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Cat.n. 178

Vasco Ferretti

Epos/Eros. Opera poetica in sette canti. Introduzione di Pietro Pancioli. Postfazione di Roberto Carifi.

2011, pp. 96, formato 130x210 mm., Euro 10.

In copertina: J. Mirò, Disegno (1981) con dedica dell’autore.

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10,00

Il motivo del viaggio, antico e intrigante, con tutte le sue metafore, allusioni, rinvii e analogie, ricompare qui, accanto alla immediata referenza geografica, nella dimensione più elusiva di tragitto antropologico – nascita, iniziazione sessuale, maturazione – e di itinerario mentale dagli impulsi primigeni e disgreganti alle rive riparatrici della riflessione e della consapevolezza.

Ma al di là di questi temi esterni, individuabili a posteriori, la poesia di Vasco Ferretti sembra un percorso rituale, una “queste” dove l’inevitabile discesa alle madri, l’emersione tumultuosa, la ricerca del padre-guida (l’episcopos) è ancorata alla presenza solidamente rassicurante degli “auctores”, come se tutti gli incontri vitali fossero prefigurati e certificati dalla “correlazione oggettiva” della citazione letteraria, esibita e riciclata in una consonanza suggestiva di parole, motivi, stile.

Dunque una peregrinazione liturgica le cui stazioni sono agnizioni di lettura, un viaggio sacrale nelle terre della Colchide, alla ricerca di mitiche chiarificazioni, la pulsione viscerale di certi archetipi biologici sono le componenti principali di questa poesia dove la metafora visionaria si coniuga con la meditazione colta, rivitalizzata dalla voce familiare dell’eco letteraria dove anche la memoria privata si fa premonizione corale.

Lo strazio dell’ingiustizia, il ricordo crudele della guerra, le mistificazioni di una pace presunta, gli atroci risvolti di una società distratta e indifferente, il disagio esistenziale sono i momenti “prosastici”, contrappunto cronachistico di una vicenda poetica tutta interiore che si riversa in una versificazione sontuosa e sonora, in cui l’endecasillabo si dilata nell’alessandrino oppure si scioglie nei ritmi anapestici della scansione più colloquiale, di Pavese (“dove un tempo il verso del gufo svegliava i cortili”); e la strofa – più spesso lassa, aperta – ora si disegna nella misura geometrica di carmina figurata (Apollinaire, D. Thomas, ma ancor prima la poesia tardo-latina), ora ondeggia nel formulario a due voci della laude-ballata, ora si chiude nella gabbia della terzina, ora si affida alle cadenze ritmate del poemetto in prosa, alla affabulazione della ninna-nanna rustica, alla classica cornice del sonetto o alla nitidezza della canzone a ballo.

E verso e strofa sembrano assecondare i movimenti interni, modellandosi sul respiro dei sentimenti (vagito, grido inespresso di protesta, cantilena, indignazione, riflessione morale, esclamazione, effusione lirica).

Anche il linguaggio, turgido e solenne, ma talvolta quotidiano fino alla dimessa colloquialità, si raccoglie nei momenti di accensione in metafore brusche  e condensate (“la luce volpina del mondo”, “Le gole del vento”, “le vitree campane dell’acqua”, “La trottola d’uomo”), si concentra in parole-chiave dai grandi echi letterari (fra le tante, “aprile fra tutti è il mese più crudele”), oppure si sfuma nell’amarezza pacata del gergo che, nell’apparente provocazione di una terminologia duramente allusiva, è in realtà cifra struggente di una vicenda di traviamento e di morte narrata con pudore turbato.

Per questo, la connotazione forse più importante dell’opera di poesia di Vasco Ferretti ci sembra consistere in una vigorosa tensione di lingua e stile, con le inevitabili oltranze che la scelta del tema propone e impone, ma sedata nell’insieme dal timbro “forte”, da certo turgore livellante, dagli istituti retorici manovrati con sicura perizia, dove l’insinuazione coinvolgente delle voci «esterne» sembra postulare nel lettore, oltre a solidarietà del sentire, una sorta di complicità intellettuale: che è insieme gusto del ritrovamento della fonte e scoperta della sua nuova sorprendente vitalità.

Come dice Blanchot: «Ce qu’il importe, ce n’est pas de dire, c’est de redire et, dans cette redite, de dire claque fois ancore une premiére fois».

 

Pietro Pancioli

 

 

 

 

 

Già il prologo dichiara il tono prevalente del poemetto, la volontà di canto che lo sostiene e lo esalta. Questo, direi, è un primo dato fondamentale: Ferretti mette in gioco una materia magmatica, un vissuto ibrido e vischioso che insabbierebbe se non vi fosse lo spasimo, mai ignorato, verso il sublime, uno strappo costante che realizza la “misura” di cui il poema ha sempre bisogno per non cedere a tentazioni troppo narrative, oppure, da un altro lato, alla facile emissione vulcanica di “écriture” e di segni.

Ferretti riesce ad illuminare la sua materia di squarci lirici, creando una singolare osmosi tra la rappresentazione impietosa dell’orrore e la calma distesa del mito. L’equilibrato dosaggio di basso e sublime, dove “il massacro d’agosto” può diventare “il fiato mattutino delle mucche” e “il vortice incessante del vissuto” può perfino assolversi “nel sussurro della preghiera”, costituisce il primo importante risultato che vorrei registrare.

Un altro è il plurilinguismo, da intendersi positivamente lontano da neoavanguardismi o da istanze tardo-sperimentali. Parlerei, in primo luogo, di una “allure” arcaica, di un uso peregrino (in senso leopardiano) e straniante dell’antico. C’è un andamento eroico, tragico-sacrificale che mi fa pensare a La conte de Lisle, ma giustamente compromesso con un tessuto moderno, conflittuale, certamente più vicino a Pound o a Dylan Thomas.

L’effetto straniante è determinato, dunque, in primo luogo, da un cortocircuito stilistico, dallo stridore binario tra forma arcaica e contenuto moderno-metropolitano.

All’interno di questa struttura binaria agisce un linguaggio multidimensionale, un trasversalismo linguistico in cui è possibile incontrare echi del sonetto foscoliano accanto all’irruzione improvvisa e deflagrante delle forme gergali e vernacolari.

Perfino la laude di Jacopone, nella stanza XI del III canto, viene recuperata e naturalmente falsificata quanto basta a farne uno dei tanti grumi implosivi ed eterogenei del testo.

Ferretti, infine, non trascura nemmeno l’elemento iconico ed in certi casi pratica il fonolinguismo quasi in funzione di rottura “ironica” di una certa gravità solenne della parola.

Roberto Carifi



Ci rivolgiamo a lettori che vogliano imparare qualcosa di nuovo, che dunque vogliano pure pensare da sé (K. Marx). – Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada (Eraclito). – ... se uno ha veramente a cuore la sapienza, non la ricerchi in vani giri, come di chi volesse raccogliere le foglie cadute da una pianta e già disperse dal vento, sperando di rimetterle sul ramo. La sapienza è una pianta che rinasce solo dalla radice, una e molteplice. Chi vuol vederla frondeggiare alla luce discenda nel profondo, là dove opera il dio, segua il germoglio nel suo cammino verticale e avrà del retto desiderio il retto adempimento: dovunque egli sia non gli occorre altro viaggio (M. Guidacci).

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