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Nota introduttiva di Margherita Guidacci
Elizabeth Bishop nacque a Worcester, Massachusetts, l’8 febbraio 1911. Quando aveva appena otto mesi, le morì il padre; quattro anni più tardi, la madre, colpita da un’incurabile malattia mentale, fu ricovetata in una clinica da cui non sarebbe più uscita.
Elizabeth trascorse la fanciullezza in parte presso la nonna materna, nella provincia canadese della Nuova Scozia; in parte con una zia, nel Massachusetts. Studiò a Natik (Mass.), poi al Vassar College, dove si diplomò in letteratura inglese nel 1934. Nello stesso anno cominciò a pubblicare su riviste, meritando l’incoraggiamento e l’autorevole avallo di Marianne Moore, una delle più alte personalità della poesia americana del primo dopoguerra, che poi le rimase amica per tutta la vita.
Dopo un anno trascorso nel Greenwich Village di New York, la Bishop iniziò la serie dei suoi innumerevoli viaggi, che l’avrebbero portata dalle regioni subartiche a quelle tropicali, dai grandi centri culturali degli Stati Uniti e dell’Europa alla natura vergine del Brasile (dove risiedette a lungo, visitandone anche le zone più primitive, come l’Amazzonia e il Mato Grosso) e di altri Stati dell’America del Sud (Messico, Perù, Ecuador ...).
A questi viaggi si alternavano soggiorni in patria: nel 1949-50 la Bishop fu consulente della Library of Congress di Washington (in quella città si trovava allora, rinchiuso nel manicomio di St. Elizabeth, Ezra Pound, che la Bishop visitò frequentemente); nel 1966 tenne un corso universitario a Seattle; negli anni Settanta, infine, fissò la sua dimora più o meno stabilmente a Boston, tenendo corsi semestrali a Harvard. Proprio a Boston la morte la colse improvvisamente, mentre si accingeva ad una lettura pubblica delle sue poesie, il 6 ottobre 1979.
Il corpus poetico della Bishop è estremamente ridotto come proporzioni quantitative. Richard Eberhart, nel 1955, calcolava che la Bishop avesse scritto in media due poesie all’anno, e non credo che neanche a un calcolo successivo questa media risulterebbe molto aumentata. Ma a questa scarsa quantità corrisponde un’eccellenza qualitativa costante, fin dalle primissime prove. I due fatti, evidentemente correlati, dimostrano quanto la Bishop fosse esigente con se stessa ed incontentabile nella sua ricerca di perfezione artistica.
Di poesie della Bishop sono stati pubblicati, durante la sua vita, i seguenti volumi: North and South nel 1946; Poems, comprendente la raccolta precedente più una nuova raccolta, A Cold Spring, nel 1955 (per questo libro l’autrice ricevette il Premio Pulitzer, uno dei più ambiti e prestigiosi di America); Questions of Travel nel 1965; The Complete Poems, che riuniva tutta la produzione bishopiana fino allora, inclusi anche alcuni inediti ed alcune traduzioni, nel 1969; Geography III nel 1976. Nello stesso anno, per la sua opera complessiva, la Bishop aveva ricevuto il premio Books Abroad Neustadt.
Alla Bishop si deve anche un’importante antologia di poeti brasiliani contemporanei (in collaborazione con Emmanuel Brasil) e la traduzione di un classico della prosa brasiliana, Minha Vida de Menina di Alice Brandt.
La Bishop ebbe la stima e l’amicizia di molti fra i più importanti poeti del tempo; oltre alla Moore e a Pound ricordiamo, tra i suoi connazionali, Randall Jarrell e Robert Lowell che furono anche fra i suoi più acuti recensori; e fra gli stranieri Pablo Neruda (che la Bishop incontrò durante il suo primo soggiorno al Messico) e Octavio Paz. Le amicizie (non solo letterarie) formarono il principale tessuto affettivo della sua vita: la Bishop, infatti, non si formò mai una famiglia, preferendo la sua libertà.
Il mondo poetico di Elizabeth Bishop è senza dubbio dominato da una componente spaziale: in armonia col temperamento di questa infaticabile viaggiatrice. Del resto i titoli stessi di tre dei suoi libri (North and South, Questions ot Travel, Geography III) stanno a confermare come questa poesia sia sempre saldamente poggiata sulla superficie terrestre e, per così dire, perfettamente iscritta nella rete dei meridiani e dei paralleli. La prima poesia del primo libro di Elizabeth, intitolata Map (Mappa), può apparirci retrospettivamente quasi un “manifesto”. Vien fatto di pensare che anche la vita della Bishop, come quella di Joseph Conrad adolescente, sia stata orientata da un atlante!
Tutte le latitudini sono state per lei stimolanti e hanno suscitato la sua valida risposta poetica; ma soprattutto quelle estreme si fanno notare per l’intensità del segno che hanno lasciato.
Una è l’alta latitudine nord della Nuova Scozia, dove, come già si è detto, la piccola Elizabeth fu allevata dopo la duplice tragedia che, in un brevissimo giro di tempo, l’aveva privata di entrambi i genitori. Alla Nuova Scozia ci riportano alcuni straordinari paesaggi marini e costieri, descritti in tutta la loro vastità e suggestione (come in The Bight, At the Fishhouses e Cape Breton in A Cold Spring); certi ricordi infantili che riaffiorano in componimenti di Questions of Travel, nella sezione intitolata Elsewhere, e l’evocazione indicibilmente complessa di una delle ultime poesie bishopiane, intitolata semplicemente Poem, e contenuta in Geography III, dove un preciso luogo dell’infanzia è ritrovato attraverso la contemplazione di un modesto quadretto (opera di un antenato pittore) i cui elementi si scaldano ed animano nella memoria fino a divenire la cosa reale, più la nostalgia, più l’arte, più la pietas verso il passato che s’irradia in qualche modo anche sul presente e sul futuro.
Il limite sud delle esperienze della Bishop è dato, ovviamente, soprattutto dal Brasile. Di questa terra di elezione, così diversa dal suo luogo di origine, la Bishop ha saputo rappresentare con altrettanta verità l’atmosfera e gli elementi, la vegetazione gigantesca ed ostile sotto un sole torrido o una pioggia battente, gli animali strani e quasi araldici (come l’armadillo della famosa poesia omonima, dedicata a Robert Lowell) e gli esseri umani, spesso disperatamente poveri, eppure sempre straordinariamente vivi, come il ragazzo Balthazár di Twelfth Morning o le donne che intrecciano una lunga conversazione sotto le finestre dell’autrice a Ouro Preto, nella poesia finale dei Complete Poems. A proposito della presenza umana nella poesia della Bishop, va osservato che essa viene sempre introdotta con una discrezione pari all’efficacia; mai esclusivamente privilegiata e tanto meno isolata da tutti gli altri elementi, vegetali, animali, perfino inanimati tra i quali la Bishop distribuisce imparzialmente la sua attenzione. Questo non la sminuisce, anzi ne accresce la potenza: dietro l’uomo vi è sempre il mondo di cui fa parte. Ed entrambi ci vengono presentati nella maniera più concreta. Nella rappresentazione bishopiana non vi è mai nessuna retorica, nessuna enfasi ideologica (populistica o pietistica), nessuna esplicita interpretazione sociologica e neppure psicologica: eppure la situazione umana balza evidente in tutte le sue implicazioni e spesso in tutto il suo pathos, semplicemente per i dettagli oggettivi che ci vengono successivamente mostrati. Si prenda, ad esempio, Squatter’s Children, un’altra poesia del ciclo brasiliano. Vediamo due bambini piccoli, intenti, quasi estaticamente, a un loro poverissimo gioco (fanno buche nella terra, con una zappa più grande di loro); sullo sfondo il pendio di un monte, una casupola da cui la voce aspra della madre continua a chiamarli, un cielo in cui si addensa un temporale. Null’altro; la Bishop non spreca una parola di commento sulla miseria degli squatters, ma le due figurette indimenticabili hanno più eloquenza di un trattato di sociologia e non ne hanno l’unilateralità: perché accanto al senso di quella miseria terribile vi è anche il senso del mistero e dello splendore dell’infanzia, del meraviglioso regno di fantasia che le compete pur sui confini della più sordida realtà. O si veda l’evocazione di Cootchie in North and South: il destino della fedele domestica negra e della sua vecchia padrona Lula ci è presentato nella maniera più casta, soltanto attraverso oggetti e colori (l’insistito, significativo incrociarsi di bianco e nero), affidando soltanto a questi e al loro rapporto l’espressione di un’infinita pietà. O si ascolti la conversazione nel retro dell’autobus che porta la Bishop dalla Nuova Scozia a Boston in The Moose: quelle voci calme e rassegnate di vecchi, fedelmente riportate, dietro le quali s’intuiscono (ma non si ostentano) tragedie.
Il riserbo della Bishop raggiunge le sue punte massime là dove si tratta principalmente di lei, cioè dove è lei la protagonista e non soltanto l’occhio che guarda o l’orecchio che ascolta. Tra le poesie più indicative di quello che Octavio Paz ha chiamato «il potere della reticenza» in Elizabeth Bishop e che la distingue così nettamente dai suoi coetanei della generazione ”confessional”, sono i componimenti legati a dolorosi ricordi della sua prima infanzia: First Death in Nova Scotia, Sestina. Più intensa è la pena che li sostanzia, più essa viene, per così dire, consegnata agli oggetti, che ne diventano gli impenetrabili custodi e depositari, mentre l’animo delle persone non viene violato. In First Death vediamo la stanza gelida, l’uccello impagliato, la tavola col marmo (simile a un lago bianco e ghiacciato), il piccolo morto, Arturo, divenuto ormai un oggetto anch’esso e paragonato a una bambola non ancora dipinta, il mughetto che Elizabeth viene invitata a mettergli in mano. Il gelo e lo stupore sono nelle cose e delle cose: ma questi elementi sono evocati e radunati con una presenza così autentica da produrre nel lettore lo stesso effetto che allora producevano su Elizabeth bambina; gli consentono una immedesimazione assoluta, quale nessuna comunicazione astratta, nessuna analisi o spiegazione dell’accaduto gli avrebbero consentito. Anche in Sestina, che è una poesia ancor più impressionante, sono gli umili oggetti a reggere ed esprimere il peso di un dolore che grava nell’aria e che non viene mai nominato (noi sappiamo che era la tragica perdita dei genitori di Elizabeth). È una poesia intrisa di lacrime: ma nella cucina dove stanno una vecchia (la nonna) e una bambina (Elizabeth) le lacrime che formano il filo conduttore della breve storia non sono piante da loro (anche la nonna le ricaccia coraggiosamente indietro per non turbare la bambina) ma sono evocate dalla pioggia che cade, dal tè nella tazza, dai bottoni della giacca di un uomo disegnato da Elizabeth (forse immagine del padre perduto), dalle lune sparse nelle pagine di un almanacco a cui sembrano a un tratto sfuggire.
Nella Bishop è sempre il particolare concreto a contenere il massimo significato e a preparare l’illuminazione. Altri esempi ma non si finirebbe mai di elencarli si possono trovare nei dettagli, sapientemente organizzati nella loro apparente casualità, che conducono alla rivelazione quasi mistica, e accompagnata da un mistico malessere, che Elizabeth, ancora bambina, sperimenta in In the Waiting Room.
La concretezza, elemento così importante per questa geografa della poesia, è garantita dall’alacrità e vigilanza che ella esercita con i suoi cinque sensi. Il senso privilegiato è la vista, come ben si conviene a una poesia dove lo spazio prevale. La traiettoria stessa del pensiero della Bishop segue in massima parte la traiettoria del suo sguardo: ad esempio in Roosters, quella costruitissima poesia che è una vera e propria “Summa” sui galli, la riflessione procede attraverso successivi quadri che traducono nettamente in fattori volumetrico‑spaziali quella che in realtà è una successione temporale, di momenti del risveglio. L’attività dello sguardo può talora concentrarsi su un’unica scena, di cui si avvertono tuttavia tutti i potenziali cambiamenti, come in Song for the Rainy Season, oppure servirsi di un oggetto in movimento, al cui interno si colloca il punto di vista, come nel caso dell’autobus su cui viaggia la Bishop in The Moose, oppure che è osservato dall’esterno, come l’altro, piccolo autobus di cui si segue il percorso nel finale di Cape Breton, o l’Uomo‑falena nella sua allucinata passeggiata notturna.
Ma se la vista è il senso principe, non per questo sono trascurati gli altri: sono tutti importantissimi in una poesia di così stupenda aderenza terrestre. Gli odori, spesso amalgamati, altrettanto spesso solisti, fanno subito presa e persistono nella memoria. Come dimenticare quel glorioso odore di pesce che pervade At the Fishhouses, in corrispondenza a quello che sul piano visivo è il luccichio di argentee squame di aringa sul coltello del vecchio che le ha appena raschiate? O le acri zaffate che si rovesciano sui letti di persone che ormai riescono a pensare a se stesse solo in termini di reciproca compravendita, nella inquinata notte industriale di Varick Street?
I rumori s’inseriscono nell’effetto generale con assoluta precisione: si tratti della ”marimba” che risuona nelle acque di The Bight, del calpestio di due zoccoli spaiati in Questions of Travel, del cinguettio dei passeri, e poi degli improvvisi scoppi che salutano l’alba in Love Lies Sleeping ... Il gusto conoscerà il sapore salmastro dell’acqua di mare in At the Fishhouses, un’acqua a cui dovremo anche indimenticabili sensazioni tattili: per la mano che vi s’immerge, essa brucia e gela insieme, come la sapienza di cui assurge a simbolo. Un altro componimento che concede molto al tatto è The Monument: dello strano monumento a cui la poesia s’ispira sembra veramente di sentire sotto le dita ogni angolo o curva, ogni minimo frastaglio. The Monument è una delle più perfette poesie della Bishop e uno straordinario exploit tecnico: vi si compie per la materia inerte qualcosa di paragonabile a quello che William Carlos Williams seppe fare per la vita vegetale in The Crimson Cyclamen. Il «manufatto» che la Bishop mette al centro della sua poesia è studiato da tutte le possibili angolazioni: nella qualità della materia grezza e scheggiata (il legno); nel nodo d’innumerevoli forme non ancora estrinsecate che suggerisce; nel suo alterarsi al variar della luce, nelle sue possibili motivazioni e destinazioni, nell’ambiguità con cui in parte ripete la natura, in parte la nega, riuscendo, contraddittoriamente, a completarla e a turbarla.
Il ”monumento” è, in un certo senso, anche un emblema delle strutture poetiche della Bishop, efficaci per aggiunte e precisazioni, fino ad un’accumulazione totale. Un metodo, sia detto per inciso, che è esattamente il contrario di quello di Emily Dickinson con la quale, chissà perché, le si sono volute trovare delle affinità che la Bishop era la prima a non sentire; la Dickinson, infatti, procede per «sottrazioni», anteriori all’atto stesso della scrittura che risulta estremamente sintetica, contenendo ormai soltanto “essenze”, rifulgenti e vertiginose nel loro isolamento.
La Bishop mi sembra piuttosto seguire il consiglio keatsiano di «riempire ogni fessura», anche se non lo fa col «minerale prezioso» e col trasfigurato estetismo di Keats, ma direi quasi con uno spirito scientifico e che s’impegna con puntigliosa esattezza per non lasciare il minimo vuoto nel resoconto delle proprie esperienze. Uno spirito avvicinabile a quello della sua amica e scopritrice Marianne Moore, che può essergliene stata inizialmente maestra, ma che corrisponde soprattutto ad una esigenza fondamentale del carattere della Bishop. La sua tecnica analitico‑agglomerativa non si manifesta infatti solo nel caso, indubbiamente esemplare, della descrizione‑costruzione di un oggetto (il monumento), noi la vediamo agire dappertutto, in qualsiasi situazione: i cui aspetti si dispiegano davanti a noi, grazie alla mediazione poetica della Bishop, come le stecche di un ventaglio che si apra, in un continuo ampliamento e una continua risistemazione di effetti. Siamo evidentemente di fronte a una struttura di base, a una matrice primaria. La ritroviamo perfino in poesie legate a fantasie e ad incubi, come Some Dreams They Forgot oppure il già citato Man‑Moth dove il libero dato surreale di partenza (addirittura un refuso di giornale!) riceve uno sviluppo di logico rigore, quasi fosse l’ipotesi di un teorema che si procede passo passo a dimostrare.
Il fatto che la Bishop tratti certi temi immaginari esattamente con lo stesso procedimento che usa nella descrizione della realtà ci apre ulteriori prospettive, oltre a confermarci la persistenza di una struttura. Ci dimostra ad esempio come per la Bishop non vi sia un confine rigido tra realtà e immaginazione: l’una e l’altra sono manifestazioni di una medesima sostanza, l’immaginazione appartiene alla realtà e la realtà appartiene all’immaginazione: ciò che importa non è stabilire una loro gerarchia, ma piuttosto constatare come entrambe siano solide e tridimensionali.
Dalla complementarità di realtà ed immaginazione derivano nella Bishop quei due fenomeni complementari che sono la «domestication» (prendo il termine dall’ottimo saggio Domestication, Domesticity and the Otherwordly di Helen Vendler) di quanto sembra esorbitare dalla normalità: l’esotico, lo strano e il terribile, recuperati dalla Bishop ad una dimensione familiare e, viceversa, la scoperta dell’ultraterreno, l’otherwordly (si veda l’apparizione dell’alce, che proprio la Bishop qualifica con l’aggettivo «otheruordly» in The Moose), nel mezzo delle più semplici esperienze. Il suo mondo ne riceve compattezza e unità, mentre viene a configurarsi, proprio per questa contiguità e coesistenza e in certi casi identificazione dell’ordinario con lo straordinario, in una luce assolutamente singolare, che rende inconfondibile ed inimitabile la Bishop. Alle tensioni o alleanze fra domesticity e the otherwordly, tra il familiare e l’inconsueto, contribuisce potentemente l’uso che la Bishop fa dei suoi strumenti formali.
Le metafore e le similitudini, per esempio: si veda la serie d’immagini a cui ricorre per darci l’idea del grosso pesce da lei catturato e poi lasciato libero in The Fish. Sono inattese e, al tempo stesso, evidentissime e chiarificatrici: la pelle screziata del pesce sembra una vecchia carta da parati, sbrindellata e stinta; gli ami che esso porta ancora infissi con i loro segmenti di lenza, sembrano decorazioni con i loro nastrini. Ogni nuovo tocco della descrizione rende il pesce insieme più misterioso e più «umano».
Al rapporto della domesticity con l’otherwordly può contribuire anche il ritmo. L’effetto agghiacciante di Visits to St. Elizabeths è dato dal fatto che la Bishop, per esprimere quell’altro mondo che è la «casa dei pazzi», usa un domesticissimo schema di filastrocca da bambini delle elementari.
Un’artista capace di così sorprendenti accostamenti e spostamenti non poteva non essere anche maestra d’ironia; e sulla funzione ironica nella poesia di Elizabeth Bishop ci sarebbe molto da dire. È un’ironia sobria e quieta, mai sprezzante; è sempre contenuta in forme di suprema eleganza. È anch’essa un aspetto del riserbo bishopiano, un rimedio preventivo contro ogni effusione non necessaria e perciò impudica, contro ogni “resa” (poetica o sentimentale) incontrollata. La Bishop è estremamente sincera (pochi autori hanno lavorato strenuamente come lei sotto il segno della honesty), ma non si consegna mai disarmata nelle mani dei suoi lettori, e l’ironia è la sua arma difensiva.
Le due tecniche, squisitamente ironiche, dell’overstatement e dell’understatement le sono entrambe congeniali. La prima la porta ad effetti volutamente barocchi come nei poemetti in prosa di 12 O’Clock News in Geography III (non inclusi nella nostra scelta) che ingigantiscono i piccoli e comuni oggetti sparsi su una scrivania fino a farne qualcosa di apocalittico.
La seconda via si offre alla Bishop per un’attrazione ancora più spontanea, ed è legata senz’altro ai suoi risultati migliori. Ne valga uno per tutti, il più straordinario: la poesia One Art (anch’essa in Geography III, l’ultimo libro della Bishop).
L’arte che la Bishop considera in questo componimento non è la poesia, né la musica, né alcuna delle arti figurative con cui pure si è incrociato tante volte il suo itinerario. È una severa arte insegnata dalla vita: l’arte di perdere, ossia l’accettazione della rinunzia. Essa non è difficile da padroneggiare, ci dice la Bishop: e, a riprova, i gradi per impratichirsene ci vengono da lei esposti nelle terzine a rima obbligata che costituiscono qui il suo schema metrico, nell’ardua forma della “villanelle” che insieme alla “sestina” della poesia omonima è il culmine stesso del virtuosismo bishopiano. Il segreto della “one art” è di perdere qualcosa ogni giorno, cominciando magari da un mazzo di chiavi, e allenarsi a perdite sempre più rapide ed estese. Di terzina in terzina il ritmo della perdita si accelera, e le cose perdute sono sempre più numerose e importanti: finché si arriva alla perdita finale, di una persona amata; e anche questa sembra sopportabile al termine della lunga scuola di rinunzia. Ma la parola «disaster», che ha fatto rima con «to master» in tutte le variazioni sul tema, anche se è stata negata dal punto di vista logico, è divenuta foneticamente ossessiva: ed è proprio l’ultima eco che ci rimane, pericolosamente vicina, di questa poesia sostanzialmente tragica sotto il sorridente e coraggioso esercizio dell’ironia che così bene si addice alla Bishop.
Proprio con questa poesia termina, non a caso, questa nostra scelta. Nessun’altra, infatti, potrebbe, a mio parere, costituire un migliore commiato della Bishop e dalla Bishop: ora che anche lei è diventata, purtroppo, un gradino della nostra «arte di perdere», con la sua morte che ha repentinamente privato la scena della poesia americana di una delle più grandi, anche se meno clamorose, personalità del secondo Novecento.
Roma, 1981
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