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Cat.n. 196

Costanzo Preve

Una nuova storia alternativa della filosofia. Il cammino ontologico-sociale della filosofia.

ISBN 978-88-7588-108-5, 2013, pp. 544, formato 170x2140 mm., Euro 30 – Collana “Il giogo” [50]

In copertina: Vincent val Gogh, Autoritratto davanti al cavalletto, 1888. Amsterdam, Van Gogh Museum.

indice - presentazione - autore - sintesi

30,00

una nuova storia alternativa

della filosofia

 

Il cammino ontologico-sociale della filosofia

 

40 capitoli

 

 

Prologo

 

 

 

Il lettore è già sicuramente a conoscenza del fatto che un’Ontologia dell’Essere Sociale esiste già, ed è la grande opera redatta dal vecchio Lukács fra il 1964 ed il 1971, anno della sua morte. Essa è stata egregiamente tradotta in lingua italiana da Alberto Scarponi, che ha curato anche la traduzione dei successivi Prolegomeni. A loro volta i Prolegomeni sono una semplice riscrittura dell’Ontologia, in cui peraltro la riformulazione ripetuta degli stessi problemi porta a nuovi approfondimenti qualitativi ed a nuove prospettive critiche.

Dal momento che conservo il senso delle proporzioni, so bene che ogni compositore di musica ha diritto ad ispirarsi a Mozart ed a Beethoven, ma sarebbe incauto se pensasse di poter “eguagliare” Mozart e Beethoven. Ed io infatti non penso affatto di “eguagliare” il maestro Lukács, e neppure mi riprometto di riuscire a riformulare un’ontologia dell’essere sociale all’altezza del lavoro fatto da Lukács fra il 1964 ed il 1971. Il periodo storico è diverso ed anzi imparagonabile, perché mentre allora la prospettiva politica era ancora quella di modificare “in corso d’opera” il socialismo realmente esistente prima della sua dissoluzione catastrofica, oggi (2013) la dissoluzione è già avvenuta, e sembra irreversibile.

E tuttavia, il termine «ontologia dell’essere sociale» non è una paroletta che può soltanto connotare un’opera irripetibile, ma è una parola simile ad “estetica”, “etica”, “idealismo trascendentale”, “filosofia della storia”, “storia della filosofia”, ecc. In breve, il termine «ontologia dell’essere sociale» connota una scelta filosofica e metodologica generale, per cui non si tratta di una parola coperta da un copyright che se ne assicura così giuridicamente l’esclusiva, ma è una parola a disposizione di tutti coloro che ritengono di poterne liberamente elaborare il significato. Del resto, Platone non avrebbe mai pensato di possedere l’esclusiva del termine “repubblica”, ed Epicuro si sarebbe messo a ridere se qualcuno gli avesse proposto di brevettare il termine “natura”.

Ho quindi scelto di “impossessarmi” in parte del titolo Ontologia dell’Essere Sociale (titolando però il mio libro Per una nuova storia alternativa della filosofia) senza alcuna intenzione né di criticare Lukács, né di competere con lui, né tantomeno di pretendere di andare oltre l’altissimo livello da lui raggiunto. Il sottotitolo è stato scelto per il semplice fatto che, dovendo in qualche modo “nominare” la mia personale filosofia, oltre che la mia personale interpretazione del marxismo (che un Lukács redivivus quasi certamente non approverebbe), mi sono reso conto che quest’ultima è a tutti gli effetti una ontologia dell’essere sociale, e dunque non aveva senso ricoprirla con altri nomi fuorvianti e pomposi. Ho quindi scritto “anche” una mia personale Ontologia dell’Essere Sociale. In quanto alla sua maggiore o minore qualità filosofica, il lettore è sovrano, e giudicherà lui.

Ci sono però due piccoli fatti autobiografici che possono aiutare non certo a giudicare la qualità di questo lavoro (già Hegel diceva che tutto quanto c’era di personale nelle sue opere era falso), ma possono aiutare invece a collocare la genesi psicologica soggettiva di questa opera. In primo luogo, è possibile dire che il mio primo lavoro filosofico compiuto ed edito era già dedicato ad una monografia critico-comparativa dell’Ontologia dell’Essere Sociale (cfr., Costanzo Preve, La filosofia imperfetta, Franco Angeli, Milano, 1984). Si trattava di una monografia critica, in quanto non si limitava ad esporre analiticamente i contenuti dell’Ontologia, ma ne forniva anche interpretazioni parzialmente divergenti, secondo l’inarrivabile modello del rapporto di Marx con Hegel, che riconosceva Hegel come il suo maestro di metodo filosofico (la Scienza della Logica, ecc.), ma nello stesso tempo si permetteva di criticarlo quando lo avesse trovato opportuno. Si trattava di una monografia comparativa, perché le soluzioni date da Lukács ai principali problemi filosofici del nostro tempo erano paragonate alle soluzioni date da altri insigni filosofi (particolarmente tre, e cioè Louis Althusser, Ernst Bloch e Martin Heidegger), e la loro relativa “superiorità” non era semplicemente affermata apoditticamente, ma era argomentata a partire proprio dalla comparazione.

Questo mio lavoro del 1984 ha avuto però la sciagura di avere una titolazione incongrua ed affrettata, frutto di un consiglio maldestro datomi da un amico che non si riconosceva affatto in questa scelta. E così, anziché darle un titolo più sensato, le diedi un titolo del tutto surreale ed insensato. Tutte le filosofie sono per loro natura “imperfette”, nessuna può essere “perfetta” per il semplice fatto che non esiste alcuna “fine filosofica della storia”, ma l’ontologia dell’essere sociale restava nel 1984 (e lo è ancora nel 2013, anzi lo è più di allora) la migliore esistente nel novero delle idee del tempo. Mi scuso quindi, quasi un quarto di secolo dopo, per il titolo affrettato ed incongruo dato a quella lontana opera, da lungo tempo affidata alla critica roditrice non dei topi, ma del macero cui le case editrici mandano i volumi invenduti perché non intasino il “prezioso” spazio dei magazzini di deposito.

La stesura di quell’opera del 1984 fu per me liberatoria. A lungo avevo coltivato in precedenza una sciagurata concezione strumentale della filosofia di tipo ideologico e/o epistemologico, alla ricerca di una “vera” filosofia rivoluzionaria e proletaria (lato ideologico), e/o di una “vera” filosofia scientifica e post-metafisica (lato epistemologico). Tutto questo mi aveva portato ad oscillare in modo insensato, sterile ed improduttivo fra le due scuole di Lucio Colletti e di Louis Althusser. Avrei continuato ad oscillare senza tirar fuori un ragno dal buco se la lettura dell’ultimo Lukács non mi avesse aperto gli occhi sulla sterilità dell’oscillazione tra ideologia ed epistemologia, termini apparentemente opposti ed il realtà complementari che lo stesso Lukács mi insegnò a considerare in “solidarietà antitetico-polare”, e quindi come poli della stessa unità “alienata”.

Ci sono molte forme di “alienazione”, ovviamente, ma per quanto riguarda specificamente la filosofia l’alienazione massima e centralissima che può colpirla sta nell’accettazione di una funzione ancillare e subalterna o all’ideologia (che ha sostituito in forma depotenziata la precedente funzione ancillare e subalterna alla religione ed alla teologia) o all’epistemologia (che ha sostituito la precedente funzione ancillare e subalterna alla gnoseologia e ad ogni teoria della conoscenza e della metodologia in generale). La liberazione da questa alienazione può essere trovata dalla filosofia soltanto nel ritorno all’ontologia, e più esattamente in un ritorno all’ontologia nel senso di Aristotele e di Hegel, ritorno unito ad un’interpretazione dello spirito filosofico di Marx (spirito a volte non coincidente con la sua “lettera”) che lo ricolleghi appunto sia ad Aristotele che ad Hegel.

Dopo la pubblicazione di quest’opera, piena di difetti e connotata da un titolo inutile e fuorviante, fui considerato nei piccoli gruppi dei cultori dell’ontologia come una sorta di “lucacciano anomalo ed irregolare” (le ortodossie sono infatti sempre per natura sospettose di qualunque “deviazione” – assomigliano infatti agli atomi di Democrito e non a quelli di Epicuro). E nei successivi due decenni decisi di scendere dal nobile cavallo di cui non ero il proprietario (non potevo infatti acquistare il nobile cavallo di Hegel, Marx o Lukács), comprare a poco prezzo un asinello, e cavalcare questo asinello in piena indipendenza. La cavalcata di questo asinello è testimoniata dalle opere da me pubblicate in varie lingue europee fra il 1984 e il 2012. L’ontologia dell’essere sociale restava nello sfondo, ma non era più per me oggetto di uno specifico interesse monografico. Nel frattempo era sopravvenuta la catastrofe dissolutoria del comunismo storico novecentesco realmente esistito (1917-1991), cui Lukács era stato del tutto interno ed “organico” (uso qui il termine di Antonio Gramsci), e mi sembrò (né da allora ho più cambiato idea) che la rottura di Lukács con l’ortodossia comunista era stata ancora troppo debole ed incerta, ed era ormai necessaria una rottura molto maggiore e più “qualitativa”, in quanto per tornare allo “spirito” di Marx bisognava ormai “sbarazzarsi” della lettera del marxismo, secondo la formula radicale dell’amico recentemente scomparso Jean-Marie Vincent. Ripeto ancora che su questo punto non ho cambiato idea, ed anzi penso di avere proceduto ancora troppo poco su questa strada.

Nella prima settimana dell’ottobre 2007 ho però partecipato con due relazioni distinte al quinto Congresso Marx Internazionale tenutosi a Parigi fra la Sorbona e l’Università di Nanterre. In quell’occasione, il sabato 9 ottobre, ho partecipato ad un piccolo atelier in cui si teneva il “Colloquio Lukács”, presieduto dal più stimato lucacciano vivente, il filosofo romeno-francese Nicolas Tertulian. Ero il solo italiano, ma c’erano brasiliani, francesi, americani ed un giapponese.In quell’incontro mi resi conto che il mio abbandono degli studi ontologici era stato troppo frettoloso, e sarebbe invece valsa la pena ritornarci sopra con maggiore cura. Dall’intuizione che ebbi quella mattina del 9 ottobre 2007 è nato questo saggio. Ed il maggiore onore che avrei potuto rendere a Lukács sarebbe stato il coraggio, in questo mio attuale lavoro, di fare direttamente riferimento alla sua Ontologia dell’Essere Sociale. E così ho fatto. Il lettore dirà poi sovranamente se si è trattato di un arbitrio o di una presunzione inaccettabile.

Si tratta, ovviamente, di un’opera critica del tutto indipendente, e cioè di una mia libera interpretazione dell’ontologia dell’essere sociale. Il lettore che crede al Limbo di Dante in cui gli “spiriti magni” del passato continuano a vivere e che è possibile evocare facendo ballare i tavolini nelle sedute spiritiche potrebbe dire che un Lukács redivivus non sarebbe d’accordo in tutto o in parte con quanto scrivo. Ma chi scrive non crede in tali evocazioni, e quindi non si pone questi problemi che Kant, a proposito di Swedenborg, definì a suo tempo «sogni di un visionario».

La mia esposizione comprende una parte introduttiva e una parte storico-genetica con una ricostruzione ontologica dell’intera vicenda del pensiero occidentale dalle origini ad oggi. Rimarrà da realizzare, se sarà possibile farlo in futuro – e se non da me auspico da altri –, la parte sistematica sull’analisi ontologico-sociale del moderno capitalismo globalizzato, della sua natura e delle sue contraddizioni specifiche. In questa parte finale del prologo mi limito a riassumere la traccia sintetica di questo contenuto per fare cosa grata al lettore e permettergli di dare uno sguardo d’insieme al complesso di argomentazioni e di tesi di questo lavoro.

L’introduzione ha come oggetto il chiarimento dei due termini ontologia ed essere sociale. Il termine ontologia, il cui uso moderno deve essere contestualizzato nel suo significato polemico ed oppositivo a “gnoseologia”, ed al criticismo gnoseologico di Kant e dei suoi epigoni neokantiani in particolare, significa ristabilimento – nelle nuove condizioni e nei nuovi contesti storici – del punto di vista di Aristotele dell’unità fra categorie del pensiero e categorie dell’essere, unità infranta appunto dal criticismo e da altre scuole consimili. Questo ristabilimento, iniziato con Spinoza, si sviluppa poi con Fichte, Hegel e Marx, e Lukács deve esserne considerato solo l’ultimo sistematizzatore di buon livello.

Il termine essere sociale, a sua volta, deve essere interpretato come opposizione determinata a due impostazioni filosofiche scorrette, responsabili di due ricadute ideologiche ancora più scorrette, e cioè da un lato il “materialismo dialettico” di Engels, Lenin, Stalin e Mao, che unifica presunte (ed in realtà inesistenti) leggi della natura e della società – che in questo modo viene scorrettamente “naturalizzata” –, e dall’altro lato l’individualismo borghese anti-comunitario, definito a suo tempo da Marx «robinsonismo», che invece costruisce il concetto di società non in modo “sociale”, ma in modo programmaticamente “asociale” (individualismo possessivo, ecc.). Appare chiaro che questi tre complessi concettuali (ristabilimento dell’unità ontologica delle categorie dell’essere e delle categorie del pensiero, critica del “naturalismo” del materialismo dialettico, ed infine critica dell’individualismo anticomunitario) sono in realtà lati di un unico complesso teorico che si tratta di rifiutare consapevolmente. Per questa ragione la piena comprensione dell’Introduzione è preliminare alla comprensione analitica delle parti successive.

Offriamo dunque al lettore una ricostruzione dialettica ed ontologico-sociale dell’intera storia del pensiero occidentale a partire dai presocratici greci fino a Lukács. Che significa ricostruzione ontologico-sociale? Significa ricostruzione storico-genetica, in quanto non basta dichiarare in modo aprioristico l’unità ontologica delle categorie del pensiero e delle categorie dell’essere se poi non si riesce a dare la genesi storica e sociale di questa unità. Soltanto una ricostruzione – sia pure sommaria ed inevitabilmente con qualche errore, semplificazione ed imprecisione – della storia del pensiero filosofico occidentale, ricostruzione compiuta con il metodo dialettico della genesi sociale delle categorie, può rendere plausibile la teoria dell’unità ontologica delle categorie dell’essere e del pensiero, unica alternativa da un lato a quella che Hegel aveva definito la «dossografia della filastrocca di opinioni casuali» (dossografia con cui vengono confezionate abitualmente i manuali di storia della filosofia per i licei e per le università), e dall’altro a tutte le costituzioni aprioristiche e formalistiche del soggetto conoscente (Cogito di Cartesio, Soggetto come flusso di sensazioni e “me variopinto” di Hume, Io Penso di Kant, Soggetto come funzione energetica della volontà di potenza in Nietzsche, ecc.).

Una ricostruzione ontologico-sociale (termine equivalente a quello di “storico-genetica”) delle filosofia occidentale è preliminare (e nello stesso tempo è indispensabile) a qualunque sistematizzazione dell’ontologia dell’essere sociale applicata alla quotidianità presente. Fu questo l’approccio di Hegel, che avrebbe ritenuto insufficiente la semplice esposizione di una logica e di una filosofia del diritto senza aver svolto preliminarmente e contestualmente una storia fenomenologica dello spirito umano, una filosofia della storia in generale e soprattutto una ricostruzione della storia della filosofia alternativa alle abituali dossografie compilative ed alle noiose e diseducative filastrocche di opinioni.

Chi scrive non possiede certo la finezza interpretativa di Hegel, Marx e Lukács, ed è pienamente consapevole dei propri limiti. Nello stesso tempo, chi scrive è consapevole che alcuni suoi predecessori nel campo della ricostruzione storico-genetica delle categorie (dal tedesco Alfred Sohn-Rethel alla greca Maria Antonopoulou) hanno certamente aperto la strada, ma hanno anche fornito alcune interpretazioni discutibili, o comunque migliorabili.

Il lavoro che presentiamo al lettore è programmaticamente migliorabile, ma per poterlo migliorare ci vuole una discussione critica specifica su tutti i singoli punti presi in esame, discussione che non potrà mai avvenire se ci si “barrica” (è proprio il caso di usare questo verbo!) all’interno del bunker dei difensori della costituzione formalistica del soggetto, della separazione di principio fra le categorie dell’essere e le categorie del pensiero, della negazione positivistica del valore conoscitivo e veritativo autonomo della pratica filosofica, della riduzione della pratica filosofica stessa a ideologia e/o ad epistemologia, ed infine della concezione della storia della filosofia come filastrocca di opinioni.

 

Rimarrà da lavorare in profondità ad un’esposizione sistematica del rapporto fra il punto di vista filosofico dell’ontologia dell’essere sociale ed il mondo contemporaneo.

Questo “mondo contemporaneo” potrà essere indagato assumendo liberamente il punto di vista di Marx, da allievi indipendenti di Marx, e soggettivamente convinti di portarne avanti sia il metodo di analisi che il contenuto di pensiero. L’ordine di successione espositiva di questo successivo lavoro ancora da compiere potrà essere strutturato sulla base del primato sia del metodo di analisi sia dei contenuti di pensiero ereditati da Marx.

Ma in cosa consiste esattamente questo metodo di analisi e questo contenuto di pensiero?

Non posso certamente anticipare tali analisi in questo Prologo, ma posso riassumere a beneficio del lettore i punti fondamentali che toccano questo metodo e questo contenuto. Ogni esposizione sistematica, infatti, presuppone che una volta chiarita la genesi sociale delle categorie, esposta in questo volume, si passi a chiarire anche la natura del metodo e quella del contenuto.

Il metodo dell’ontologia dell’essere sociale non può che essere un metodo che ha come titolare un soggetto socialmente determinato e non aprioristicamente fondato in modo “eterno” (l’approccio trascendentale ha appunto la funzione di costituirlo in modo programmaticamente destoricizzato e desocializzato), e come oggetto una totalità logico-ontologica (nel senso di Hegel), costruita dialetticamente in modo rigorosamente monomondano (sempre nel senso di Aristotele e di Hegel) e non bimondano (nel senso di Platone e di Tommaso d’Aquino). E tuttavia questa totalità logico-ontologica presenta alcune ambivalenze ed alcune difficoltà. Da un lato, infatti, questa totalità è in una certa misura “sferica” e non “piramidale”, e quindi tutti gli elementi che la costituiscono dovrebbero farne parte organicamente in modo non gerarchico (nel senso, grosso modo, della totalità dialettica della Scuola di Francoforte, e di Adorno in particolare).

Dall’altro, se ci si colloca all’interno del metodo di Marx (come ha fatto a suo tempo Lukács, e come intendo fare io stesso), è impossibile evitare del tutto una concezione “topologica”, cioè caratterizzata spazialmente da un “sotto” e da un “sopra”, il “sotto” della struttura (e cioè dal rapporto all’interno di un modo di produzione determinato fra lo sviluppo delle forze produttive sociali e la natura classista dei rapporti sociali di produzione) ed il “sopra” delle sovrastrutture (forme di coscienza sociale di tipo ideologico, ecc.).

Non potendo certamente risolvere il problema del rapporto fra la concezione “sferica” e la concezione “topologica” della totalità unitaria dell’essere e del pensiero, nel lavoro futuro ancora da compiere ritengo giusto scegliere la successione di tipo topologico, per cui parto dal “sotto”, e cioè dal basso, per risalire a poco a poco verso il “sopra”, e cioè l’alto delle forme ideologiche.

Occorrerà quindi definire prima la personale concezione di modo di produzione ipercapitalistico post-borghese e post-proletario (e cioè la concezione “speculativa” di Capitale, inteso come concetto unitario), e su questa base la natura delle forze produttive sociali di questa fase storica (con annesse polemiche contro l’economicismo, o meglio le interpretazioni economicistiche di queste forze produttive, speculari alle interpretazioni fondate sulla “decrescita virtuosa”), e poi la natura dei rapporti sociali di produzione classisti, il cui “classismo” implica la ripresa aggiornata della teoria leniniana dell’imperialismo, contro le troppo rapide ed inesatte teorie di una globalizzazione mondiale post-imperialistica.

E di qui, mano a mano, occorrerà risalire alle cosiddette “sovrastrutture”, utilizzando liberamente in questa prospettiva ontologico-sociale non solo Lukács, ma anche altri pensatori marxisti e non, scelti senza alcun settarismo e spirito di parrocchia ideologica.

 

È questo un impegno di grande lena, cui occorre pepararsi in un tempo non certo breve, con studi appropriati, lavori preparatori, confronti serrati ma anche di grande respiro teoretico. Il contenuto dell’ontologia dell’essere sociale non può che essere orientato a quello che definirò “anticapitalismo radicale moderno”. Non credo quindi che si possa realmente contribuire allo sviluppo creativo dell’ontologia dell’essere sociale senza essere al contempo anche soggettivamente e politicamente anticapitalisti. È finito (ed è finito vergognosamente) il tempo in cui si poteva dire alla Hilferding che il marxismo poteva prevedere il passaggio dal capitalismo al socialismo come lo scienziato può prevedere l’eclissi del sole.

E così come l’ontologia dell’essere sociale presuppone il rifiuto del principio di Kant, secondo il quale esiste una differenza ontologica di principio fra le categorie del pensiero e le categorie dell’essere, nello stesso modo l’ontologia dell’essere sociale presuppone anche il rifiuto del principio di Hume chiamato “fallacia naturalistica”, per cui i giudizi di fatto devono essere separati in modo radicale dai giudizi di valore. In modo alternativo agli approcci di Kant e di Hume, invece, l’ontologia dell’essere sociale assume il fatto che il capitalismo è una realtà alienata, e quindi da un lato è una realtà che deve essere conosciuta con un certo grado di distacco e di oggettività (c’è infatti differenza fra la datità conoscibile dell’intelletto scientifico ed i “sogni di un visionario”), e dall’altro è una realtà negativa, alienata ed alienante.

Il giudizio che diamo della realtà sociale è quindi ad un tempo ontologico ed assiologico, un giudizio di fatto e un giudizio di valore. E questo implica il fatto che l’ontologia dell’essere sociale deve rifiutare l’approccio di almeno tre grandi pensatori, David Hume, Immanuel Kant e Max Weber, e si costituisce appunto in lotta (anche Kant riconosceva che la filosofia è un Kampfplatz, un campo di battaglia) contro questi tre approcci, che ne fanno peraltro logicamente uno solo.

Terminato questo libro, si apre dunque la porta per un successivo cammino sul terreno della ricerca e dello studio dell’ontologia dell’essere sociale che sarà quindi apertamente anticapitalistica. Si tratterà, però, di sviluppare un anticapitalismo “comunitario” adatto al nostro tempo, che non solo rifiuti l’individualismo ipercapitalistico di oggi, ma anche le varie forme di collettivismo eterodiretto di tipo carismatico sviluppato dal defunto comunismo storico novecentesco (1917-1991), del quale è però bene non dare un giudizio interamente negativo, secondo la moda dell’antitotalitarismo che infuria fra gli “intellettuali” di oggi. Chi scrive, infatti, non è in alcun modo un “intellettuale”, ma è un allievo critico ed indipendente di Marx, sostenitore di una interpretazione comunitaria del comunismo, ed è un filosofo che considera l’ontologia dell’essere sociale il punto più avanzato del pensiero contemporaneo.

Detto questo, così come i magistrati dovrebbero parlare con le loro sentenze, e non con i loro irrilevanti pronunciamenti moralistici e “manipulitistici”, nello stesso modo i filosofi non dovrebbero parlare attraverso sparate ideologico-identitarie di appartenenza, ma dovrebbero esprimersi esclusivamente attraverso le loro argomentazioni filosofiche.

E cominciamo a farlo.

 

 

Introduzione

 

Il significato filosofico del termine

«Ontologia dell’Essere Sociale»

 

 

 

 

I grandi filosofi scelgono generalmente in modo molto intelligente i titoli delle loro opere. Pensiamo a titoli come la Critica della Ragione Pura di Kant, la Fenomenologia dello Spirito di Hegel, Essere e Tempo di Heidegger. In tutti questi tre titoli è anticipato in forma sintetica il contenuto che poi verrà sviluppato in modo analitico. La stessa cosa, ovviamente, avviene per l’Ontologia dell’Essere Sociale di Lukács. Sul suo esempio, è bene che sia fatto anche per questo presente lavoro. Se si è deciso di intitolarlo sobriamente Per una nuova storia alternativa della filosofia. Il cammino ontologico-sociale della filosofia, e non in qualche altro modo bizzarro maggiormente “attualizzante”, ciò è dovuto a ragioni profonde. E questo ci porta prima a “scomporre” i due termini “ontologia” ed “essere sociale”, e poi a “ricomporli” nella loro unità espressiva. Portate a termine queste due operazioni successive di scomposizione, prima, e ricomposizione, poi, potremo considerare terminata l’Introduzione e potremo dunque iniziare il nostro cammino, prima nella sua parte storica e poi – se non io, auspico che altri lo facciano in futuro –, nella sua auspicabile parte sistematica.

Secondo il Dizionario Filosofico UTET di Nicola Abbagnano il termine «ontologia» (che non a caso l’esistenzialista neokantiano Abbagnano identifica con il termine «metafisica» – ed in questa identificazione filosoficamente e filologicamente scorretta ed arbitraria è possibile giudicare in controluce l’insieme del suo pensiero, e giudicarlo negativamente!) ricorre per la prima volta nello Schediasma Historicum di Giacomo Thomasius del 1655, e sta direttamente alla base del significato che poi ne diede Wolff, e che fu il significato che Kant criticò. Il significato “moderno” di ontologia, intesa come descrizione analitica di categorie comuni all’essere ed al pensiero, sta alla base del “trittico” di Wolff (psicologia razionale, cosmologia razionale e teologia razionale), e fu questo “trittico” ad essere investito dalla critica gnoseologica di Kant, basata come è noto sulla distinzione qualitativa (e quindi, a modo suo, “ontologica”) fra le categorie dell’essere e le categorie del pensiero. Nella parte storico-sociale di questo saggio dimostrerò (o cercherò di dimostrare) che la vittoria di Kant su Wolff non fu dovuta a casuali motivi di maggiore “performatività” soggettiva da parte di Kant su Wolff, ma ad una severa ragione storico-sociale, nella misura in cui l’ontologia di Wolff era ancora ideologicamente al servizio di una indiretta legittimazione ideologica di un potere di tipo signorile-tardofeudale, che si basava ancora su di un rapporto “fondativo” dell’Aldilà sull’Aldiquà (ed appunto per questo aveva bisogno di sostenere l’unità delle categorie dell’essere divino e del pensiero umano), mentre il “criticismo” vincitore di Kant, invece, poteva autonomizzare integralmente l’Aldiquà stesso, affidando lo stesso Aldiquà all’intelletto (Verstand), e relegando la ragione (Vernunft) all’Aldilà. Ma, data l’importanza dell’argomento, rimandiamo agli appositi capitoli il chiarimento di come la vittoria di Kant su Wolff si basava in realtà su due elementi teorici e su due funzioni sociali ed ideologiche distinte. Da un lato, essa consentiva di criticare le pretese dell’ontologia (e cioè della metafisica ontologica – per Kant come per Abbagnano si tratta della stessa cosa) di poter esercitare una funzione “normativa” sulla realtà politica e sociale protoborghese in ascesa, e questa fu la ragione del suo gigantesco successo, che dura ormai da più di duecento anni e fa tuttora di Kant il filosofo “universitario” per eccellenza, quello su cui giura in modo quasi unanime il grande circo della filosofia accademica internazionale. La gnoseologia è infatti il succedaneo della religione per questi professori senza Dio. Dall’altro, esso curiosamente, pur chiamandosi “criticismo”, permette di criticare soltanto l’Aldilà, laddove è una vera macchina da guerra teorica che non permette in alcun modo di criticare l’Aldiquà. Il criticismo, quindi, permette di criticare solo il mondo celeste, mentre non permette di criticare il mondo terrestre, e questo è infatti il motivo del suo successo anche per i prevedibili tempi futuri del breve e del medio termine (sul lungo termine, invece, nutro una moderata speranza sulla vittoria del “buoni”, di cui fanno parte sia Lukács sia il sottoscritto).

Vedremo più avanti che il termine ontologia è in proposito molto simile al termine “materialismo”, in quanto entrambi i termini hanno una genesi storica molto precisa. Il fatto che in greco antico, la lingua della nascita della filosofia occidentale, non esistessero né il termine “ontologia”, né il termine “materialismo” (nato anch’esso alla fine del Seicento e all’inizio del Settecento per opera di Bayle e di Leibniz), ma ci fossero invece già i termini to on e he hyle (rispettivamente, l’essente e la materia, o più esattamente l’essente alla luce dell’essere e la materia inscindibile nella forma), non deve affatto essere ritenuto casuale. I termini non c’erano perché i termini indicano concetti, e questi concetti (ontologia e materialismo, appunto) sono concetti pienamente moderni, prodotti da una congiuntura storico-sociale specifica ed irripetibile, quella della modernità europea borghese di tipo illuministico e pre-illuministico, che analizzeremo nello specifico.

Il pensiero greco classico non aveva bisogno di connotarsi con il termine apposito di “ontologia” perché era già integralmente “ontologico”, fondandosi appunto sull’unità delle categorie del pensiero e delle categorie dell’essere, unità che era il suo presupposto fondante integrale. Vedremo più avanti, infatti, che un’operazione di tipo criticista-kantiano nel contesto del pensiero classico era letteralmente impensabile e non concettualizzabile, e questo perché l’operazione kantiana presuppone socialmente l’esigenza di delegittimazione delle pretese normative non certo di una “religione in generale”, ma di una religione organizzata in potentissime Chiese gerarchiche e legate al potere, Chiese prodotte dalla tripartizione organizzativa del cristianesimo (cattolici, protestanti ed ortodossi). Nel mondo classico greco non esistevano né Chiese organizzate di tipo monoteistico (e neppure politeistico, come l’induismo indiano), né libri sacri di riferimento la cui interpretazione legittima era “sequestrata” da organizzazioni gerarchico-clericali, e quindi non c’era alcuno spazio per il “criticismo”, impossibile ed impensabile. Sta qui, appunto, il segreto del fatto che tutte indistintamente le scuole filosofiche dell’antichità classica erano “ontologiche”, da quelle fortemente veritative (Platone, Aristotele, Epicuro, ecc.) a quelle scettiche (sofisti, accademici, scettici, ecc.). Non era quindi necessario nel mondo antico lottare per l’ontologia, così come non è necessario per gli esquimesi “lottare” per il ghiaccio e per la neve e per i tuareg ed i beduini “lottare” per la sabbia.

Dopo Kant e dopo la grande rivoluzione criticista, che sta alla base della filosofia apologetica borghese contemporanea (lo ripeto: il criticismo è una macchina da guerra per giustificare la critica del cielo e per impedire la critica della terra), è invece ridiventato necessario lottare per il ristabilimento dell’ontologia. Questa lotta a volte sembra disperata, perché si svolge spesso contro l’intero establishment informalmente organizzato della filosofia universitaria. Lo stesso “materialismo” moderno, riproposto in modo mirabilmente sistematico da Federico Alberto Lange nel 1866, non è che una forma di neokantismo criticista, perché si basa sulla critica della pretesa di estendere la validità del pensiero umano al di là di certi limiti di tipo psicofisico. Non a caso secondo Lange il materialismo rinasce dalle sue ceneri ogni volta che l’uomo dimentica questi limiti e pretende di dare valore oggettivo a costruzioni metafisiche che hanno solo un valore fantastico e illusorio.

Esamineremo le ragioni che hanno portato il materialismo “marxista” di Engels ad adottare il significato neocriticista di Lange, anziché riprendere il significato marxiano desunto da una ripresa creativa della Scienza della Logica dell’idealista Hegel. Mentre infatti la produzione di una teoria filosofica è largamente casuale e non può essere “dedotta” – anche se questa stessa produzione individuale non sfugge neanch’essa ad una deduzione sociale generale delle categorie –, l’accettazione e/o l’emarginazione sociale di una certa concezione filosofica non è mai casuale ed aleatoria. Il significato di filosofia di Lange vince a partire dal 1866 su quello di Hegel per ragioni spietatamente storico-sociali, che cercheremo per l’appunto di esaminare analiticamente più avanti.

Se dunque nel mondo antico il punto di vista ontologico era un dato intuitivo che non aveva bisogno di “fondazioni” filosofiche di secondo grado, nel mondo moderno postkantiano esso ha invece bisogno di un ristabilimento consapevole. Questo ristabilimento consapevole è passato grosso modo per due momenti storici successivi, che indagheremo analiticamente più avanti, ma che anticipiamo già sommariamente in questa Introduzione, tracciando qui solo le linee generali di questo complesso “ristabilimento”.

Il primo grande ciclo storico di ristabilimento ontologico dell’unità fra le categorie del pensiero e le categorie dell’essere è stato caratterizzato dalla successione di tre grandi pensatori profondamente “ontologici”, e cioè Fichte, Hegel e Marx. Possiamo qui trascurare il fatto, peraltro non indifferente, per cui questi tre grandi pensatori si autorappresentavano e si autocertificavano in modo diverso, e cioè come idealista soggettivo Fichte, come idealista assoluto Hegel, ed infine come critico materialistico dell’idealismo Marx. L’autocertificazione soggettivamente sincera di un filosofo è certamente un dato da non trascurare, ma poiché sappiamo che l’ingannarsi su se stessi – per uno svariato insieme di ragioni biografiche – è un dato permanente dell’essere umano nel mondo, e nessuno vi può sfuggire (tanto meno i cosiddetti “geni”), questa autocertificazione soggettiva sincera deve essere accompagnata da una legittima interpretazione esterna, cui non si chiede che di dare spiegazioni razionali di quanto afferma (logon didonai). E la mia interpretazione sta in ciò, che Fichte, Hegel e Marx fanno parte della stessa “filiera” (come direbbe un produttore di latte e formaggi), e questa “filiera” è rappresentata dall’ontologia dell’essere sociale, e cioè dal ristabilimento dell’unità fra le categorie dell’essere e le categorie del pensiero. D’altra parte, se si vuole cominciare a “criticare” il mondo presente, questo ristabilimento è inevitabile. E vedremo che Fichte intendeva “criticare” l’epoca della compiuta peccaminosità, Hegel intendeva criticare il triangolo composto dal conservatorismo dei vecchi ceti, dall’economia politica individualistica inglese ed infine dalla “furia del dileguare” giacobino-russoviana, ed infine Marx (ça va sans dire) intendeva criticare l’alienazione capitalistica.

Per ragioni che analizzerò più avanti, dopo il 1866 e lo sviluppo del neocriticismo e del “ritorno a Kant”, Fichte ed Hegel diventano temporaneamente dei “cani morti”, e Marx non diventa invece un “cane morto”, perché viene assunto in cielo e santificato (anzi, viene fatto “Santo Subito”, come il papa polacco, Padre Pio e Madre Teresa di Calcutta) dalla socialdemocrazia tedesca di August Bebel desiderosa di padrini teorici credibili, ma l’assunzione in cielo di Marx avviene con una “aureola” di tipo positivistico e quindi neokantiano. Vedremo appunto più avanti le maestose ed inesorabili ragioni storico-sociali di tutto questo, ragioni contro cui non può nulla anche il pensatore più dotato (mi limiterò ad elencane tre: Georges Sorel, Antonio Gramsci ed appunto György Lukács).

Dopo il 1956 (destalinizzazione di Krusciov, ecc.) si apre di fatto un secondo ciclo storico di ristabilimento di un’ontologia dell’essere sociale basato anch’esso su di una riformulazione aggiornata dell’unità fra le categorie dell’essere e del pensiero. Il primo fiore promettente è stato appunto l’Ontologia dell’Essere Sociale di Lukács. Il valore di questo ristabilimento ontologico deve essere esaminato in modo “contrastivo” con altre coeve riproposizioni filosofiche, che esamineremo nell’ultima sezione di questo lavoro. Si tratta della dialettica negativa di Adorno, dello strutturalismo antidialettico di Althusser, del trotzkismo filosofico di Sartre, dell’utopia messianica di Bloch, del pessimismo di Günther Anders, del neokantismo formalistico di Bobbio e di Habermas, ecc. La grandezza relativa di Lukács appare appunto ancora più “grande” se la mettiamo in relazione con questi eminenti pensatori. Il tramonto, anch’esso relativo, del punto di vista dell’ontologia dell’essere sociale, per cui essa appare “invisibile” sulla scena “visibile” del dibattito filosofico contemporaneo – in cui appaiono invece “visibili” soltanto oggettivazioni di pensiero provocatoriamente anti-ontologiche –, può essere spiegato attraverso il metodo della deduzione sociale delle categorie. Il fatto allora che l’ontologia dell’essere sociale sia oggi “nascosta”, e visibili in primo piano siano invece altre filosofie anti-ontologiche (ermeneutica, pensiero debole, nichilismo, relativismo dei valori, filosofia analitica anglosassone, insomma, tutto il circo che Lukács considerava fondato sulla «solidarietà antitetico-polare fra l’esistenzialismo ed il neopositivismo»), sarà appunto l’oggetto delle riflessioni analitiche conclusive di questo mio lavoro.

Fin qui abbiamo analizzato il termine ontologia. Dobbiamo ora analizzare il secondo termine, quello di essere sociale. Qui il discorso appare ad un tempo concettualmente più semplice e più bisognoso di analisi plurale differenziata. Una intera parte sistematica dovrà successivamente essere scritta e dedicata ad un panorama analitico dell’attuale capitalismo ed ispirata appunto a questa nozione ontologica di essere sociale, e mi auguro che questo compito possa essere assolto. Per parte mia, in questa sede, mi limito a segnalare i tre aspetti fondamentali di questo essere sociale. Ancora una volta, questa segnalazione può essere fatta soltanto in base ad un metodo contrastivo: l’essere sociale si contrappone ad una visione puramente storicistica e sociologistica, che in quanto tale è di fatto anche nichilistica e relativistica, perché ignora che l’essere sociale ha come presupposto ontologico l’essere naturale dell’uomo, e più esattamente l’uomo come «ente naturale generico» (Gattungswesen), profilo storico-antropologico che lo mette in rapporto con il genere in quanto tale (Gattung), in base ad un rapporto definibile in termini di «conformità al genere» (Gattungsmässigkeit); l’essere sociale ha una sua specificità differenziale che lo separa dall’essere naturale, l’agire teleologico del lavoro come forma originaria (Urform) e modello (Vorbild) della prassi (Praxis), e questa specificità differenziale di tipo ontologico impedisce di parlare, come farà il materialismo dialettico di Engels, Lenin, Stalin, Trotzky e Mao, ecc., di «leggi dialettiche» comuni ed omogenee della natura e della società; infine, l’essere sociale richiede per sua natura ontologica che sia il pensiero (filosofico) che l’essere (sociale e comunitario) vengano esaminati rifiutando il punto di vista individualistico che parte appunto dall’atomo sociale originario come monade dell’intero sociale successivo, punto di vista che già Marx connotò correttamente come «robinsonismo». Da un punto di vista storico-genetico possiamo dire che lo storicismo sociologistico a base nichilistica, il criticismo gnoseologico che separa le categorie del pensiero e le categorie dell’essere, la presunta fallacia naturalistica che impedirebbe di pensare insieme la conoscenza di un fatto e la sua immediata valutazione, la naturalizzazione della società intesa semplicemente come “natura” applicata e raddoppiata, ed infine la costruzione individualistica ed atomistica della società privata in questo modo automaticamente di ogni dimensione comunitaria, ecc., fanno parte di un unico complesso filosofico unitario, che si contrappone in toto all’ontologia dell’essere sociale. Rimando per l’analisi più accurata alle pagine dei vari capitoli: concentriamoci in questa Introduzione su di una segnalazione sintetica dei tre aspetti prima indicati.

In primo luogo – come vedremo meglio più avanti – il grande progetto emancipatorio della filosofia di Karl Marx, fondato sul riconoscimento ontologico dell’esistenza dell’alienazione come dato strutturale della riproduzione capitalistica, fu più tardi colpito da alcune patologie ideologiche, le maggiori delle quali furono lo storicismo ed il sociologismo. Secondo la patologia storicistica, veniva negato lo spazio di una antropologia filosofica, con la scusa che si sarebbe trattato di una forma di “essenzialismo”, e così non si poteva ammettere l’esistenza di una essenza umana generica, che come è noto lo stesso Marx aveva connotato con il concetto inequivocabile di «ente naturale generico» (Gattungswesen). Eppure, anche ammettendo che ciò che viene definito “essenza umana” non preesista alla costituzione storica dell’uomo in comunità, e quindi non esista affatto un “Adamo nel paradiso terrestre prima del peccato originale” (cosa che sono largamente disposto ad ammettere), il carattere integralmente storico dell’essenza umana ha come presupposto biologico-antropologico il concetto fondativo di natura umana. Tipico dello storicismo è allora la riduzione integrale della natura umana alla storia, con conseguente eliminazione di questo concetto. Eppure il «genere» (Gattung) è la sintesi dialettica di natura umana e di essenza umana, e quindi è del tutto corretto e plausibile parlare per l’individuo singolo concreto di «conformità o meno al genere» (Gattungsmässigkeit). Lo storicismo rifiuta questa impostazione antropologica ed ontologica, ed attua una riduzione integrale dell’uomo alla storicità. La riduzione integrale dell’uomo alla storicità implica necessariamente la conclusione filosofica che l’uomo è al cento per cento storia, e senza la storia non è nulla, perché la storia è il suo unico fondamento. Parafrasando Lenin, diremo allora che il nichilismo è necessariamente la fase suprema dello storicismo. A sua volta, lo storicismo deve cercare in tutti i modi un criterio di autocertificazione e di autoaccertamento, e poiché non può trovarlo al di fuori di esso (avendo escluso sia Dio, sia la natura umana – e restandogli solo lo scorrere insensato della storia), cerca di trovarlo in se stesso, e generalmente lo trova nel successo o nell’insuccesso dei progetti storici. In questo modo chi vince ha ragione e chi perde ha torto. Questo esito, che in genere la monumentale ignoranza dei dilettanti e dei mestieranti attribuisce a Hegel, consacrato come papa degli storicismi nichilisti adoratori del “successo”, non può che dar luogo ad una forma di nichilismo integrale, che sfugge del tutto ai cosiddetti “laici”, e che invece viene correttamente diagnosticato dai filosofi religiosi (ad esempio il dotato Joseph Ratzinger), i quali però non potranno mai accedere ad una vera ontologia dell’essere sociale, perché non possono fare a meno di “dedurre” l’essere sociale da una preventiva creazione divina. E tuttavia, nonostante questa inevitabile carenza, il pensiero religioso resta quasi sempre (ho messo il “quasi”, perché il pensiero religioso fanatico ed integralista non è affatto migliore del laicismo, e può talvolta avere conseguenze pratiche ancora peggiori – in fondo, il professore universitario scettico è meno pericoloso del lapidatore di donne che si ritiene ispirato direttamente da Allah) migliore del pensiero derivato dal nichilismo storicistico. Sulla base della sua vergognosa idolatria del successo come unico parametro da usare per il giudizio storico (idolatria che ha come presupposto la cosiddetta “fallacia naturalistica” di Hume, che separa i fatti dai valori e nello stesso tempo fornisce ai “valori” una base puramente utilitaristica), lo storicismo è stato la componente essenziale del “cambio di campo” del ceto intellettuale sedicente “marxista” e “comunista” nel decennio 1985-1995. Se infatti l’unico criterio assiologico è il successo storico, dal momento che la storia del comunismo storico novecentesco veramente esistito (1917-1991) si è conclusa con un palese insuccesso, ne deriva che la “storia ha emesso il suo giudizio”. Chi vince è un bravo ragazzo, chi perde è una testa di … Ho scelto volutamente un’espressione volgare, perché non avevo graficamente altro modo di connotare l’incredibile ed insopportabile “volgarità” filosofica dello storicismo. Non a caso Lukács riportò ripetutamente un detto del poeta latino Marco Anneo Lucano nel suo poema Pharsalia, e cioè «causa victrix diis placuit, sed victa Catoni» (la causa vincente piacque agli dèi, ma quella vinta piacque a Catone). Non conosco in tutta la letteratura filosofica mondiale un’affermazione tanto incompatibile con lo “storicismo” di ogni tipo.

Il sociologismo è quella forma “applicata” di storicismo che aspetta la salvezza dall’azione di un soggetto definito in modo esclusivamente sociologico. Nel caso del marxismo, come è noto, se ne sono date molte varianti diverse, ma tutte basate su di un presupposto angustamente sociologistico. In Karl Marx si è trattato del lavoratore collettivo cooperativo associato, dal direttore di fabbrica all’ultimo manovale, alleato con le potenze della scienza e della tecnica, definite a sua volta dallo stesso Marx con il termine inglese di general intellect. Per il modello marxista post-marxiano classico di Engels e di Kautsky si è trattato della classe operaia, salariata e proletaria, organizzata dai socialdemocratici sia sul piano sindacale che su quello politico. Per Lenin ed i bolscevichi si trattava dello stesso soggetto di Engels e di Kautsky, che non sarebbe però mai passato dal suo «in sé» sociale al suo «per sé» politico senza la necessaria mediazione del partito politico comunista, variamente definito nella storia del marxismo successivo in termini di «intellettuale collettivo» o di «moderno Principe» (il termine, come è noto, fu coniato da Antonio Gramsci). Per Mao Tse Tung e Che Guevara, infine, il soggetto storico rivoluzionario era costituito fondamentalmente dalla classe dei contadini poveri in lotta contro l’egoismo delle metropoli imperialistiche e delle loro aristocrazie operaie egoiste e complici.

E potremmo continuare, ma non ha senso perdersi in esemplificazioni analitiche in questa Introduzione. Ciò che conta è impadronirsi del nucleo concettuale della questione. Ed esso sta in ciò, che il sociologismo è soltanto il fratello minore dello storicismo, e sta ad esso come l’attiva casalinga Marta sta alla contemplativa Maria nella parabola dei Vangeli, in cui la seconda ascolta rapita il Salvatore e la prima si dà da fare in cucina.

Il punto di vista dell’ontologia dell’essere sociale è il solo che può realmente fronteggiare le due patologie complementari dello storicismo e del sociologismo, formazioni ideologiche entrambe impotenti di fronte alle smentite storiche. E questo perché l’ontologia dell’essere sociale non nega affatto la crucialità decisiva della storia, e non nega neppure il ruolo indispensabile dei soggetti sociali organizzati, ma inserisce questi due fattori “materiali” in una “forma” senza la quale questi due fattori non possono trovare alcun fondamento. E questa «forma essenziale» (uso qui il linguaggio di Aristotele poi corretto ed integrato – ma non modificato – da Hegel) è appunto il «genere» (Gattung), che ha come specificazione antropologica e storica l’«ente naturale generico» (Gattungswesen), nel suo rapporto contraddittorio con la propria conformità o meno al genere stesso (Gattungsmässigkeit). Il genere stesso, inoltre, non è pura e vuota potenzialità riempibile all’infinito in modo relativistico (dynamis), ma è realizzazione in atto di questa potenzialità (energheia) in quanto la realizzazione in atto di questa potenzialità allude ad un contenuto, il contenuto antropologico dell’uomo come animale sociale, politico e comunitario (politikòn zoon), e dell’uomo come animale dotato di ragione, linguaggio e capacità di calcolo geometrico delle proporzioni applicato alle proporzioni sociali e comunitarie (zoon logon echon). Ma su questo ritorneremo più avanti in modo analitico e (speriamo) convincente.

In secondo luogo, l’ontologia dell’essere sociale si oppone all’indebita naturalizzazione della storia sociale compiuta dal cosiddetto «materialismo dialettico» (Diamat), il quale negava la specificità ontologica dell’essere sociale attraverso la sacralizzazione di presunte (ed in realtà inesistenti) «leggi dialettiche» unificate della natura e della storia. Nel nostro lavoro – sviluppato invece sulla base del metodo della deduzione sociale delle categorie del pensiero nella loro interfaccia filosofica ed ideologica –, segnaleremo che questa “naturalizzazione” non è stata in alcun modo un “errore”, ma è stata invece in un certo senso necessaria ed inevitabile in almeno tre congiunture storiche distinte. Primo, è stata necessaria ed inevitabile nel pensiero dei primitivi, la cui dipendenza dalla natura era talmente forte e diretta da rendere fisiologica la costruzione mentale collettiva e comunitaria di un unico complesso teorico e simbolico comprendente il macrocosmo naturale e il microcosmo sociale, in cui quest’ultimo diventava un’appendice derivante ontologicamente dal precedente. È possibile infatti – anche se paradossale – definire il pensiero dei primitivi come un «materialismo dialettico», e la deduzione sociale delle categorie permette di capire perché non avrebbe potuto in alcun modo essere una ontologia dell’essere sociale. Secondo, è stata necessaria ed inevitabile ai tempi del primo positivismo ottocentesco europeo (Auguste Comte nel 1830, ecc.), in quanto la comune ricerca di cosiddette «leggi scientifiche» – che avrebbero dovuto sostituire integralmente le vecchie «cause prime» della metafisica, per cui la sociologia umana diventava di fatto del tutto omogenea concettualmente all’astronomia, alla fisica, alla chimica ed alla biologia –, costituiva storicamente il solo modo di affermare e di legittimare il nuovo ruolo sociale di due professioni emergenti, quella del medico e quella dell’ingegnere. È noto che il medico e l’ingegnere erano due profili professionali già esistenti (ed anche generalmente ben pagati) nell’antichità, ma solo con il positivismo ottocentesco queste due figure emergono socialmente in tutta la loro interezza. Terzo, è stata necessaria ed inevitabile al tempo della costruzione staliniana del socialismo, in particolare dopo il 1929 e la scelta della collettivizzazione integrale dell’economia che richiedeva un “meccanismo unico” in cui integrare simbolicamente tutte le possibili “sovrastrutture” (storia, filosofia, letteratura, pedagogia, ecc.), da cui deriva la decisione del Comitato Centrale del PCUS del 25 gennaio 1931 di condannare ufficialmente tutte le tendenze filosofiche contrastanti con l’unica ammessa, l’interpretazione “ortodossa” del materialismo dialettico. Cercheremo di chiarire, usando il metodo della deduzione sociale delle categorie, che si trattava di una scelta sistemica e non di un errore, perché qualunque versione dell’ontologia dell’essere sociale sarebbe stata incompatibile con la «falsa coscienza necessaria» che la costruzione staliniana del socialismo portava necessariamente con sé.

In terzo luogo, l’ontologia dell’essere sociale è del tutto incompatibile con l’autorappresentazione apologetica che il pensiero borghese fa della propria genesi storica. Questa autorappresentazione apologetica si fonda su di una indebita individualizzazione del soggetto storico, sviluppata gradualmente da Hobbes, Locke, Hume e Smith (non a caso, tutti e quattro inglesi o scozzesi, in ogni caso britannici ed anglofoni), individualizzazione indebita cui si oppose precocemente Hegel, la cui filosofia politica è tutta rivolta contro questa impostazione individualizzante, che poi Marx connotò mirabilmente come «robinsonismo». Ssull’analisi di questo cruciale passaggio rimando ovviamente alle specifiche pagine del libro. Questa corrente individualistica di pensiero, tuttavia, non è neppure in grado di costruire un’accettabile ontologia dell’essere individuale, e cioè dell’ente storico moderno specifico. L’essere individuale, infatti, è un’astrazione del tutto artificiale. È vero, e ciò deve essere sottolineato, che nella modernità capitalistica l’essere individuale si rapporta direttamente e senza mediazioni “castali” al genere, e per questo dato ontologicamente irreversibile la modernità non deve essere rimossa e rifiutata con impossibili “ritorni” alla tradizione precapitalistica. Questo dato, di importanza inestimabile, sarà evidenziato perché senza la sua piena comprensione diventerebbe impossibile scrivere un’ontologia dell’essere sociale adatta ai tempi che stiamo vivendo. Ma su questo, appunto, ritorneremo più avanti.

Dopo aver “scomposto” i due termini di ontologia e di essere sociale, e dopo aver anticipato sommariamente temi che saranno sviluppati analiticamente in seguito, possiamo ora terminare questa Introduzione ricomponendoli, e si tratta allora di trovare la forma teorica più opportuna per una loro corretta ricomposizione. Ancora una volta, un riferimento ad Hegel ci sarà di aiuto.

Vi sono due affermazioni di Hegel (o meglio, due citazioni letterali documentate) che sembrano a prima vista incompatibili. Da un lato, Hegel ha affermato che «la filosofia si occupa di ciò che è, ed è eternamente, e con questo ha già fin troppo da fare». Dall’altro, Hegel afferma che «la filosofia è il proprio tempo appreso nel pensiero». Si tratta in effetti di tesi che possono sembrare inconciliabili. Che cosa è dunque la filosofia e quale è il suo oggetto specifico? Si tratta di una philosophia perennis, che nel corso del tempo storico non cambia né di metodo né di oggetto, e risponde sempre alle stesse insopprimibili esigenze dell’uomo di sensatezza della sua vita individuale e sociale, oppure si tratta di un sapere integralmente storico, ed addirittura storicistico, del tutto relativo al tempo storico ed allo spazio geografico in cui si svolge?

Quando si tratta di commentare affermazioni di un filosofo di grande valore che troviamo indiscutibilmente contraddittorie, un buon principio metodologico consiste nel ritenere che questa contraddittorietà non sia il frutto di stupidità, superficialità o distrazione, ma nasconda invece un nucleo razionale che si tratta di individuare. È vero che quandoque dormitant atque Plato et Kant et Hegel (e già gli antichi dicevano che quandoque dormitat atque Homerus, ogni tanto dormicchia anche Omero), per cui anche nei testi dei grandi filosofi si trovano distrazioni, banalità e cadute di livello. In questo caso, però, possiamo dire che questa contraddittorietà è solo apparente, e proprio dalla comprensione di questo enigma risulta la corretta natura dell’ontologia dell’essere sociale e la sua relativa superiorità rispetto alle sue grandi oggettivazioni filosofiche rivali di oggi.

Da un lato, è vero che la filosofia ha un oggetto veritativo generale, che consiste proprio in ciò che è, ed è eternamente. L’ontologia dell’essere sociale ha come oggetto l’essere sociale “in generale”, ciò che contraddistingue lo specismo umano dallo specismo animale, e quindi il minimo comun denominatore di «genere» (Gattung, Gattungswesen) che unifica le storicità differenziate dei vari e distinti modi di produzione (comunismo primitivo, antico-orientale, schiavistico, feudale, asiatico, capitalistico, socialistico-reale, ecc.), in quanto ne tratta gli elementi permanenti definiti dal rapporto del binomio essenza umana/natura umana con i modi di produzione stessi. Dall’altro, è vero che questo occuparsi di ciò che è, ed è eternamente, deve trovare la sua specifica determinazione (Bestimmung) in una società concreta, che è appunto il luogo ideale del presente storico in cui vive il filosofo. In questo senso, non è affatto contraddittorio dire che l’ontologia dell’essere sociale è il luogo in cui si uniscono insieme i due elementi della permanenza ontologica (la filosofia si occupa di ciò che è, ed è eternamente, e con questo ha già abbastanza da fare) e della storicità determinata (la filosofia è il proprio tempo appreso nel pensiero).

Abbiamo indicato così nell’Introduzione i tratti generali della nostra interpretazione dell’ontologia dell’essere sociale, certo diversa ed innovatrice rispetto a quella di Lukács, ma che crediamo non incompatibile ed anzi complementare con essa. Ma questa è solo una dichiarazione apodittica. Per poterla “giustificare” è necessario metterla alla prova prima con una ricostruzione storica della filosofia occidentale, e poi con un esame ontologico del nostro tempo da “apprendere nel pensiero”.

E allora proviamoci. Il lettore ci giudicherà.

 



Ci rivolgiamo a lettori che vogliano imparare qualcosa di nuovo, che dunque vogliano pure pensare da sé (K. Marx). – Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada (Eraclito). – ... se uno ha veramente a cuore la sapienza, non la ricerchi in vani giri, come di chi volesse raccogliere le foglie cadute da una pianta e già disperse dal vento, sperando di rimetterle sul ramo. La sapienza è una pianta che rinasce solo dalla radice, una e molteplice. Chi vuol vederla frondeggiare alla luce discenda nel profondo, là dove opera il dio, segua il germoglio nel suo cammino verticale e avrà del retto desiderio il retto adempimento: dovunque egli sia non gli occorre altro viaggio (M. Guidacci).

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