Costanzo Preve è, a mio avviso, uno dei filosofi più importanti, e meno riconosciuti come tali, del nostro tempo. Pur essendosi occupato principalmente di storia della filosofia, egli non è uno dei tanti storici della filosofia specializzati in questo o quell’autore (la cui presenza è comunque sempre benemerita), di cui le università occidentali offrono molti esempi. È un pensatore originale, autore di una complessiva Storia alternativa della filosofia (questo il titolo provvisorio della sua opera maggiore, che sta per essere pubblicata sempre in questa collana), la quale riassume sistematicamente gli esiti teoretici di una vita di studi e pubblicazioni una cinquantina di libri, senza contare una sterminata pubblicistica di articoli per riviste e volumi collettanei, parte della quale edita solo all’estero ; spero realmente che quest’opera, cui l’autore tiene molto, possa portare al pieno riconoscimento del suo valore di studioso, poiché essa apre, pressoché per ogni autore e periodo storico analizzato, orizzonti ermeneutici largamente inesplorati.
Prima di essa, però, l’autore ha deciso di dare alle stampe questa Lettera sull’Umanesimo. Anziché effettuare una sintesi dei suoi contenuti, quello che mi preme innanzitutto rimarcare e che il termine “Umanesimo” rende benissimo è l’approccio educativo, “culturale” nel senso etimologico del termine, presente in tutti i libri di Preve ed in particolare in questo. Il Nostro infatti non si è qui limitato a realizzare un libro di critica della filosofia di Althusser (che pure, peraltro, sarebbe stato da solo molto significativo, poiché Althusser, in ottica marxista, è il “nome” dietro cui si cela, in ottica generale, la tendenza dominante della filosofia contemporanea, ossia la solidarietà antitetico-polare fra scienza razionalistica e postmodernità aleatoria)1. Come si può facilmente evincere anche solo dall’indice, egli dapprima si sofferma a descrivere la filosofia, la scienza e l’ideologia, “coltivando” l’animo del lettore specie il più giovane verso una chiara comprensione di questi contenuti imprescindibili; dopo di che lo trasporta verso l’Umanesimo, che è oramai da diversi anni l’orizzonte implicito della filosofia di Preve, per condurlo infine alla critica della filosofia di Althusser ed alla propria concreta proposta culturale.
Il libro è di una chiarezza esemplare, ed è da me pienamente condiviso, sicché non è il caso che io lo riassuma qui più di quanto sinteticamente ho appena fatto. Posso solo dire, al lettore cui forse maggiormente questo libro si rivolge (ossia a parte i giovani studiosi, che sono sempre il riferimento ideale dei libri di Preve il lettore “marxista” tendenzialmente althusseriano) che la parola “Umanesimo” è senza dubbio anch’essa un “nome” dietro cui si celano tante cose; le cose che, con tale termine, intende Preve, sono però tutte buone, ossia vanno tutte nella direzione della costruzione culturale di una società più armonica, comunitaria, e pertanto possono a mio avviso essere osteggiate solo pregiudizialmente, ma non a ragion veduta, ossia non dopo aver letto il testo (fermo restando, si intende, il diritto di critica). Per questo invito tutti a leggere questo libro con attenzione e rispetto, poiché da esso vi è molto da imparare.
Vorrei però, in questo breve spazio, dire qualcosa di più generale sul pensiero di Preve, e sulla sua collocazione nell’attuale panorama filosofico. Innanzitutto, scrivevo poc’anzi che spero che il riconoscimento del valore della sua opera avvenga presto, perché per chi scrive di filosofia ciò è sempre positivo; tuttavia, non sono sicuro che ciò avverrà, in quanto non sempre il tempo è galantuomo, specie se come Preve si scrive contro le tendenze fondamentali della propria epoca. L’opera di Preve subisce infatti una discreta serie di “rifiuti” ad essere semplicemente considerata, riconducibili sostanzialmente a tre: 1) dall’università, in quanto egli non è un accademico (come qualcuno dedurrà dal fatto che i suoi libri sono poveri di note a piè di pagina); 2) dal mondo intellettuale in genere, in quanto egli è pensatore radicalmente critico nei confronti del modo di produzione capitalistico; 3) dal marxismo, in quanto egli, pur essendosi occupato di Marx per un buon 70% della sua produzione filosofica, ed essendo riconosciuto come uno dei maggiori esperti viventi del pensiero di Marx, non si presta ad essere inserito nel codice teoretico sostanzialmente scientistico e storicistico del marxismo.
Preve, infatti, non si può affatto definire “marxista” in quanto i suoi riferimenti prevalenti sono oltre certamente anche a Marx i filosofi greci, Spinoza, Fichte ed Hegel; egli deve dunque essere caratterizzato come un pensatore fortemente “classico”, “tradizionale”, perché è uno dei pochi pensatori rimasti che basa la propria filosofia sulla ricerca dialettica della verità e del bene, contro tutti gli schemi del nostro tempo. Tuttavia, dal mondo intellettuale in genere, egli per coloro che lo hanno almeno sentito nominare è ancora solitamente associato al marxismo2. Ed allora può essere buona cosa, in questa introduzione, sfatare un po’ questo “mito”.
Ho già esplicitato il motivo per cui Preve non è associabile al marxismo: sia per assenza di spirito identitario, sia soprattutto per un codice teoretico differente, veritativo-umanistico anziché scientistico-storicistico. Questo suo codice si evince, oltre che da varie sue opere (mi permetto di citare soltanto Verità filosofica e critica sociale e Storia della dialettica, ambedue edite per Petite Plaisance), dall’importanza che egli attribuisce ai Greci, e soprattutto ad Aristotele, come fonte di Marx. Marx fu in effetti, come molti studiosi hanno riconosciuto (curiosamente più fra i “non marxisti” che fra i “marxisti”: penso ad esempio, fra quelli con cui sono o sono stato in rapporto, ad Umberto Galimberti, Emanuele Severino, Enrico Berti, Carmelo Vigna), un “pensatore greco”, e non solo per le sue frequenti citazioni di Aristotele, Epicuro, Democrito, Eschilo ed altri; egli lo fu nello spirito umanistico ed anticrematistico, e dunque nella sua istanza progettuale di fondo, e questo Preve lo ha capito bene.
Anche con riferimento a Platone, ed in particolare alla Repubblica, che pure nomina raramente e con freddezza, Marx si situa ad avviso sia mio che di Preve3 sulla stessa lunghezza d’onda. È infatti difficilmente negabile il fatto che egli, come Platone, partendo da una certa idea dell’uomo abbia non soltanto criticato il presente e le sue strutture, ma soprattutto cercato di favorire la costruzione reale di un mondo ideale (conforme appunto ad una certa idea, razionale e morale, di uomo); un mondo il cui raggiungimento, certo, egli riteneva non opportuno anticipare tramite ricette preferendo analizzare la dialettica storica ed agire di conseguenza , ma di cui comunque caldeggiava in ogni modo la realizzazione. Marx era infatti e non è superfluo ribadirlo, specie dopo alcune letture contemporanee che tendono ad inquadrarlo al più come un pensatore “progressista” un pensatore comunista; se non fosse stato comunista (ossia, per me come per Preve, umanista ed idealista), ovvero se non avesse desiderato apportare il proprio contributo per porre fine alle sofferenze evitabili prodotte dal modo di produzione capitalistico, forse nemmeno avrebbe compiuto quella enorme mole di studi che lo rendono uno dei pochissimi pensatori classici nel senso etimologico del termine, ossia il valore della cui opera risulta essere di una “classe” tale da farlo permanere eterno.
Vorrei ancora aggiungere alcune notazioni per ribadire non solo la mia amicizia con Preve, ma anche la mia stima nei suoi confronti. Dirò allora che, sin da quando ho cominciato ad occuparmi di filosofia, l’ho fatto accostandomi oltre che, in primis, ai testi degli autori, ma anche ai manuali di storia della filosofia, fra cui quello di Massimo Bontempelli ai libri di Costanzo Preve. Sono passati oramai quasi una ventina d’anni da allora, ma quella che, a quei tempi, fu solo una impressione, è stata poi costantemente confermata, oltre che da una pluriennale frequentazione, anche da tutte le successive letture dei testi previani, che sono fra i pochi privilegiati a poter effettuare prima della stampa (sicché sono a conoscenza di un discreto numero di inediti che spero possa vedere la luce negli anni a venire). L’impressione è sempre stata quella che, rispetto ai tanti studiosi che girano intorno alle questioni, o che si occupano delle stesse sostanzialmente solo per descriverle, Preve tratti i più importanti nodi del pensiero filosofico-politico e della realtà storico-sociale non soltanto in modo chiaro ed essenziale (il che, già, non è poco), ma soprattutto in modo “valutativo” ed “interessato”, ossia orientato ad una comprensione della verità finalizzata a favorire la realizzazione delle migliori condizioni di vita delle persone; il che significa, a mio avviso, essere realmente umanisticamente rivolti alla verità ed al bene, ovvero riprendere nel modo migliore il grande messaggio classico dei Greci. Ciò si evince in tutta questa Lettera sull’Umanesimo.
Negli anni, i libri di Preve sono a mio avviso costantemente migliorati, ossia si sono sempre più “metafisicizzati” ed “umanisticizzati” (ma Preve, pur condividendo buona parte del mio discorso come anche nel penultimo capitolo di questo libro afferma , non condivide affatto senza riserve il mio approccio di “metafisica umanistica”), oltre che “demarxistizzati” (ossia hanno sempre più perso il “marxismo” come riferimento, anche solo critico). Pensavo, intorno al 2006-2007, che la trilogia Storia della dialettica, Storia dell’etica e Storia del materialismo (Petite Plaisance) costituisse davvero l’esito ultimo, e più alto, della riflessione previana sulla storia della filosofia. Mi sbagliavo. La sua Storia alternativa della filosofia di circa seicento pagine, cui ho in precedenza accennato, rappresenta invece in questo senso un nuovo vertice; so che quanto sto per dire potrà apparire esagerato, ma sarà chiaro a breve entro il 2013, anno in cui il testo sarà pubblicato che questo libro rappresenta una interpretazione complessiva che, per la coerenza, la originalità e la profondità, non ha molto da invidiare nemmeno alle Lezioni di storia della filosofia di Hegel. Ritengo infatti che la capacità di Preve di comprendere e di interpretare, in base ad una adeguata genesi storico-sociale delle categorie (dovuta ad una conoscenza enorme, appunto, anche della storia intesa in senso ampio antica e moderna), le principali questioni filosofiche, sia letteralmente oggi senza uguali, e non solo nel nostro paese.
Preve viene talvolta criticato oltre che per alcuni motivi pretestuosi anche per il fatto di scrivere “troppo”, e dunque per comporre le proprie opere (che pure sono sempre ben argomentate e basate su una conoscenza ampia del tema trattato) un po’ di getto, senza ritornare sopra le stesse per la rifinitura finale dopo averle composte; gli si rimprovera insomma talvolta di non avere eccessiva cura delle proprie “creature”, che abbandona troppo presto al loro destino senza quella cesellatura che potrebbe consentire loro di essere molto più accurate (è la critica che gli rivolge, affettuosamente, l’amico Alessandro Monchietto). Preve, in effetti, agisce un po’ come un pittore che preferisce, sul suo consueto soggetto ossia l’analisi filosofica della storia umana nelle sue principali espressioni culturali e materiali , realizzare più quadri successivi che siano l’uno migliore dell’altro, piuttosto che comporre un solo quadro o pochi quadri perfetti; si tratta di una caratteristica tipica del suo modo di scrivere che come tale, all’età di Preve, non è certo modificabile, e che va presa come una sua peculiarità, senza che ciò costituisca un particolare problema. L’opera di Preve, così come di ogni autore, deve infatti essere valorizzata per quello che ha dato e che può dare (che per Preve è tantissimo), e non per quello che non ha dato e che avrebbe potuto dare. Io stesso ho talvolta “rimproverato” Preve di non essere stato sufficientemente sistematico sul piano teoretico, ossia di non aver adeguatamente fondato ed argomentato le proprie geniali asserzioni, ma mi sono appunto col tempo reso conto che a parte la difficoltà dell’impresa, tale per tutti a questa sintesi complessiva potranno più facilmente giungere quegli studiosi che si occuperanno, negli anni a venire, del suo pensiero4; è bene, probabilmente, non costringere Preve a questo genere di lavoro, un po’ come si fa nel calcio, in cui i fuoriclasse devono sempre essere lasciati liberi di agire come vogliono, e non costretti in schemi troppo rigidi.
Auspico, dunque, che Preve continui a scrivere molto, in quanto l’unica seria critica che si può avanzare a chi scrive molto, è quella di ripetersi: ciò non è certo buona cosa, ma non è nemmeno poi una cosa così cattiva (talvolta il ripetere giova, e le cose, inoltre, non vengono mai scritte, almeno da Preve, in modo uguale, ovvero utilizzando il famoso copia-incolla). Egli affronta infatti spesso il medesimo argomento, in vari testi, da angolazioni differenti, e per questo non può in tal senso essere criticabile. Nella mia esperienza di lettore, inoltre, mi sembra che gli autori che scrivono tanto sono anche quelli che hanno più cose da dire (penso ad Emanuele Severino, Umberto Galimberti, Enrico Berti, Giovanni Reale ed altri), mentre coloro che scrivono poco hanno solitamente anche poche cose da dire (penso ma non faccio nomi ad un gran numero di ricercatori impegnati nella stesura di testi accademici ultraspecialistici di dubbia utilità).
Vorrei inoltre rimarcare il particolare stile di scrittura di Preve; i suoi infatti non sono soltanto testi filosofici e politici impegnati, ma sono anche saggi di piacevolissima lettura. I libri del Nostro presentano in effetti spesso affermazioni ironiche ed illuminanti, oltre a riferimenti a personaggi e fatti di attualità, che rendono la prosa godibile e che non nocciono affatto alla serietà teoretica della sua opera. Anzi, poiché la lettura di testi filosofici densi come quelli di Preve è molto faticosa, mi pare che questi brevi intermezzi contribuiscano a rendere la lettura più gradevole. Da questo suo continuo intento di alleggerire la fatica del lettore, e di aiutarlo pure in questo modo a fissare il senso delle cose che dice, si evince ancora una volta il tono educativo dell’opera di Preve, rivolta appunto agli uomini tutti, anche a coloro che non possiedono una grande preparazione filosofica; tutto ciò come dovrebbe ben sapere chiunque scriva di filosofia è un dono che l’autore ci porge, ed è un dono che costa a Preve indubbiamente grande fatica, anche per le malferme condizioni di salute che lo affliggono da tempo. Di questo è bene essere consapevoli.
Preve è infine spesso criticato per la sua radicalità, ovvero per andare sempre contro (ma con valide argomentazioni) a quelli che Aristotele avrebbe chiamato gli endoxa, ovvero le opinioni più accreditate, sia nel senso comune “medio” che nel senso comune “intellettuale”. Ebbene: a parte il fatto che come affermava appunto Aristotele è giusto proprio partire dagli endoxa per sottoporli a critica, specie nelle questioni filosofico-politiche più importanti, è ancora più giusto fare questo oggi, in cui si è creato un sistema di endoxa prodotto dal modo di produzione sociale dominante che, oltre alle merci, produce appunto anche le idee e le strutture della personalità, creando endoxa ideologicamente ultrainteriorizzati.
Preve è considerato radicale nelle proprie affermazioni non solo in quanto si oppone ai luoghi comuni capitalistici dominanti, ma anche in quanto, pur essendo considerato “di sinistra”, “marxista” e “comunista”, critica i luoghi comuni dominanti della sinistra, del marxismo e del comunismo; egli, insomma, è considerato “radicale” da tutti, in quanto privo di legami di appartenenza, ma unito a doppio filo, come unico legame, alla filosofia inteso in senso classico, ossia come comprensione-valutazione della totalità sociale (da cui appunto, in questo testo, la necessaria critica alla “non filosofia” di Althusser).
All’interno, in ogni caso, di un panorama culturale asfittico e conformista, essere radicale come lo è Preve significa saper andare alla radice dei problemi e, proprio partendo dalla radice, ossia dal principio, dal fondamento sempre costituito dall’Uomo scritto con la maiuscola , riuscire a trarne le logiche conseguenze, che sovente appunto conducono al rifiuto degli endoxa principali ed a non creare vincoli di appartenenza, se non con una piccola cerchia comunitaria di amici (in questo senso, sono testimone diretto di una discreta cerchia di giovani studiosi che stanno proiettando l’interesse per il pensiero di Preve anche in ambito accademico, con dibattiti e tesi di laurea, cosa che raramente accade ad autori viventi). Il sostanziale “isolamento” vissuto da Preve all’interno del panorama filosofico nazionale, dimostrato anche dal fatto che i suoi libri sono assai raramente recensiti da quotidiani e riviste specializzate, è particolarmente duro da sopportare per ogni studioso, e può essere sostenuto solo da chi per utilizzare concetti greci sa realmente, per propria virtù, bastare a se stesso; è la virtù, insomma, propria dei forti, che sa di parlare una lingua che oggi la maggioranza degli studiosi non comprende, ma che ciò nonostante continua a esporsi, sapendo di lavorare soprattutto per il futuro, ossia per la verità e per il bene.
Indubbiamente, le tesi “forti” di Preve, paragonabili al vino schietto, non mescolato con acqua, sono difficili da assimilare per il lettore abituato al politically correct contemporaneo. Tuttavia, non accettando alcun luogo comune, ossia problematizzando tutto, Preve è oggi fra i pochi a fare filosofia nel senso più compiuto del termine, in quanto la filosofia non può accettare alcun presupposto senza prima cercare di criticarlo, e soprattutto senza saggiarne il fondamento di verità. Deve essere questo, forse, un motivo di demerito? Io credo di no, e penso dunque che Preve faccia bene, anzi benissimo, a fare quello che fa, e ritengo anche che quando speriamo in un futuro lontanissimo egli verrà a mancare, sentiremo in maniera enorme la mancanza non solo delle sue idee, ma soprattutto del suo essere un costante riferimento di corretto approccio filosofico (nel mio caso, sentirò anche la mancanza di un grande amico).
In merito dunque ad un presunto “radicalismo” di Preve, spesso critico verso le opinioni della cosiddetta “sinistra”, penso bisognerebbe da più parti iniziare a dire che il vero “estremista” è colui che difende le idee di un modo di produzione come l’attuale, basato sul denaro come unico criterio di valore, e non chi, a questo modo di produzione, cerca di porre un limite ed una misura. Non è un caso, come accennato in precedenza, che Preve si rifaccia costantemente agli antichi Greci: in loro fu infatti presente l’istanza del primato della politica sulla economia, che è poi l’istanza più filosofica in senso greco che possa esistere. Anche di questo occorre essere consapevoli.
Luca Grecchi
1 Mi permetto di rinviare, per una descrizione di questa tendenza fondamentale della filosofia contemporanea, a L. Grecchi, Il presente della filosofia nel mondo, Petite Plaisance, Pistoia, 2012, con postfazione di G. Pezzano. Il libro è stato lungamente recensito da Preve nel numero della rivista Koinè del 2012 attualmente in preparazione.
2 Significativo, in merito, quanto afferma Carmelo Vigna in C. Vigna - L. Grecchi, Sulla Verità e sul Bene, Petite Plaisance, Pistoia, 2011.
3 Mi permetto di rinviare, in merito, a C. Preve - L. Grecchi, Marx e gli antichi Greci, Petite Plaisance, 2006.
4 È in programma, con mia cura ed introduzione, un volume collettaneo intitolato Il pensiero filosofico di Costanzo Preve, che uscirà per Petite Plaisance nell’aprile 2013, in occasione del suo settantesimo compleanno. A questo volume prenderanno parte alcuni giovani studiosi, di età inferiore ai trent’anni, fra cui Andrea Bulgarelli, Linda Cesana, Diego Fusaro, Alessandro Monchietto e Giacomo Pezzano.
Introduzione di Costanzo Preve
Ho passato un periodo di almeno quindici anni della mia vita in cui mi dichiaravo filosoficamente “anti-umanista”, perché pensavo erroneamente in questo modo di essere meno “borghese” (identificando il pensiero di Hegel con la borghesia, ed identificando poi la borghesia con il capitalismo, ed infine pensando il capitalismo come un tram condotto da un tranviere chiamato “borghesia”), e quindi più “proletario” (non c’è stato niente di peggio per la mia generazione di questa sciagurata ed infondata proiezione metamorfico-mimetica).
Sono quindi stato sedotto (brevissimamente) dal pensiero anti-hegeliano di Galvano della Volpe e di Lucio Colletti, e poi in un secondo tempo (molto più a lungo) dal pensiero parimenti anti-hegeliano di Louis Althusser. Ne sono però venuto fuori attraverso una successiva riconsiderazione di Hegel, attraverso soprattutto la lettura di due incomparabili maestri, Jean Hyppolite e György Lukács. Attraverso la loro mediazione mi sono allora rimesso a leggere direttamente Hegel, in particolare i suoi due capolavori filosofici assoluti, la Fenomenologia dello Spirito e la Scienza della Logica, purtroppo in solitudine, senza avere perciò i necessari riscontri e le correzioni che si hanno in una lettura collettiva e comunitaria. L’approfondimento di Hegel mi ha infine portato ad una mia interpretazione originale del pensiero di Marx (definito come umanesimo idealistico integrale), e del marxismo successivo (definito come una variante di “sinistra” del positivismo, e pertanto di un codice teorico positivistico).
Giusta o sbagliata che sia, questa interpretazione è “caduta” in una congiuntura storica di discredito totale del marxismo (il decennio 1998-2008), di ripiegamento settario dei gruppi ideologici-identitari che continuano ad autodefinirsi “marxisti”, di scivolamento della cosiddetta “sinistra” in un pensiero totalmente post-marxista, ispirato ad una sorta di radicalismo nichilistico della modernizzazione post-borghese (e quindi posteriore alla possibilità di elaborazione filosofica della “coscienza infelice” borghese, matrice diretta del pensiero di Marx) ed ultra-capitalistica (e quindi individualistica e non-dialettica), di chiusura autoreferenziale del marxismo universitario, prevalentemente anglosassone, ecc.. In questo modo, ciò che in altri tempi avrebbe potuto essere “immesso” in una discussione pubblica, unico modo per scoprirne i difetti e le qualità, resta necessariamente una testimonianza isolata e soprattutto “silenziata” da quella che Martin Heidegger chiama la «dittatura della pubblicità», intendendo non certo gli spot pubblicitari per vendere dentifrici e scatolette di tonno, ma la pressione di una “opinione” pubblica che permette la visibilità soltanto a ciò che prima passa l’esame del Pensiero Unico e del Politicamente Corretto ferreamente gestito dalla triplice casta del ceto politico, del circo mediatico e del clero universitario, casta unificata a sua volta dall’ossequio comune alle oligarchie finanziarie che in questa fase storica governano il mondo, e soprattutto lo controllano militarmente con una rete planetaria di basi nucleari. Essendosi trasformata l’Europa in Eurolandia, è impossibile cercare salvezza rifugiandosi in una (nel frattempo scomparsa) tradizione europea.
Questo era solo il prologo politico. Passiamo ora al testo filosofico. A suo tempo, Louis Althusser pubblicò in lingua francese una Réponse à John Lewis, marxista inglese anti-althusseriano e difensore dell’umanesimo marxista, che fu tradotta in italiano con il titolo arbitrario Umanesimo e Stalinismo. Fra le altre cose, si sosteneva che lo stalinismo non era stato solo caratterizzato dall’economicismo (tesi allora molto diffusa negli ambienti del cosiddetto “maoismo europeo” da non confondersi con quello originale cinese), ma proprio da una concezione “umanistica” del marxismo. La tesi era ovviamente paradossale, ed offensiva per i milioni di russi vittime del sistema schiavistico del gulag e dei campi di lavoro siberiani (Salamov, Solzenitsyn, ecc.), ma in un certo senso coerente con il peculiare significato dato al termine da Althusser.
I giovani non conoscono più questa storia. Per aiutarli a situarla storicamente e concettualmente, scrivo qui una critica radicale del pensiero di Althusser. Non ce ne sarebbe più socialmente bisogno. L’althusserismo infatti si è suicidato politicamente e socialmente diventando una piccolissima setta universitaria, e si è suicidato teoricamente diventando una apologia della aleatorietà e della concezione di un avvento casuale del socialismo attraverso la metafora della caduta di un meteorite.
Tornarci sopra, non è frutto (uso qui un termine schiettamente althusseriano) di un “intervento teorico nella congiuntura”. Non c’è nessuna congiuntura oggi in cui sia necessario rilanciare, o viceversa criticare, l’althusserismo. Si tratta invece di approfittare dell’occasione per riproporre alcune tesi “in positivo”.
Ho scelto il titolo Lettera sull’Umanesimo parafrasando un’importante opera di Martin Heidegger del 1947. Ma mentre in quell’opera Heidegger intendeva criticare l’esistenzialismo soggettivistico (ed umanistico, appunto) di Jean-Paul Sartre, in questa mia operetta senza pretese intendo criticare non un “umanesimo”, ma un “anti-umanesimo”, quello di Louis Althusser e soprattutto dei suoi ultimi seguaci.
Il risultato è sotto gli occhi del lettore. Più critici saranno, più la discussione potrebbe essere feconda. Ma in quest’epoca della «compiuta peccaminosità» (Fichte), non si critica più, ma si usano normalmente del ridacchiamento sprezzante, del silenziamento furbesco, del “rovesciare la scacchiera”, e del “gettare la palla in tribuna”. Non importa. Bastano dieci lettori perché abbia senso scrivere un saggio filosofico.
Si sarebbe potuto entrare subito in medias res, e parlare subito della scuola di Louis Althusser. Se però il lettore è invitato a pazientare fino al sesto capitolo, è per una ragione che a suo tempo Kant compendiò in questo modo: «Se si misura la lunghezza di un libro non dal numero delle pagine, ma dal tempo che è necessario ad intenderlo, di parecchi libri si potrebbe dire che sarebbero molto più brevi, se non fossero così brevi». Ed infatti, per non lasciarsi dietro equivoci irrisolti, che poi permettono pittoreschi fraintendimenti ed urla settarie di spregio, è meglio chiarire prima i termini.
Ho cercato di farlo in due tempi. Nei primi tre capitoli ho definito l’uso personale che faccio dei tre termini di Filosofia, Scienza ed Ideologia. Chi ne vuole avere una comprensione più completa si rivolga a qualunque buon dizionario filosofico. Qui c’è soltanto l’uso che ne faccio io, senza alcuna pretesa di completezza, e soprattutto senza alcuna inutile citatologia. Nei capitoli quattro e cinque, che sono ancora più importanti dei tre precedenti, farò la necessaria distinzione fra uso filosofico ed uso ideologico del termine Umanesimo.
Buona lettura.
Costanzo Preve
Dalla Postfazione di Giacomo Pezzano
Il testo che leggerete affronta, com’è consuetudine per tutti i testi di Costanzo Preve pensatore la cui notorietà e influenza pur sotterranee sono di gran lunga maggiori di quanto l’emarginazione dal dibattito filosofico accademico contemporaneo cui è suo malgrado sottoposto faccia pensare , una moltitudine di temi (la definizione della filosofia rispetto alla scienza e all’ideologia, la questione della verità, il mondo greco, l’anticrematismo e anticapitalismo, il marxismo, la storia della filosofia e la filosofia della storia, la geopolitica, il rinnovamento della tradizione idealista, ecc.), che mi sembrano però ruotare in ultima istanza intorno all’asse della questione dell’umanesimo, che trovano dunque il loro centro di consistenza nell’interrogativo sulla natura umana. In queste pagine cercherò proprio di concentrarmi su tale questione, tenendo certamente conto dell’insieme della produzione previana, pur senza qui soffermarmi su di essa in maniera sempre esplicita, come ho invece fatto in altra sede. In particolare, tra gli innumerevoli stimoli che il presente libro offre, mi limiterò qui a selezionarne alcuni, ad attraversare i diversi percorsi dell’opera tracciando un sentiero trasversale che mira a tematizzare e discutere proprio il sopraindicato asse della natura umana.
A tal fine, mi concentrerò in particolar modo sul rapporto tra natura e storia nell’animale umano (§ 1), sulla questione dell’esposizione all’alterità, della relazione (§ 2), sul rapporto tra ideologia e natura umana (§ 3), sulla questione del rapporto tra verità e relativismo a partire dalla natura umana (§ 4) e infine sulla possibile e necessaria messa in discussione del capitalismo a partire dalla natura umana (§ 5).