tesi non era affatto assurda, ma la sua pretesa validità si fondava su di un fattore oggi non più esistente, la sovranità politica dello stato nazionale e della sua capacità di redistribuzione sociale della ricchezza prodotta. Se questa capacità di redistribuzione sociale della ricchezza è annullata dal cosiddetto “giudizio dei mercati” e dalla speculazione finanziaria allora la tesi di Bobbio assomiglia ad un dirigibile ancorato a mezz’aria, che non può né volare né atterrare. L’idealtipo dell’eguaglianza è destinato inevitabilmente a rifugiarsi nei discorsi della domenica di politici ipocriti e corrotti.
Ultimamente il politologo Carlo Galli (cfr. Perché ancora Destra e Sinistra, Laterza 2010) ha deciso di scoprire le carte e di mettere a nudo ciò che da tempo penso del problema. Secondo Galli la differenza sta nel fatto che la destra vuole difendere l’ordine della comunità dalle minacce esterne, mentre la sinistra vuole liberare l’energia e la diversità degli individui. È possibile che il politologo Galli si muova all’interno della polemica contro la Lega Nord in nome della cultura della “differenza” dei Veltroni, dei Vendola e dei Bertinotti. Queste miserie non mi interessano. È invece degno di nota che la stessa trincea “egualitaria” dei Bobbio venga esplicitamente abbandonata in nome di un individualismo apertamente anticomunitario. La diversità dell’individuo-consumatore è peraltro già pienamente garantita dall’odierna società di mercato. Quella che non viene garantita, ma anzi viene distrutta, è l’energia politica del lavoro organizzato. Galli rivela così, probabilmente senza neppure rendersene conto, la deriva individualistica della “sinistra” ufficiale seguita alla sbornia sociologica del ventennio 1960-1980.
10. Ricompendio qui per comodità del lettore le conclusioni sulla perdita di validità dell’ortodossia occidentalistica, che nega che oggi siano emerse le condizioni per una rottura epocale, e continua a legittimare la società di oggi con un apparato ideologico costituitosi negli ultimi duecento anni.
In primo luogo, l’evoluzione dialettica dell’individualismo liberale è sfociata nell’impotenza politica e sociale dell’individuo stesso. Questo è ormai sotto gli occhi di tutti, ma i semicolti possono trovarne una conferma sofisticata addirittura in Adorno (cfr. La crisi dell’individuo, Diabasis 2010). Se non credono a me, credano almeno ad Adorno, che fa più fine.
In secondo luogo, tutto l’apparato ideologico di legittimazione e di giustificazione dell’ortodossia occidentalistica dominante, sia pure all’interno del codice che sottometteva la filosofia della storia della libertà di Hegel all’autofondazione dell’economia politica su se stessa, si fondava sulla sovranità politica dello stato nazionale, all’interno del quale si posizionavano poi le strategie di redistribuzione della ricchezza che facevano da fondamento alla dicotomia Destra/Sinistra. Ma oggi questo quadro non esiste più, e tutte le situazioni discorsive ideali alla Apel e Habermas trovano il loro ultimo rifugio nei seminari universitari delle facoltà di scienze politiche.
Ed ecco perché, in breve, Eugenio Orso ha più ragione dell’ortodossia occidentalistica dominate. Passiamo ora ad esaminare brevemente l’altro possibile interlocutore, il paradigma marxista tradizionale.
11. In estrema sintesi, il modello di Marx è stato costituito da una addizione di una teoria strutturalistica della successione dei modi di produzione (strutturalismo definito scorrettamente come “materialismo” in base al fatto accessorio e secondario per cui Marx era ateo, non credeva in Dio e quindi pensava esistesse soltanto la cosiddetta “materia”) e di una filosofia interamente idealistica della storia, la cui base teorica è la stessa di quella di Fichte e di Hegel. In questa sede, non c’è lo spazio, e neppure la necessità, di chiarire in che modo un idealismo palese e manifesto è stato trasformato in materialismo in base ad un uso metaforico del concetto di “materia”, usato per connotare un ateismo filosofico ed uno strutturalismo economico-sociologico. La chiave interpretativa fondamentale resta, a fianco della falsa coscienza necessaria degli agenti storici (in questo caso, i due empirici studiosi barbuti Marx e Engels), l’egemonia del positivismo nel cinquantennio 1850-1900, per cui il marxismo, un semplice “ismo coerentizzato” per servire da ideologia di legittimazione del movimento operaio europeo organizzato, è diventato un positivismo di sinistra a base gnoseologica neokantiana (realismo gnoseologico, teoria del riflesso o rispecchiamento, eccetera), e così sostanzialmente è rimasto per un secolo, nonostante la presenza di impotenti eresie di raddrizzamento neo-idealistico (Gramsci in primo luogo).
Ma questa, appunto, non è la sede per un’ennesima discussione sulla natura del pensiero di Marx, e mi limiterò a discutere solo i punti che riguardano il saggio di Orso.
In estrema approssimazione, c’è una scelta teorica di Marx che è stata dialetticamente (dialettica intesa come unità e compresenza degli opposti) la sua grandezza e la sua debolezza, quella di limitarsi a considerare gli esseri umani concreti non nella loro interezza sociale ed esistenziale, ma come semplici “maschere di carattere” (Charaktermasken). Le maschere di carattere sono semplici ruoli sociali, ad un tempo strutturali e funzionali, in quanto sono inserite in una strutturazione classista della società (ovviamente, ad un certo grado di sviluppo delle forze produttive e portatrici di formazioni ideologiche di potere e/o di opposizione), e sono funzionali alla loro riproduzione.
Non ho alcuna intenzione di criticare Marx per questo “riduzionismo”. Senza questa operazione riduzionistica, di tipo strutturalistico e funzionalistico, la mirabile teoria marxiana dei modi di produzione sociali non avrebbe mai potuto vedere la luce, in quanto i ruoli sociali dovevano essere ferreamente limitati all’aspetto delle “maschere di carattere”. Chi accusa Marx di riduzionismo economicistico (la critica più facile di questo mondo!) è fuori strada, perché tutte le teorie che si vogliono “scientifiche” (e quella di Marx si voleva ovviamente tale) si costituiscono sulla base di una indispensabile riduzione della complessità del reale, eliminando tutti gli aspetti “perturbatori”. Quindi, cerchiamo di essere generosi con Marx, come lo siamo con Galilei, Newton, Darwin ed Einstein. La presa in considerazione della complessità antropologica umana sotto l’esclusivo aspetto della “maschera di carattere” è stata benefica e necessaria.
E tuttavia, quella di Marx non intendeva essere una semplice scienza naturale positivistica, ma intendeva esplicitamente (e ci sono dati filologici in due lettere a Lassalle ed a Engels) essere una scienza filosofica nel senso di Hegel e dell’idealismo classico tedesco. So bene che questo fatto, peraltro filologicamente accertabile, è negato da tutte le scuole marxiste di tipo scientistico (Della Volpe, Althusser, Geymonat, eccetera), ma mi permetto di respingerle (con argomenti che non riporto qui per ragioni di spazio e di opportunità). Ora, le scienze filosofiche si distinguono dalle scienze naturali (o dalle scienze sociali concepite in senso naturalistico, alla Max Weber per intendersi, con la nota distinzione fra giudizi di fatto e giudizi di valore), per il fatto di distinguere fra categorie e concetti. Le categorie sono modalità strutturali, anonime ed impersonali di esistenza (nel linguaggio di Hegel, dell’Essere e dell’Essenza), laddove il concetto non è altro che l’autocoscienza libera del soggetto. In una scienza filosofica, quindi, il concetto non è una categoria.
Questo chiarimento elementare (peraltro necessario in un contesto dominato dall’egemonia del neokantismo nella comunità accademica italiana) serve a far capire come la riduzione degli attori sociali (non importa se borghesi o proletari) a “maschere di carattere” comporta il fatto che la soggettività non è vista come un concetto, ma come una semplice categoria. Ma le categorie non sono titolari di autocoscienza, in quanto per loro stessa natura non possono passare dall’In Sé al Per Sé. Le categorie non sono mai infatti Per Sé, ma sono sempre e soltanto In Sé.
Per ovviare a questa difficoltà, di cui peraltro il secondo Marx positivista non sembrava cosciente fino in fondo, Marx finì con il puntare assai più sulla formazione del lavoratore cooperativo collettivo associato, dal direttore di fabbrica all’ultimo manovale, che sulla formazione di un fattore ideale aleatorio come la coscienza di classe anticapitalistica. E come potrebbero infatti delle semplici “maschere di carattere” essere portatrici di una libera autocoscienza anticapitalistica?
Sta qui non tanto uno dei problemi, quanto il problema teorico decisivo del modello di Marx. Ma in questa sede non potremo analizzarlo fino in fondo, ma soltanto in rapporto alla tesi di Orso sulla novità dell’evo storico in cui stiamo entrando.
12. Cerchiamo di cogliere il centro del problema, sia pure in modo sintetico. Nonostante i suoi indiscutibili meriti storici la teoria struttural-funzionalistica della riduzione delle soggettività umane a “maschere di carattere” non è in grado di cogliere gli aspetti principali del passaggio d’epoca alla terza società dello sviluppo. Questa teoria, esaminando ad esempio il processo di sfruttamento come estorsione generalizzata del plusvalore assoluto e relativo, era in grado di capire come questo processo non si basasse sulla malvagità del capitalista o sull’ingenuità dell’operaio, ma sul fatto “oggettivo” per cui il valore d’uso della forza-lavoro impiegata nel processo di produzione era maggiore del valore di scambio con cui veniva retribuita. Nessuno riuscirà mai a togliere questo merito a Karl Marx.
Ma, appunto, la logica di movimento di questa inedita terza società dello sviluppo non si limita alla ben nota, collaudata e consueta dinamica dei ruoli sociali delle “maschere di carattere”. Ovviamente esse restano, e danno luogo appunto all’oggetto ed al metodo non solo dell’economia politica (non importa se di destra o di sinistra), ma anche alla critica dell’economia politica (da distinguere accuratamente dalla precedente). E tuttavia vi è un elemento qualitativo nuovo, consistente in un progetto globale di manipolazione antropologica e di addomesticamento criminale, che è appunto il nesso di alienazione e uomo precario. Questo nesso è antropologico, ed in quanto antropologico (più esattamente, antropologico-sociale) va al di là, e quindi non è compreso, nello schema collaudato di tipo strutturalistico e funzionalistico del modo di produzione messo in movimento da maschere di carattere.
Le conseguenze di questo fatto sono enormi, e mi limiterò a segnalarne soltanto qualcuna, dal momento che il saggio di Orso su questo punto è particolarmente felice, in quanto mescola analisi strutturale ed una pittoresca ma utilissima aneddotica, dall’ammiratore di Supersilvio alla percezione dei mutamenti sociali da parte di alcuni cantautori.
13. Un primo rilevante risultato ottenuto da Orso in questo suo saggio può essere individuato nella piena rivalutazione del concetto di alienazione. Questa integrale rilegittimazione del concetto di alienazione avviene nel modo migliore, in quanto questo concetto viene reso “operativo”, e quindi credibile, legandolo alla generalizzazione del modello di lavoro flessibile e precario. Lungi dall’essere un innocuo sinonimo di disagio esistenziale, l’alienazione diventa la caratteristica essenziale della svalorizzazione del lavoro.
Chi oggi ha soltanto venti o trenta anni, e comincia ad appassionarsi alla filosofia ed alle scienze sociali, ha probabilmente difficoltà a capire come negli anni sessanta del novecento si sia sviluppato un movimento interno alla cultura di sinistra tendente non soltanto a svalorizzare questo concetto, ma addirittura a proporne l’abolizione. Pensiamo soltanto all’equazione (peraltro corretta, ma tesa a ridurre il marxismo a metafisica idealistica prescientifica) proposta da Lucio Colletti sull’identità fra teoria economica del valore e teoria filosofica dell’alienazione (con esiti apertamente neoliberali da parte dello stesso Colletti), oppure dalla famosa tesi di Louis Althusser della “rottura epistemologica” marxiana del 1845, in cui la teoria dei modi di produzione era “purificata” dalla fastidiosa categoria idealistica di alienazione.
Chi oggi ha una certa età (come chi scrive) ha perso molto tempo prima nell’accettare (stupidamente), e poi nel superare e respingere questa assurda eliminazione della categoria di alienazione. Non me la prendo con Colletti o con Althusser, e con i loro esiti rispettivi nel neoliberalismo (Colletti) e nel materialismo aleatorio (Althusser). Gli stupidi siamo stati noi, non loro. Chi è causa del suo mal pianga se stesso, come dice un vecchio e saggio proverbio. E tuttavia è bene ricostruire, soprattutto per chi non era neppure ancora nato, il contesto storico in cui è maturata questa stupida eliminazione dell’utilissimo concetto marxiano di alienazione, che invece resta più che mai decisivo dopo la smentita storica di altri concetti ritenuti invece centrali (faccio solo i due esempi dell’inesistente incapacità dei capitalisti di sviluppare le forze produttive e l’ancora più inesistente capacità rivoluzionaria intermodale della classe operaia, salariata e proletaria).
Mentre non sono più disposto oggi a riconoscere alla scuola di Della Volpe e di Colletti nessun merito storico e teorico (il marxismo non può infatti essere un galileismo morale, per il fatto che il galileismo non era una scienza filosofica e dialettica, e semmai il marxismo è un hegelismo morale ed egualitario), e la considero oggi una semplice curiosità pittoresca fondata sull’isterismo anti-crociano ed anti-gentiliano italiano da archiviare completamente, per Althusser farei invece un discorso diverso, nonostante sia giunto oggi a respingere tutti i suoi principali fondamenti teorici, in particolare l’abbietta (il lettore ha letto bene) ostilità verso il carattere conoscitivo e veritativo dell’attività filosofica, da tenere ben distinta dal pur nobile ed indispensabile accertamento scientifico dei dati naturali. Le critiche di Althusser all’economicismo ed allo storicismo restano valide ed intelligenti, come restano valide ed intelligenti le sue critiche alla triplice metafisica dell’Origine, del Soggetto e del Fine. Fuori strada è invece la sua critica all’umanesimo, basata sulla confusione fra la teoria dei modi di produzione (che in effetti non è umanistica, ma strutturalistica, basata appunto sulle “maschere di carattere”), e la filosofia della storia di Marx, che è invece una forma di umanesimo dialettico il cui soggetto non sono le classi, ma è il genere umano. E tuttavia, se si comincia con il ridurre la filosofia ad epistemologia, tutto il resto ne segue necessariamente a cascata.
Occorre riconoscere che il rifiuto althusseriano della categoria di alienazione, pur sbagliato ed inaccettabile, era parzialmente giustificato dal contesto teorico del dodicennio 1956-1968, in cui questo concetto era utilizzato per sciogliere il carattere classista e rivoluzionario del pensiero di Marx in un interclassismo culturalistico del tutto innocuo ed intellettualistico. Su questo punto, ma solo su questo punto, Althusser finì per giocare lo stesso ruolo giocato da Sorel settanta anni prima, incarnando lo spirito della lotta di classe contro l’annacquamento intellettualistico del ceto accademico. Ma il risultato fu proprio quello che Althusser non avrebbe mai voluto che fosse, e cioè la costituzione di un’ennesima scuola universitaria di intellettuali marxisti totalmente inseriti nell’accademismo. Ed infatti oggi l’althusserismo è sinonimo di marxismo esclusivamente universitario, l’opposto integrale delle intenzioni originarie di Althusser.
Che dire? Pace all’anima sua.
14. Orso non ha certamente scoperto la precarietà, e del resto nelle scienze sociali nessuno scopre mai veramente nulla. Quella che si chiama precarietà ha oggi due aspetti principali. Da un lato, è l’inevitabile portato della dinamica di accumulazione della globalizzazione finanziaria, che distrugge le conquiste politiche e sindacali del lavoro salariato organizzato, conquiste storicamente prodottesi all’interno della sovranità monetaria dello stato nazionale. Dall’altro, è l’esperienza esistenziale di massa comune alle giovani generazioni, il cui abbietto processo di addomesticamento tende a costituire una sorta di “seconda natura” che le abitui ad accettarla come un dato ineliminabile nei secoli dei secoli. Qui la vecchia impostazione economicistica delle “maschere di carattere” deve unirsi alla comprensione della natura di un esperimento antropologico nuovo e mai fino ad oggi tentato nella storia dell’umanità (almeno su di una scala tanto vasta).
Dal momento che siamo soltanto all’inizio di questo processo, non possiamo pretendere che Orso riesca già a descriverlo nei particolari. È già sufficiente che esso sia segnalato con forza, perché segnalarlo con forza è preliminare al problema dei problemi, l’unico vero problema politico importante, che compendierò così: si tratta di un processo inesorabile ed inevitabile, oppure si tratta di un processo che in qualche maniera può essere arrestato ed invertito, se possibile non in tempi storici?
Dal momento che questo è il vero problema politico posto dal saggio di Orso, mi permetterò di terminare questa mia introduzione discutendone alcuni aspetti. Sono certo che in questo modo risponderò alle domande del lettore.
15. Il genere filosofico oggi più “gettonato” nelle pagatissime conferenze per presenzialismi semicolti e madame benestanti è quello che inverte la nota canzonetta di un tempo il cui ritornello faceva: “Non c’è più niente da fare/è stato bello sognare”. Questa inversione è costituita dalla seconda strofa (il disincantamento rispetto alle grandi narrazioni) e dalla prima strofa (il destino irreversibile della tecnica). Mi spiace per personaggi seri come Lyotard ed Heidegger, ma è soltanto questa pappa che arriva ai pubblici semicolti delle plebi presenzialiste con una certa Kual Kultura (le K maiuscole sono di Stefano Benni). È stato bello sognare, in traduzione colta abbiamo creduto per secoli alle filosofie dell’emancipazione e del superamento delle alienazioni. Non c’è più niente da fare, in traduzione colta la gabbia d’acciaio della tecnica e dell’economia ci ha ormai rinchiusi per sempre.
E tuttavia non vorrei che si pensasse che Umberto Galimberti sia pur sempre più “colto” di Bobby Solo. Non è affatto così, a meno che con il termine “cultura” si intenda sapere il tedesco ed aver letto Kant e Jaspers. Ma è un errore. La cultura non è questo. La cultura è quell’insieme di ideazioni psicologiche, scientifiche e filosofiche che contribuisce a portarci fuori da una situazione insopportabile. Se non lo si capisce, si finirà con il credere che i disincantati (e pagatissimi) conferenzieri filosofici del Rotary Club siano più “colti” dei plebei decerebrati del Grande Fratello e dell’Isola dei Famosi.
Liberandosi da questo (scusabile) errore il lettore potrà meglio impadronirsi dei termini essenziali della questione.
16. Nella terminologia filosofica di Martin Heidegger il termine Tecnica non indica un insieme di strumenti materiali o di tecnologie produttive, ma un Dispositivo anonimo ed impersonale (Gestell) che sottrae completamente alla soggettività umana cosciente ed organizzata la capacità di ideazione e di progettazione sul proprio stesso futuro. Questa diagnosi si incontra con altre diagnosi pessimistiche, come quella sulla antiquatezza dell’uomo contemporaneo rispetto alla gestione delle stesse tecnologie da lui prodotte (Günther Anders), o sul paradosso di una società che si è legittimata sulla base dell’espansione sovrana degli individui per poi sfociare in un annullamento di fatto della sovranità politica e culturale degli individui stessi (Adorno).
La cultura contemporanea, presa nel suo complesso (e sottrattine i giornalisti ed i pubblicitari, gli Eugenio Scalfari e gli Oliviero Toscani), assomiglia ad una clinica per pazienti di una sindrome depressiva generalizzata. Nonostante le terapie di clown che tentano di tener su il morale dei pazienti, appare che la famosa Tecnica, o meglio ancora la Tecnoeconomia intesa come fusione fra Tecnica ed Economia non è più considerata come a disposizione dell’uomo. La conseguenza sta in ciò, che una società che si vanta di ispirarsi a Darwin e che guarda con compatimento le plebi religiose in pellegrinaggio alla Sacra Sindone di Torino (manufatto medioevale di accertata origine), accetta poi che le criminali agenzie di rating decidano della vita e del lavoro di milioni di persone. Una società che si vanta di aver invaso la Bastiglia nel 1789 ed il Reichstag di Berlino nel 1945 non è capace di distruggere e di devastare come meriterebbero gli uffici di Moody’s.
È questo il paradosso del nostro tempo. Eppure, il genere umano non può per sua propria natura accettare che lo stato del mondo abbia come inno “Non c’è più niente da fare/è stato bello sognare”. La verità filosofica esiste, al di là di quanto possano dire scettici e neokantiani, e consiste nella solidarietà comunitaria fra individui liberi, autonomi ed indipendenti. È questa la verità filosofica, che non si contrappone, ma si aggiunge dandole un senso, alla certezza scientifica delle grandi scienza naturali moderne, di cui non mi sogno affatto di contestare la validità nel proprio ambito specifico.
Mi sono spesso chiesto la ragione della sostanziale sterilità di cento anni di pensiero ispirato al cosiddetto “marxismo”. Certo, la ragione di fondo per me sta nel fatto che il marxismo, anziché proseguire il cammino aperto dal grande idealismo tedesco di Fichte e di Hegel, ha preferito innestarsi sul codice positivistico, diventando un positivismo di sinistra a base gnoseologica neo-kantiana. Ma c’è purtroppo di più. Con poche eccezioni (Lukács, Gramsci, pochi altri) i marxisti hanno accettato il ruolo ecclesiastico di cappellani militari e di confessori auricolari della “sinistra politica”, erede esclusiva dell’ideologia borghese-illuministica del progresso, sviluppando così una retorica dell’appartenenza ed una grammatica dell’identità. Il pensiero critico è così stato deposto in un armadio, le cui chiavi sono state affidate alle burocrazie politiche, la cui mentalità conservatrice (coperta dalla retorica del progresso) era esattamente la stessa di quella dei cardinali seicenteschi geocentrici che si rifiutavano di guardare dentro il cannocchiale galileiano, perché se ci avessero guardato dentro avrebbero potuto scoprire (e non lo volevano a nessun costo) che il loro mondo non era affatto al centro dell’universo, ma si trovava in una irrilevante periferia.
17. E cerchiamo di concludere. Il saggio di Orso si colloca in una posizione di aperta polemica non solo con le apologie dell’ortodossia occidentalistica dominante, ma anche con quella tradizione marxista che si rifiuta di prendere in esame il progetto di manipolazione antropologica in corso, restando ferma ad una analisi del modo di produzione capitalistico esclusivamente in termini di ruoli sociali struttural-funzionali, e cioè di “maschere di carattere”. Entrambi i punti di vista, come si è detto in precedenza, non sono in grado di individuare gli elementi di novità qualitativa della terza società della crescita (capitalistica, ovviamente) rispetto alla seconda.
Siamo infatti di fronte ad un paradosso, peraltro facilmente spiegabile. I giganteschi apparati dei centri studi e dei dipartimenti universitari di scienze politiche e sociali assomigliano a cartografi che non hanno ancora preso atto del fatto che un devastante terremoto ha modificato profondamente il territorio, e che non basta riprodurre e fotocopiare le vecchie mappe. Dietro la retorica del nuovismo, ci sta in realtà un vero e proprio “vecchismo”. Nello stesso tempo, le facoltà di filosofia si sono trasformate in cliniche per pazienti di sindrome depressiva generalizzata.
È impossibile stabilire oggi se l’individuazione del nesso fra nuove alienazioni e generalizzazione del lavoro precario sia il “filo” giusto da afferrare per poter iniziare a sgomitolare l’intero gomitolo. A mio avviso ci sono buone possibilità che lo sia, ed è per questo che sono stato molto felice di accettare la proposta di scriverne una introduzione. Si va così un po’ al di là delle pur benemerite e stimabili ricerche sulla società liquida (Bauman), sulla società del narcisismo (Lasch), sulla connessione fra marxismo e società della decrescita (Badiale e Bontempelli), sulla ricostruzione della dinamica capitalistica in base alla ricorsività (La Grassa), eccetera. Ma, soprattutto, ed è questa per me la cosa più importante, si rompe con la sapienziale ineffabilità dell’incomprensione e dell’impossibilità di trasformazione sociale. La verità è sempre unità di teoria e di prassi, di diagnosi e di terapia. È questo il messaggio che manda al lettore il saggio di Orso (e spero anche la mia introduzione).