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Cat.n. 183

Linda Cesana – Costanzo Preve

Filosofia della verità e della giustizia. Il pensiero di Karel Kosík.

ISBN 978-88-7588-062-0, 2012, pp. 160, formato 170x240 mm., Euro 16 – Collana “Divergenze” [45].

In copertina: Il giovane Karel Kosík.

indice - presentazione - autore - sintesi

16,00

Prefazione

 

Il saggio che invitiamo il lettore a leggere con pazienza ed attenzione presenta a nostro avviso alcuni elementi di interesse, che vorremmo segnalare fin da subito.

In primo luogo, si tratta di un esplicito omaggio ad un grande filosofo oggi dimenticato, i cui lavori “di nicchia” sono oggi generalmente ignorati non solo dal grande circo universitario normalizzato delle facoltà di filosofia, ma anche dal destinatario ideale cui questo autore si era rivolto, cioè agli intellettuali interessati ad una alternativa credibile alla società capitalistica. Si tratta del ceco Karel Kosík, di cui abbiamo fornito anche una breve biografia ragionata. Riteniamo che Kosík meriti ampiamente questo riconoscimento postumo, per le ragioni analiticamente sviluppate in questo libro.

In secondo luogo, riteniamo che i vent’anni passati dalla catastrofica dissoluzione del cosiddetto “socialismo reale” (che comunque proponiamo di chiamare “comunismo storico novecentesco”, secondo una terminologia meno “inquinata” da contingenti ragioni ideologiche di apologia e/o di demonizzazione, oggi largamente trascorse) permettano una presa di distanza maggiore da polemiche contingenti e di breve respiro. Una grande macchina storiografica di manipolazione, funzionante in questo ventennio a pieno regime, ha abituato la giovane generazione, inevitabilmente priva di memoria storica (ma non certo di intelligenza critica, laddove però le è concesso di prendere la parola e non è schiacciata dai pregiudizi e dalle fobie della generazione filosofica precedente, ossessionata dall’elaborazione del lutto delle utopie post-moderne di origine sessantottina) a muoversi sulla base di una dicotomia truccata: a proposito del comunismo storico novecentesco veramente esistito (e non certo del comunismo innocuo ed onirico della scuola di Toni Negri) c’erano solo due posizioni, quelli che erano d’accordo (gli staliniani burocratici e trinariciuti) ed i dissidenti democratici e liberali.

Ed invece le cose non stavano affatto così. C’era anche, e soprattutto, una terza posizione, di gran lunga la più significativa e la più interessante, quella di chi si rendeva conto perfettamente delle basi fragili dell’esperimento socialista, e ritenevano di poterlo riformare radicalmente “in corso d’opera”. Costoro sono oggi condannati post mortem alla damnatio memoriae, e fra di essi si segnala particolarmente, oltre a Lukács e Bloch, anche Karel Kosík.

In terzo luogo, segnaliamo al lettore che questo saggio porta la firma di due autori, Linda Cesana, nata nel 1981, e Costanzo Preve, nato nel 1943. Se ci siamo permessi di ricordare questo dato anagrafico, è perché crediamo che esistano anche le “generazioni filosofiche”, cresciute in un clima culturale ed ideologico diverso, che si tratta appunto di segnalare, sia pur brevemente. La generazione di Costanzo Preve, approdata al dibattito filosofico negli anni Sessanta del Novecento, è stata influenzata da molti fattori oggi praticamente scomparsi, in primo luogo l’idea che il socialismo, ancora esistente, potesse essere radicalmente riformato “in corso d’opera”, senza dover pagare il prezzo di una restaurazione capitalistica ultra-liberale, come è poi di fatto avvenuto.

Purtroppo questa idea, di per sé sana e realistica (che ha ispirato oltre a Kosík, gli ultimi lavori di Lukács, Bloch e molti altri), è stata troppo spesso mescolata con progetti irreali ed estremistici, ispirati ad una lettura ideologica della rivoluzione culturale cinese maoista, oppure ad una ipertrofica fede populistica in una classe operaia divinizzata, vero e proprio totemismo sociologico.

Al contrario, la generazione filosofica di Linda Cesana, approdata alla riflessione filosofica alla svolta del millennio, è stata impregnata dall’illusione postmoderna per cui tutti i progetti “moderni” (in particolare il comunismo) non erano che patologiche «grandi narrazioni», in cui le diagnosi diverse ma convergenti, di Jean-François Lyotard e di Karl Löwith, poi perfezionate e rese più sofisticate da Sloterdijk, davano della realtà capitalistica una religiosa immagine di intrascendibilità storica e sociale, mescolando temi presi da Heidegger (l’integrale riduzione della storia della metafisica occidentale in dispositivo tecnico planetario), dalle tradizionali scuole delle élites di Mosca, Pareto e Michels (inevitabilità dell’avvento di oligarchie politiche gestionali), del disincanto weberiano (avvento di una «gabbia d’acciaio» risultante da un politeismo nichilistico e relativistico dei valori nella società contemporanea dopo la «morte della metafisica»), ecc..

Per questa ragione, ci è parso utile che questo omaggio a Kosík venisse scritto a quattro mani da appartenenti a due differenti generazioni filosofiche. Entrambi siamo però d’accordo con Hegel, che a suo tempo scrisse che la filosofia, pur apparendo fenomenicamente come il proprio tempo appreso nel pensiero, si occupa in realtà di ciò che è, ed è eternamente, e con questo ha già fin troppo da fare.

In proposito, non saranno del tutto inutili due chiarimenti, rispettivamente dedicati al problema delle “soglie di irreversibilità” nelle scienze moderne ed in filosofia, e della “congiuntura ideologica”, sia in generale sia a proposito della situazione spirituale del nostro tempo. Crediamo che il chiarimento di questi due punti metodologici preliminari ci permetterà di ritornare meglio anche su Karel Kosík.

 

 

Fra le differenze radicali fra la filosofia e le scienze moderne esiste certamente il problema dell’esistenza o meno delle soglie di irreversibilità, certamente esistente nelle scienze (sia pure in modo flessibile e problematico), ma che non esiste affatto nella storia della filosofia. Spieghiamoci meglio.

Non esiste a nostro avviso una storia unificata delle scienze (si tratta di un mito metodologico di origine positivistica), ma esistono certamente delle “storie” (al plurale) delle scienze moderne (astronomia, fisica, chimica, geologia, biologia, ecc.). In queste storie ci sono certamente crisi e rivoluzioni scientifiche (Thomas Kuhn), discussioni a proposito del criterio di falsicabilità degli enunciati scientifici (Popper, Lakatos), ma non c’è dubbio che si possa presupporre un “realismo gnoseologico” (non importa se old o new), laddove nella concreta storia umana è molto più plausibile il modello idealistico dell’unità di soggetto e di oggetto, e cioè di soggettività umana trascendentalmente ed idealmente unificata e di storia universale del genere umano, modello che sarebbe “falsificato” soltanto dalla “scoperta” (cui non crediamo assolutamente) di leggi fisicalistiche di riproduzione necessitaristica della società umana, che se esistessero comporterebbero inevitabilmente la fine della filosofia in quanto tale, e non solo di una scuola fra le altre.

In astronomia, la restaurazione di un paradigma geocentrico ci sembra impossibile, in nome proprio della soglia di irreversibilità della storia di questa disciplina.

La stessa cosa possiamo dire per l’esistenza del flogisto in chimica, per l’esistenza aristotelica di “luoghi naturali” in fisica, per l’immobilità eterna dei continenti in geologia, ecc.

È bene ovviamente che gli scienziati tornino sempre sui propri passi, e che il dubbio oltre ad essere metodico sia anche “iperbolico” (Cartesio), ma ci pare che nessun astronomo, sia pure critico, possa seriamente tornare al modello geocentrico e nessun medico possa tornare all’influenza delle maree sulle pandemie e pestilenze. Questo significa soglia di irreversibilità nelle scienze.

Questa soglia di irreversibilità esiste anche nella storia della filosofia, per cui si può ragionevolmente dire che alcune teorie filosofiche sono inesorabilmente “sorpassate”? Ma neppure per sogno! O quanto meno, noi non lo crediamo, pur appartenendo a due distinte e successive generazioni filosofiche (fra il 1943 e il 1981 sono passati 38 anni). Nella misura in cui i filosofi utilizzano risultati ricavati dalle scienze del loro tempo esistono certamente soglie di irreversibilità, per cui possiamo tranquillamente considerare archeologicamente sorpassate le teorie cosmologiche di Platone del Timeo o la teoria dei vortici di Cartesio. Ma questo non vale per le grandi oggettivazioni filosofiche, che non sono mai “sorpassate”, o il cui “sorpasso” è sempre risultato di una decisione soggettiva.

Prendiamo ad esempio il caso dell’idealismo di Platone e di quello di Hegel. Riteniamo che l’idealismo hegeliano possa rivendicare un superamento-conservazione (Aufhebung) rispetto a quello platonico, a causa di una novità storicamente intervenuta dopo la morte di Platone, e cioè la filosofia della storia universale prodotta dall’emergere della borghesia europea come classe dialetticamente “universalistica”, prima nella forma lineare ed astratta del fondamentalismo illuministico (ideologia del progresso), e poi nella forma della sua benefica autocorrezione idealistica (Ficthe, Hegel e Marx). Ma questo convincimento non potrebbe “convincere” un platonico, che avrebbe le sue ragioni “filosofiche” per non attribuire al tempo storico ed al suo scorrimento tanta importanza (e pensiamo alla critica della temporalità di Emanuele Severino, che pure non condividiamo, ma di cui riconosciamo la legittimità). In realtà, essendo l’oggetto specifico della filosofia la valutazione qualitativa della totalità espressiva dell’intero, è assolutamente impossibile applicare alla filosofia il criterio popperiano della falsificabilità degli enunciati, che sola renderebbe possibile lo stabilire delle soglie di irreversibilità.

Ma allora, se è così, perché sentiamo continuamente pontificare dai cosiddetti “esperti” che ormai alcune teorie filosofiche sono irrimediabilmente ed irreversibilmente “sorpassate”?

Si tratta di una illusione manipolatrice, spiegabile soltanto con il concetto di congiuntura ideologica. Abbiamo scritto “ideologica”, non “filosofica”, perché la filosofia, pur essendo anche storica (ma non solo “storica”, a meno che si sia appunto “storicisti”, ma non è il nostro caso), non è soltanto storica. Ma spieghiamoci meglio.

 

 

L’oggetto ed il metodo della filosofia non si riducono all’oggetto ed al metodo della ideologia, che pure dispone di un suo proprio oggetto e di un suo proprio metodo, irriducibili però e del tutto distinti da quelli propri dell’attività filosofica. L’identificazione di fatto della filosofia con l’ideologia (in questo caso con l’ideologia del proletariato) è stato forse l’errore (e staremmo per dire il “crimine” più grande) della lunga storia del marxismo, a partire purtroppo in parte dal pensiero marxiano stesso.

In Marx non esiste una coerentizzazione chiara ed univoca del rapporto fra oggetto filosofico ed oggetto ideologico, ma purtroppo anche l’esegesi più benevola giunge facilmente alla conclusione che Marx, soprattutto a partire dall’Ideologia Tedesca, ritiene “sorpassato” il campo della filosofia propriamente detta in nome di una filosofia della prassi senza sufficiente base ontologica generale (ci differenziamo qui dal giudizio del pur benemerito Lukács), assorbita completamente da una “scienza” che a poco a poco pur rivendicando il suo rapporto organico con la scienza filosofica hegeliana, scivola sempre più verso la previsionalità deterministica del modello positivistico di scienza, che in quanto tale non ha bisogno di nessuna fondazione filosofica, e tanto meno ontologica.

Se in Marx esistono ancora ambiguità lessicali e concettuali, esse spariscono nella successiva e posteriore “formazione ideologica marxista”, edificata congiuntamente da Engels e da Kautsky nel cruciale ventennio 1875-1895, ed in Lenin abbiamo la definitiva consacrazione dell’identificazione di spazio filosofico e di spazio ideologico. Le invettive smodate e furiose di Lenin in Materialismo ed Empiriocriticismo (da distinguere dal giudizio positivo che diamo sul “fatto” della rivoluzione russa del 1917) ne sono una prova.

Lenin tratta gli empiriocriticisti come cani rabbiosi anziché come interlocutori da cui si dissente, perché ritiene che il realismo gnoseologico della teoria detta del “rispecchiamento” sia ideologicamente indispensabile per garantire la “scientificità” della teoria del passaggio storico necessario dal capitalismo al socialismo.

 

 

Ammettiamo pure che questa fosse una “necessità ideologica congiunturale” (ma non lo era neppure, tanto più che Gramsci, da posizioni soreliane, parlò correttamente del 1917 come di rivoluzione contro il Capitale, ed aveva perfettamente ragione - la rivoluzione del 1917 fu un vero e proprio capolavoro di “empiriocriticismo pratico”, e per nulla affatto di “applicazione di una legge storica”, del tutto inesistente!).

Quella era la congiuntura ideologica di un secolo fa, oggi assolutamente diversa perché dominata dall’affermazione di un nuovo totalitarismo capitalistico finanziario globalizzato, che detta – sia pure in modo “indiretto” – le regole di funzionamento di tutti i principali apparati ideologici di consenso e di manipolazione, primo fra tutti l’asfissiante circo mediatico – e televisivo in particolare, ma che giunge anche a quel terminale secondario, ma non irrilevante, che sono le facoltà universitarie di filosofia, i cui meccanismi di cooptazione sono sempre prevalentemente “familistici”, pur sotto lo schermo risibile della precisione filologica, in realtà citatologica, ma contengono anche una buona misura di manipolazione ideologica congiunturale.

Si è detto che la filosofia, per sua propria natura, non può avere soglie di irreversibilità, come avviene fisiologicamente per le scienze della natura. E allora, perché dall’alto delle cattedre di filosofia, e sulle pagine culturali dei quotidiani delle oligarchie capitalistiche, i filosofi alla moda selezionati accuratamente dal circo mediatico affermano che talune posizioni filosofiche (prima fra tutte l’ontologia come teoria della verità) sono “irreversibilmente” sorpassate?

Ma è un segreto di Pulcinella! Dichiarare irreversibilmente sorpassato un autore (ad esempio Hegel e Marx, e poi “giù per li rami”: Gramsci, Kosík o Lukács) è un’operazione ideologica di potere, con cui una generazione scalza la precedente accusandola di essere solo una congrega di babbioni sorpassati.

Dopo il 1945 in Italia Gentile e Croce furono dichiarati irreversibilmente morti e sepolti per poter far largo alle nuove filosofie esistenzialistiche, empiristiche, sociologistiche ed anche “marxistiche” giunte sui furgoni militari dei vincitori della seconda guerra mondiale. Inevitabilmente, per uccidere Gentile, Croce ed il neo-idealismo bisognava uccidere anche Hegel e ridurre Marx a sociologo conflittualista (operaismo, Rieser, poi Negri, ecc.).

Le conseguenze di questa congiuntura ideologica sono ancora sotto gli occhi di tutti, ed hanno fatto soffrire chi di noi due è nato nel 1943, mentre invece chi è nata nel 1981 ne è fortunosamente scampata, sia pure per cadere sotto la nuova congiuntura alla Deleuze (Agamben, Negri, ecc.).

Gli anni Ottanta del Novecento sono anni di svolta nella congiuntura ideologica europea. Pensare che improvvisamente, per qualche strana illuminazione divina, la categoria dei filosofi accademici è passata dall’egemonia della dialettica di origine marxiana (non importa se nella variante ontologica lucacciana o in quella negativa adorniana) all’egemonia del post-moderno interpretato alla Nietzsche o alla Heidegger è veramente da trogloditi storici.

In proposito, il tema della determinazione statistica della congiuntura ideologica sui gruppi intellettuali universitari ed editoriali principali non deve essere confuso con il tema della deduzione sociale delle categorie del pensiero (Alfred Sohn-Rethel). Si tratta appunto di problematiche ben distinte. La deduzione sociale delle categorie del pensiero, che Sohn-Rethel ha avuto il merito di inaugurare, guastandola immediatamente con l’adesione ad un sociologismo relativistico anti-hegeliano ispirata all’estremismo iper-proletario degli anni Venti del Novecento, è cosa ben diversa da una interpretazione della congiuntura ideologica, che riguarda il modo con cui i gruppi intellettuali socialmente riconosciuti dal potere politico ed economico dichiarano che una certa posizione filosofica è “irreversibilmente sorpassata”, dimenticando appunto che le soglie di irreversibilità funzionano forse per la chimica, ma non certo per la filosofia e per la sua pratica.

Gli intellettuali, e quelli universitari in particolare, non occuperebbero il ruolo pubblico che occupano se non fossero, come ha affermato magistralmente Bourdieu, una frazione dominata della classe dominante (che resta ovviamente quella economico-finanziaria), senza il cui assenso non potrebbero avere accesso al sistema della manipolazione dello spettacolo (Debord). Certo, è impossibile dedurre deterministicamente non solo il movimento di ogni singolo atomo e di ogni singola molecola ma anche ogni singola cooptazione all’interno dell’apparato delle facoltà occidentali di filosofia. La “casualità” della cooptazione mafiosa o familistica è ineliminabile. E tuttavia, le regole di massima della congiuntura ideologica sono ferree.

Oggi è d’obbligo dire che l’ontologia è sorpassata, come se si trattasse di un TIR in autostrada, che la dialettica ha fallito, che Marx è interessante solo come sociologo, economista e profeta della globalizzazione, e che nessuno oggi si occupa più seriamente di brontosauri come Lukács o Kosík.

Il nostro saggio va quindi controcorrente. Per fortuna, però, sia pure di generazioni diverse, abbiamo imparato a nuotare, e per di più sappiamo anche dove è la riva.

 

La riflessione critica sull’inesistenza in filosofia di soglie di irreversibilità e sulla determinazione esterna da parte della congiuntura ideologica presente ci è utile per la nostra riproposizione di Kosík come autore esemplare non solo per la storia degli intellettuali del Novecento, ma anche per il nostro presente.

Nonostante le inevitabili insufficienze, consideriamo questo nostro complementare contributo un invito per la rilettura di un capolavoro assoluto della letteratura filosofica del Novecento come la Dialettica del Concreto di Karel Kosík. Meno nota della Dialettica Negativa di Adorno o del Nietzsche di Heidegger, essa però a nostro avviso sopravvive alla fine della congiuntura ideologica che l’ha prodotta ed ispirata, la presa d’atto di quelle che il compianto Guido Davide Neri aveva chiamato «le aporie della realizzazione», o più esattamente, della mancata realizzazione della grande promessa di riscatto economico e sociale sorta a partire dalla rivoluzione russa del 1917.

Soltanto le grandi opere filosofiche sopravvivono al clima della congiuntura ideologica che le ha permesse. Forse che Platone può essere “ridotto” alla critica aristocratico-pitagorica al cattivo funzionamento della politeia della città di Atene? Forse che Cartesio può essere “ridotto” a riflesso della manifattura industriale seicentesca? Forse che Tommaso d’Aquino può essere “ridotto” alla legittimazione domenicana del potere temporale della chiesa romana del Duecento?

E forse Marx può essere “ridotto” ad episodio terminale della secolarizzazione della escatologia giudaico-cristiana nel linguaggio dell’economia politica inglese e della filosofia classica tedesca?

Le devastazioni fatte dal riduzionismo sociologistico in filosofia sono state tsunami ed esondazioni che hanno colpito la generazione filosofica di chi, tra noi due, è nato nel 1943. Mentre hanno, per fortuna, risparmiato chi è nata nel 1981, ma che invece è stata colpita da un altro tipo di devastazione: l’assolutizzazione post-metafisica e post-moderna dell’elaborazione del lutto e del ritorno all’ovile della generazione del Sessantotto (da non confondere con l’anno domini 1968), che ha proclamato il disincanto definitivo ed irreversibile da ogni filosofia emancipativa della storia, in un crescendo iniziato prima con i Vattimo e i Rorty, e culminato negli Sloterdijk.

La dialettica del concreto di cui parla Kosík nasce e si sviluppa da una critica immanente sia alla falsa dialettica pseudo-necessitaristica e pseudo-scientifica del cosiddetto «materialismo dialettico», sia ai vari individualismi metodologici cui non sfuggiva neppure il pur volonteroso “esistenzialismo di sinistra” di Jean Paul Sartre, che anziché fondarsi sulla liberazione della vita quotidiana dal fatalismo della pseudo-concretezza, si fondava sull’impossibile mobilitazione permanente di gruppi-in-fusione costituiti da finalità-progetto in eterna e prometeica lotta contro il cosiddetto «pratico-inerte». Il male fatto da questa volonterosa ma errata fondazione filosofica è stato devastante, perché ha di fatto delegato, sia pure nel rarefatto linguaggio della filosofia, la causa della emancipazione sociale comunitaria a gruppi ideologizzati di progettisti fanatizzati. Solo chi ha conosciuto l’esito fallimentare del gruppettarismo post-sessantottino, oggi rifluito in apologeti dei bombardamenti in nome dell’esportazione coattiva dei “diritti umani”, può valutare appieno le conseguenze di un’errata impostazione filosofica, sia pure prodotta in assoluta buona fede (come fu il caso di Sartre, che il più anziano di noi due ha conosciuto personalmente).

Esattamente come Lukács, Kosík pone nella vita quotidiana delle persone “normali” (e non in avanguardie fanatizzate in preda alla falsa coscienza messianica degli agenti storici) il luogo filosofico, ed anzi ontologico, della liberazione umana. Si tratta di una vera e propria “mossa del cavallo” all’interno di una tradizione ideologizzata come quella marxista. Ma mentre Lukács cerca di conciliare l’eredità della dialettica hegeliana con il mantenimento della teoria leniniana del rispecchiamento (a nostro modesto avviso del tutto incompatibili), Kosík non si pone più questi problemi di “conciliazione”, ma cerca di elaborare una visione originale dell’eredità di Marx del tutto priva di teoria del rispecchiamento, teoria forse utile per l’epistemologia delle moderne scienze della natura, ma del tutto inadeguata ad illustrare le vicende della prassi sociale umana.

Quella di Kosík è una ontologia dell’individuo, e non certamente una variante “marxista” dell’esistenzialismo o della fenomenologia husserliana.

Ma una ontologia dell’individuo è necessariamente una ontologia dell’essere sociale e comunitario.

Le prese di distanza di Kosík da Hegel e più in generale dall’idealismo, che noi non condividiamo, devono essere ricondotte al clima storico del tempo in cui visse, in cui era una sorta di obbligo sociale conformistico ripetere che Marx era materialista, e che essendo materialista non poteva ipso facto avere nulla a che fare con l’idealismo, sia pure nella variante “nobile” di Hegel.

Qui nessuno può sottrarsi ai conformismi del proprio tempo, ed all’uso sciagurato analogico del termine “materia”. Vico aveva già scritto che «tutti gli errori in filosofia nascono come omonimi, o in linguaggio comune termini equivoci» (omnes in philosophia errores ab homonymis, vulgo aequivocis, nascuntur). E sempre Vico aveva definito i «termini equivoci» come «termini comuni a più di una cosa» (voces pluribus rebus communes).

E questo è appunto il caso del termine “materia” applicato alla storia umana, usato come metafora della determinazione in ultima istanza dell’economia (o più esattamente, della riproduzione strutturale del modo di produzione) sugli aspetti giuridici, politici, sociali e culturali.

La dialettica in Kosík è ricondotta alle determinazioni della coscienza umana da parte del contesto “materiale” dei rapporti sociali. In questo modo viene subito chiarito l’equivoco che ha permesso alla scuola di Lucio Colletti di delegittimare la dialettica, ridotta alla pretesa di riportare il mondo ad una situazione originaria nel frattempo perduta, raddrizzando così un mondo “a testa in giù”.

Può sembrare oggi strano, ed anche un po’ ridicolo, che questo sia bastato per giustificare l’abbandono del comunismo politico da parte di molti intellettuali universitari nel decennio 1970-1980, ma qui si tratta proprio solo della vichiana “boria dei dotti”, contro la quale anche la grande filosofia è del tutto impotente.

È ovvio che uno dei grandi interlocutori ideali di Kosík non poteva che essere Heidegger, anche se Heidegger non era ancora diventato di moda negli ambienti universitari italiani ed europei nell’epoca della pubblicazione della Dialettica del Concreto, e regnava ancora incontrastato l’equivoco dello “Heidegger esistenzialista” (ma non dimentichiamoci che allora regnavano perfino le interpretazioni esistenzialistiche di Hegel, segno inequivocabile del regno dell’arbitrio nel campo delle interpretazioni filosofiche).

Heidegger è un interlocutore degno di rispetto, perché è pur sempre qualcuno che ha ammesso (nella Lettera sull’umanesimo) che «Marx esperisce l’alienazione», e quindi è sempre mille volte più interessante dei filosofi che fingono che non ci sia neppure, o che sia «un concetto non sufficientemente determinato» (Habermas), oppure che sia un generico concetto giovanile precedente la «rottura epistemologica» (Althusser). E tuttavia Heidegger non può andare oltre questo cavalleresco riconoscimento, non solo e non tanto per la sua antipatia politica verso il comunismo, considerato una semplice manifestazione della nicciana volontà di potenza nella forma della tecnica industriale, ma perché il destinale e profetico annuncio che «solo un Dio può ancora salvarci» è incompatibile con una filosofia dialettica della prassi, come quella proposta da Kosík.

Oggi gran parte delle polemiche di quegli anni sono pura archeologia filosofica. Non ci siamo assolutamente ripromessi di analizzarli, perché questo comune lavoro non è, e non vuole essere, un saggio accademico di storia della filosofia, anche se ovviamente cerca lettori in tutti gli ambienti, e dunque anche in quelli universitari. Siamo consapevoli che non basta proclamare retoricamente l’attualità del pensiero di Kosík, se le condizioni della congiuntura storica non la rendessero possibile. Ma pensiamo che la congiuntura storica della delegittimazione della funzione conoscitiva e veritativa (nei tempi moderni inevitabilmente connessa al grande idealismo di Fichte, Hegel e Marx) da parte della decostruzione post-moderna è al tramonto. E poiché non solo la natura aborre il vuoto, ma anche i gruppi universitari, non è un caso che oggi le varie forme di nuovo realismo (new realism) o di filosofia della mente (mind philosophy) cerchino di prenderne il posto. Sarebbe un’occasione mancata, in quanto queste ultime non sono affatto migliori, ma addirittura peggiori, delle precedenti, in termini di destoricizzazione e di desocializzazione. Ma se qualcuno rileggerà Kosík, si accorgerà che quest’ultimo vale di più.

La scelta del titolo del libro è stata dettata dal peso che le parole verità e giustizia rivestono nella riflessione di Kosík. Alla verità che diviene nel tempo si affianca la giustizia come decenza, rispetto del limite. Se in Dialettica del concreto il filosofo utilizza spesso la parola verità, in alcune interviste e saggi degli anni Novanta del Novecento compare spesso anche la parola giustizia. Il vero e il giusto sono quindi rilegittimati ad oggetto proprio della filosofia, nella sua distinzione dall’ideologia. Nell’antica Grecia la giustizia consisteva nel mettere un freno, un argine, alla prepotenza, all’arroganza degli uomini che poteva mettere in pericolo la sopravvivenza e la riproduzione della comunità. Nell’epoca attuale dal volto dinamico della dismisura la riflessione filosofica torna ad interrogarsi con Kosík sul giusto nei termini di senso del limite attraverso la ripresa di domande sull’economia, la scienza, la tecnica che possano aprire ad una alternativa liberatoria dalla subordinazione dell’uomo al sistema di manipolazione in cui ancora oggi si trova a vivere nell’ultra-capitalismo attuale.



Ci rivolgiamo a lettori che vogliano imparare qualcosa di nuovo, che dunque vogliano pure pensare da sé (K. Marx). – Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada (Eraclito). – ... se uno ha veramente a cuore la sapienza, non la ricerchi in vani giri, come di chi volesse raccogliere le foglie cadute da una pianta e già disperse dal vento, sperando di rimetterle sul ramo. La sapienza è una pianta che rinasce solo dalla radice, una e molteplice. Chi vuol vederla frondeggiare alla luce discenda nel profondo, là dove opera il dio, segua il germoglio nel suo cammino verticale e avrà del retto desiderio il retto adempimento: dovunque egli sia non gli occorre altro viaggio (M. Guidacci).

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