Veritas e(s)t natura humana
La filosofia è creazione di concetti, ma non dobbiamo pensare che questi servano semplicemente a fornire un’accurata rappresentazione di come le cose stanno, della realtà per come essa è: i concetti hanno un’intrinseca portata «utopicamente reale», nel senso che aiutano a pensare a una realtà nuova e diversa da quella che si crede dovrebbero rappresentare. Meglio: i concetti mirano a rendere il futuro diverso, migliore, dal passato e dal presente, e contribuiscono a ciò rendendoci in grado di vedere molto semplicemente ma insieme molto radicalmente le cose in modo diverso. Se anche non ci fosse altro a favore della metafisica, la sua peculiare utilità risiederebbe già solo nella sua capacità di consegnarci e introdurci ad abiti di pensiero differenti da quelli che indossiamo, senza obbligarci alla partecipazione ma con questo obbligandoci ugualmente a fare i conti con un’altra realtà, con un altro modo di pensare e un’altra maniera di concretare la realtà. La creazione concettuale è peculiare, una civetta che sembra arrivare “a cose fatte”, sempre in ritardo, ma che proprio per questo può permettersi di guardare e andare avanti, di pro-cedere e pre-cedere: proprio come il pensiero che sembra ri-flettere “a giochi fatti” ma proprio così può proiettarsi sul gioco da fare.
Una concezione della natura umana deve i) spiegare anzi fondare la possibilità del cambiamento e dell’apertura di un nuovo mondo come possibilità più specificamente umane (deve fondare la potenzialità) e ii) così chiarire non solo innanzitutto in che senso il nostro presente storico (dunque aperto al futuro) vada in direzione della negazione dei tratti generici di tale natura, bensì in seconda battuta ancora più radicalmente e coraggiosamente mostrare come le attuali modalità di [auto(ri)]produzione socio-economiche vadano a intaccare tratti specificamente essenziali di essa. Ciò può essere fatto però solo mettendo in ultima istanza in luce come le declinazioni contemporanee del «capitalismo» (leggi: modo di [auto(ri)]produzione fondato per principio sull’accumulazione e sul profitto illimitati sull’ap-profittare) costituiscano un attentato alla natura umana in quanto tale e dunque proprio alla naturale genericità dell’animale umano. Di qui il vero elemento di “pericolo” insito nel «Capitale» e nella capillarità del suo chirurgico operare: se non viene adeguatamente compreso questo, nessun discorso filosofico, politico, sociale, etico, ecc. finanche economico potrà essere seriamente e risolutivamente imbastito. Una concezione della natura umana deve però altresì iii) permettere di passare dal semplice momento della de-fatalizzazione o de-incantamento a quello della realizzazione di alternative storiche, all’indicazione della via possibile per concretare un’altra modalità di coesistenza storica.
La natura umana viene chiamata in causa come referente e riferimento per pensare adeguatamente elementi come libertà, dignità, creatività e socialità, associati alle caratteristiche fondamentali dell’uomo, per pensare le possibilità e l’opportunità della loro realizzazione effettiva. C’è chi la invoca per affermarla; c’è chi la invoca per negarla: i primi opponendosi ai secondi e i secondi opponendosi ai primi. Questo accade perché entrambi gli “schieramenti” sono reciprocamente sordi e cechi, entrambi costruiscono dei fantocci di paglia utili da punzecchiare, abbattere e persino bruciare ma inutili ai fini della comprensione concettuale della questione in gioco.
Chi afferma l’esistenza di una natura umana lo fa contro coloro che la negherebbero in nome di un’assoluta storicità/inessenzialità e di una radicale plasticità che non solo renderebbero impossibile trovare un punto fermo in grado di stabilizzare un divenire caotico e cieco, ma che addirittura aprirebbero troppo facilmente seppur inconsapevolmente (soft version) le porte a una totale manipolabilità dell’uomo, della materia dinamicamente inerte chiamata «uomo»; chi nega l’esistenza di una natura umana lo fa contro coloro che la affermerebbero in nome di un’assoluta astoricità/essenzialità e di una radicale durezza che non solo non renderebbero ragione del divenire aperto e imprevedibile della storia, ma che addirittura, anche in questo caso, aprirebbero troppo facilmente di nuovo, seppur inconsapevolmente (soft version) le porte a una totale manipolabilità dell’uomo, della materia staticamente inerte chiamata «uomo». Ossia, se l’uomo non ha nessuna vera natura (perché ne ha molte, troppe), allora tutto è (ugualmente) possibile e il reale scompare soffocato dall’aleatorietà; se l’uomo ha una sola vera natura, allora niente è possibile e il reale scompare soffocato dalla necessità: nel primo caso chiunque potrebbe maneggiare la “molle” (non)natura dandole la forma voluta, chiunque e qualsiasi cosa avrebbe potere sugli uomini; nel secondo caso chi fosse a conoscenza dell’esatta conformazione della “dura” natura potrebbe imporne la realizzazione, chiunque e qualsiasi cosa invocante il Bene e l’Essere avrebbe potere sugli uomini.
Nel primo caso siamo in mano agli ingegneri del comportamento, all’autorità: ci danno una qualche forma, quella a loro più congeniale; nel secondo caso siamo in mano agli ingegneri del comportamento, all’autorità: ci danno la “nostra vera” forma, quella a noi stessi più congeniale.
C’è una “destra antropologica” che (quando pessimista) individua nell’egoismo naturale dell’uomo la necessità di dar vita a uno Stato che argini l’insicurezza e inibisca gli impulsi distruttivi per stabilizzare il vivere in comune o che (quando ottimista) propugna una concezione prometeica della natura umana, illimitatamente creativa (spesso solo perché in realtà infinitamente malleabile e socialmente manipolabile dallo Stato). C’è una “sinistra antropologica” che (quando pessimista) nega l’esistenza di una qualche essenza umana per contrastare il rischio di autoritarismi economicisti o tecno-scientifici e affermare l’imprevedibile produttività delle culture plurali o che (quando ottimista) individua nell’impulso empatico-simpatetico e altruistico che da sé porta alla nascita e alla conservazione (quando non all’auto-dissolvimento finale) dello Stato la specifica natura umana.
Detto da altra prospettiva: dal prometeismo sociale (siamo infinitamente liberi e creativi, nessun libro sacro può dirci cosa essere e come esserlo) alla manipolazione sociale (la società può manipolarci infinitamente) il passo è breve, così come quello dal prometeismo biologico (la nostra natura è una ed è la scienza a rivelarcela, ci sono dei limiti alla manipolabilità sociale) alla manipolazione biologica (solo il biologico va seguito e assecondato se vogliamo realizzarci, va anzi corretto e migliorato). Declinazioni contemporanee del nichilismo (immanentismo) e del dogmatismo (trascendentismo) che cercano di offuscare la dimensione in cui si muovono la natura, l’esistenza e la prassi propriamente umane: quella idealistico-trascendentale.
Da una parte la “destra”, dall’altra parte la “sinistra”; ma anche, con altro sguardo, da una parte il “sociologismo”, dall’altra parte il “biologismo”: nessuno si occupa davvero di ciò che presuppone, la natura umana. Rifiutarle: non tanto aprire e percorrere una “terza via”, ma rimettere la natura umana al centro della scena per renderla chiaramente visibile. Tentare.
Avrei potuto fare tanti nomi, avrei potuto ricordare tanti brani. Avrei voluto del tutto evitare citazioni (o tutte o nessuna), ma è talvolta difficile rinunciare a parole altrui che in senso positivo o negativo sembrano essere state in grado di focalizzare qualcosa di molto importante. I nomi più influenti sono come spesso accade quelli che non compaiono o che compaiono meno, ma la responsabilità di quanto scritto è di chi scrive: un tentativo di pensiero è sempre singolare, è la rifrazione singolare del proprio tempo, beninteso, è un pensare attraverso il proprio tempo la possibilità che questo stesso si apra a un nuovo futuro. Ho scelto di omettere i riferimenti, anche quelli ad alcuni tra i miei precedenti scritti (per certi versi preliminari, per certi versi più sistematici, per certi versi ancora troppo timidi e incoativi), mi è costato già non poco esibire qua e là qualche nome, ma è in fondo dovuto, anche se ho sofferto perché troppo spesso il nome che dice (il chi) offusca la parola detta (il cosa), finendo con l’esaltare o l’esorcizzare quest’ultima, evidentemente acriticamente e indipendentemente dal come. Faccio però affidamento al paziente, appassionato ma al contempo disinteressato spirito critico del lettore.
La struttura delle pagine che seguono può apparire disorientante, i contenuti a tratti eccessivamente icastici a tratti eccessivamente prolissi. In parte tutto ciò realizza lo scopo verso cui ho provato a indirizzare questo testo: una struttura inconsueta per cercare di mostrare le ramificazioni interne del discorso e il ritorno di una stessa questione da diverse angolature e a partire da diversi elementi; una sintesi aporetica per affermare e stimolare il pensiero chiamandolo a reagire; un ordine a prima vista quasi maniacale eppure incessantemente tempestato di fratture e soste interne. In parte tutto ciò segnala la difficoltà concettuale intrinseca al tema affrontato e il bisogno di un ulteriore sforzo di radicalità e coraggio, che tuttavia non poteva prescindere da questo primo tentativo, ambizioso e insieme cauto.
A mo’ di orientamento preliminare generale, va quantomeno detto che il filo rosso che percorre sotterraneamente o meno il tentativo è all’insegna della r(el)azionalità intesa come natura umana, concetto che consente di unire filosofia e scienza condensando in sé il tratto di genericità che esprime tale natura (né genetica, né degenere, bensì generica) rendendo l’animale umano in quanto tale potenziale, storico e necessitato al rapporto con il mondo e alla relazione con l’alterità in vista della compiuta realizzazione di sé (che è idealmente tale solo quando ogni singolarità personale umana conduce una vita buona, individualmente profonda e relazionalmente intensa). Una natura multi-dimensionale ma non per questo a-dimensionale e soprattutto per nulla mono-dimensionale se con ciò la si intende assoggettata o assoggettabile al mono-teismo del modo di produzione capitalistico, il quale anzi manifesta proprio di intaccarne la r(el)azionalità costitutiva e di cristallizarne la genericità, con il rischio paradossale di renderla così talmente fluente e scorrevole da dissolverne i limiti e la struttura. In sintesi: meno economia, una diversa economia, per una vita migliore, per una vita (più) naturalmente umana, fatta di esseri umani e non di inesistenti atomi. Non c’è individuo se non tramite la relazione (ontogeneticamente), non c’è umano se non tramite l’apertura (filogeneticamente). Per pensare tutto questo, serve una filosofia coraggiosa e radicale, proprio perché alla radice delle cose non c’è nient’altro che l’umano: una filosofia che pensi sino in fondo la natura per comprendere la natura umana e la possibilità oggi stringente necessità di (ri)articolare una rinnovata apertura comune al mondo, un diverso modo di produzione e in ultima istanza tutte le condizioni e le strade per delineare una forma di vita più naturalmente umana rispetto a quella che stiamo attualmente incarnando. Una modalità di vita nella quale in fondo non si tratta di nulla di diverso un animale umano può “far soldi” anche mentre dorme, in cui questo è divenuto non solo accettabile e accettato, ma persino desiderabile e desiderato.
Con tono volutamente provocatorio, forse non troppo, si tratta di ricominciare a pensare in che senso sia possibile affermare che noi animali umani siamo «naturalmente comunisti», se con «comunismo» si vuole nominare un modo di produzione e una forma di vita in comune che sappiano pensare l’economico come una (certo importante) delle componenti dell’esistenza umana, riportando questa a un più sincero contatto con la propria intima natura e sforzandosi di portare a manifestazione storica nel modo più netto la r(el)azionalità costitutiva dell’animale umano. D’altronde, se è vero che evolutivamente e storicamente tutte le più straordinarie conquiste cognitivo-emozionali umane (dal linguaggio alla matematica, dalla politica alla scienza, dalla filosofia all’agricoltura, ecc.) non sono il prodotto di individui che agiscono da soli ma di individui che interagiscono riconoscendosi solo così come tali, dobbiamo iniziare a riconoscere che dobbiamo essere insieme anche per litigare, anche per odiarci, anche per competere (cum-petere, le parole non mentono mai), persino per ucciderci. Possiamo fare tutti gli sforzi più sovra-umani per cessare di essere umani (come quello di edificare un modo di produzione e una forma di vita predatorie), ma non solo non riusciremo mai a liberarci della nostra umanità, anzi staremmo così addirittura ogni volta confermandola, perché ogni nostro sforzo deve attingere a ciò che di più umano c’è in noi, deve essere radicato nella nostra natura. Come lo scetticismo nichilista è il curioso tentativo di confutare razionalmente l’esistenza della ragione, così un modo storico in-umano è il fallito tentativo di negare umanamente l’umanità, di realizzare l’umanità negandone i tratti essenziali.
In fondo tutto questo scritto può essere riassunto con le principali proposizioni che lo strutturano: «1. L’umanità è la totalità degli uomini, passati, presenti e futuri»; «2. Esiste un’unica natura umana, passata, presente e futura»; «3. La natura umana (l’umanità), né semplicemente singolare né semplicemente plurale, è singolare-plurale»; «4. Il capitalismo, pur cercando a suo modo di realizzare la natura umana, non riesce a esprimerla in maniera compiuta»; «5. Un altro mondo è possibile: la possibilità è il poter essere reale del reale»; «6. La physis è tensione creativa (trans-) alla (stabilità della) forma limitata (-formazione)»; «7. La filosofia non può continuare a oscillare tra interpretieren e verändern, separarli e precludersi la possibilità di vedere il loro intimo rapporto». Aggiungo anche, però, che la sua struttura permette diversi tipi di lettura, diversi tipi di “tagli” e di “attraversamenti”: permette, per esempio, di sorvolare esclusivamente l’insieme delle 7 proposizioni principali; permette di soffermarsi su “1., 1.1., 1.2., 1.3, …, 2., 2.1, 2.2., 2.3., …”; permette di soffermarsi su “1., 1.1., 1.1.1., 1.1.1.2., 1.1.1.2.1., …, 1.2., 1.2.1., …, 2., 2.1., 2.1.1., …”; e così via; ma permette anche di concentrarsi su una soltanto delle sue 7 proposizioni fondamentali ( “3., 3.1., 3.2., 3.3., …” o anche “3., 3.1., 3.1.1., 3.1.2., 3.1.2.1., 3.2., 3.2.1., …” ecc.) o su due o su alcune tra esse. Permette cioè (oserei dire che persino richiede, a chi voglia soffermarsi a leggerla sino in fondo per criticarla radicalmente come spero accada) diversi livelli di “immersione” in essa e di problematizzazione di quanto viene affermato e proposto, diversi gradi di pazienza e di interrogazione: in ultima istanza, prova a dare un esempio concreto (letterario) di quanto affermato, dell’unicità della natura umana e della pluralità degli animali umani, permettendo (richiedendo) diversi tipi di letture e di approcci riposanti sull’unica prospettiva che l’intera opera consegna.
L’autore può essere contattato all’indirizzo e-mail
giacomo.pezzano@binario5.com