Era figlio di un funzionario che a Pietroburgo fra ministeri e dipartimenti vari aveva fatto quel tipo di carriera che sbocca alla fine in una situazione particolare: è chiarissimo che il funzionario in questione non è adatto a svolgere nessun incarico di qualsivoglia peso, tuttavia per la sua lunga anzianità di servizio e per il suo grado egli non può essere licenziato e perciò si vede assegnato un posto fittizio, inventato apposta per lui, e uno stipendio non fittizio, nell’ordine delle migliaia di rubli (da sei a dieci), grazie al quale riesce a sopravvivere fino alla più profonda vecchiaia. Così era stato per il consigliere segreto Il’jà Efimovič Golovin, membro inutile di varie istituzioni inutili.
Lev Tolstoj, La morte di Ivàn Il’ič.
I.
Forze oscure, imprecise, generate nella confusione, nell’alterazione oppiacea del consumo, generano disincanto. Le migliori energie sono tenute ai margini o bloccate in giochi sadici di manipolazione. Volti freschi, giovanili, speranzosi, si scontrano ogni giorno con un muro di falsi sotterfugi che, nell’arco di pochi mesi, li riduce in vecchi smunti e sviliti. Volontà che si appassiscono nello sfruttamento senza sosta di attenti aguzzini. Una crisi che riguarda solo i marginali e gli oppressi, la cui volontà di sollevare il capo dal fango è sempre meno determinata, sfianca ogni volontà, ogni resistenza, ogni passione. La vita di chi è solo scorre su binari precisi: sfruttamento, alienazione, senso di colpa, esclusione. Governi dei poteri tutelano unicamente se stessi e l’esclusione sistematica rientra nel prezzo da pagare.
II.
La rivolta si accende in città dai nomi arcaici la cui storia si perde nella notte dei tempi, sassi lanciati contro carri armati, fiamme di copertoni che bruciando impregnano l’aria di diossine, morti e feriti trasportati a braccia da barellieri improvvisati. Poi ancora il silenzio. Lunghi vuoti da una esplosione a un’altra. D’improvviso, dopo un rumore sordo, lo stesso spettacolo di sempre: cadaveri carbonizzati, lamiere ritorte, ambulanze che gridano nel vento il loro urlo di morte.
III.
Intanto, nei raffinati attici di città arrampicate verso il cielo, il cui nome senza storia e senza futuro rimbomba nelle desolate praterie della medialità, uomini in doppio petto, la cui vita scorre veloce sulle linee tracciate dall’eccitazione della cocaina, decidono di determinare il destino di coloro la cui vita miserabile appare, ai loro occhi, come un eco fatto di polvere.
IV.
In questo orizzonte tetro (smentito continuamente da eventi inattesi come la domanda impertinente e giocosa di un bambino, una foglia che cade, un onda che s’infrange su uno scoglio, la luce dopo la pioggia, il mare in burrasca, una nuvola bianca e spumosa, il profumo intenso di un limone, una stretta di mano, una lettera creduta perduta e poi ritrovata, una foto di momenti lontani e ingialliti, un vento che urla e molti altri fatti la cui natura irregolare e anarchica smentisce ad ogni passo, la marcia trionfale del progresso e della tecnica) ancora mi ritrovo nella solitudine del libro e del foglio, nell’intimità colorata dei segni, nelle pieghe del discorso. Attività improduttiva, insensata, lunatica.
V.
Strappare un giorno alla morte. Essere vivo con i vivi, vivo con i morti.
VI.
Dunque questo libro. L’ennesimo. Niente che possa servire a quel pietoso imbroglio chiamato letteratura. Unico gesto vivo di resistenza che ogni attimo contrappongo a quelle forze brutali che cercano di togliermi il fiato, di ammutolirmi, di escludermi dalla vita.
VII.
Anche con queste e per queste righe io vivo, membro inutile di varie istituzioni inutili.
Termini Imerese
Settembre 2012