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Questo scritto non vuole prefiggersi lo scopo di presentarsi come un manuale per il restauro, il che sarebbe antitetico al lungo, difficile e complesso excursus formativo indispensabile alla vera professionalità di un operatore, né di avere alcuna presunzione dottrinaria in merito. Vuole più semplicemente costituire un appassionato richiamo a quella necessaria, continua e determinante riflessione che da questa importante disciplina non può mai prescindere per il costante controllo della qualità dei suoi risultati.
Ho voluto, ma direi ho dovuto, esprimermi quasi in forma di racconto, tramato talvolta da cenni e rimandi storici rapportati al pensiero di quel tempo, e di conseguenza ai suoi risultati; e mi è stato necessario, ed ugualmente doveroso, riferirmi ai personaggi più significativi che hanno costruito e dato impulso ad una vera evoluzione di questa professione. Per maggiore chiarezza ho scelto di attingere a descrizioni che vanno da brevi richiami casistici all’indicazione delle diverse opportunità di utilizzo delle tecniche usuali attraverso una identificazione critica della loro pertinenza, perché la concettualità che ad esse presiede non rimanga solo un pensiero astratto.
Per un’analoga e precisa scelta, mi sono concesso alcune testimonianze autobiografiche, ma solo perché contribuissero ad inquadrare meglio quei pensieri di natura essenzialmente critica che esse contengono. Solo in pochi casi ho voluto, sempre per lo stesso motivo, citare qualche mio passato intervento di lavoro, senza nessuna intenzione autocelebrativa o magistrale, ma per dimostrare quanto ampie e varie siano le possibilità e le soluzioni operative nel restauro; un dato, questo, che ritengo correlato alla sua natura.
Sappiamo bene come sia insita nell’attività del restauro una immensa responsabilità, poiché consegnamo al futuro opere alle quali abbiamo dato, al di là degli interventi di pura conservazione, una visualità nuova e diversa da quella con la quale esse erano giunte fino a noi. Che questa visualità possa e debba essere la più giusta è stato da sempre il problema di fondo, ma solo una cosa è certa e suona come un monito: nella maggior parte dei casi (se non nella totalità) essa è definitiva, irreversibile. La storia del restauro, dalla sua nascita fino alla fine del Settecento (quando il restauro stesso ha cominciato ad esprimersi, ma purtroppo come pratica rozza e spesso distruttiva - salvo pochissime “illuminazioni” di alcuni personaggi che nei primi anni dell’Ottocento emersero per positività di pensiero) altro non è stata che una lunga e travagliata ricerca, in un progressivo impegno nei confronti dei problemi che esso poneva.
Ho avuto la ventura di iniziare la mia attività nel lontano 1949, poco dopo il secondo dopoguerra, quando cominciarono a maturare i primi seri interrogativi sulla sentita necessità di una svolta qualitativa, dettata soprattutto dalla constatazione che il restauro era ancora esercitato in maniera “informe” se non peregrina. Anche se fra alti e bassi, e frequentemente caratterizzate da polemiche non sempre elevate, lentamente iniziarono a farsi strada le prime idee sulla necessità di dare al restauro delle linee-guida qualitativamente consone, sia sul piano tecnico che su quello della visualità, data la determinante importanza di quest’ultima.
Sebbene allora fossi giovanissimo, ho ben vivo il ricordo di una Firenze che nell’ambiente del restauro si muoveva in un clima assolutamente vivace, in una temperie animatissima, nella quale non era infrequente la partecipazione di illustri figure quali Roberto Longhi (1890-1970) e Cesare Brandi (1906-1988): personaggi che, chiamati ad intervenire anche decisionalmente come intellettuali di prestigio, offrirono un contributo importante, portando nel restauro una doverosa quanto assolutamente nuova nota di dignità. Ne rimasi allora profondamente colpito, anzi affascinato, e non solo dagli aspetti puramente tecnici dell’attività, ma anche dalla passione con la quale si ponevano i tanti interrogativi su quest’ultima; si respirava un’aria quasi da “nuova frontiera”, poiché eravamo criticamente volti all’identificazione degli errori del passato e del presente, e quindi alla ricerca della loro correzione. Credo che questo mio intenso sentire derivasse anche dal fatto che provenivo da una Scuola d’Arte, quella appunto fiorentina di Porta Romana, dove veniva insegnata una visione dell’arte stessa improntata ad un amore appassionato e ad un rispetto che direi sacrale verso la nostra grande tradizione; cosa che poi nel restauro delle sue opere d’arte non poteva che produrre in me quel senso di totale responsabilità che mi ha accompagnato per tutta la vita operativa.
Firenze è la città dove ho lavorato prevalentemente per oltre un sessantennio, salvo diversi impegni a Napoli, Venezia, Siena, nelle Marche e all’estero, in Europa, in Russia e negli Stati Uniti. Nei primi decenni del secondo dopoguerra, Firenze viveva ancora di un ricco patrimonio di artigianalità raffinata che proveniva, come retaggio di continuità, dalle “botteghe” dove in modo tradizionale si tramandavano le tecniche e i prodotti provenienti dall’eredità rinascimentale. Le molteplici attività di allora, soprattutto dovute a legnaioli, intagliatori e doratori, tramandavano precise conoscenze, consolidate da una empiria rigorosa, che adoperava strumenti e materiali del passato con un’ ottima manualità di impiego. Questo favorì il passaggio di alcuni di quegli artigiani al mondo del restauro delle opere d’arte, anche se apparve poi chiaro che queste persone, che pure vi portavano le preziose esperienze della loro attività, mancavano spesso di una visione culturalmente critica della complessità del restauro; quella visione che voleva diversificarsi dal passato, in quanto esigenza dettata da un pensiero denso di riflessioni teoriche che già era avvertito come assolutamente necessario, all’opposto di quella spenta e deteriore tradizione del restauro che aveva portato a tanti errori ed orrori. Ricordo bene che i migliori restauratori di allora (pochi, per la verità) si dedicarono inizialmente a cercare di identificare e combattere le manchevolezze che le pratiche di un tempo avevano manifestato, sia nel riconoscere, escludendoli, gli usi di materiali errati o dannosi, sia, al contempo, nel salvare quelli che la tradizione artigianale aveva preservato positivamente; ma soprattutto ricercavano la correzione di un gusto estetico ancora puramente viscerale, ispirato in prevalenza alla manipolazione dell’immagine.
È difficile dire se il grande balzo qualitativo che a Firenze fu compiuto in quel periodo si sia attuato in virtù di una particolare disposizione che potremmo chiamare antropologica, oppure sia stato dovuto all’accendersi di una nuova cultura operativa che si innestava sulla lunga tradizione artistico-artigianale. Forse è giusto pensare che a produrre quel balzo sia stato lo straordinario e localizzato mélange di questi due fattori.
Se è vero, anche in generale, che la qualità dell’operare umano può essere solo il frutto di quell’intelligenza che trova nel discernimento, sorretto da un’indispensabile onestà di pensiero, le ragioni stesse per condurre al meglio ogni sua attività, il restauro, che per sua natura particolare è cosa delicatissima e complessa, ha il dovere primario di adoperare quest’arma, anche e soprattutto per evitare avventure ed errori le cui conseguenze possono essere, come spesso sono, e come ho già accennato, di natura definitiva e irreversibile: quanto di peggio si può commettere nei confronti di opere, modeste o capolavori che siano.
Questo dovere deve essere più che mai sentito ai giorni nostri, in cui la scienza, i materiali e le tecnologie quali strumenti operativi, e le tecniche stesse permettono risultati un tempo impensabili. Eppure non supportare tali possibilità con un continuo stato di allerta verso il pericolo di perdere di vista l’essenza di quello che è un dipinto antico cioè non certo un oggetto ma un vero macrocosmo di relazioni fra il dato storico, strutturale, materico, e quello espressivo od estetico può essere un errore determinante, un rischio sempre presente, anzi sempre in agguato. Ecco perché l’impostazione che ho voluto dare a questo scritto è soprattutto mirata agli aspetti di natura critica che sono, ad un tempo e dialetticamente, la fonte ed il prodotto del restauro stesso.
Spero che chi avrà la bontà di leggere questo testo, in particolare le giovani generazioni che vogliano dedicarsi a questa disciplina, abbia modo di poterne trarre il senso che lo pervade, e che in fondo è un richiamo, uno stimolo, ad un costante e volitivo appello al meglio delle loro facoltà intellettive; un meglio sorretto da una forte passione che, come ho sempre pensato e detto, non sia puramente viscerale, ma in perfetta simbiosi con la mente, diventando così strumento di profonda adesione artistica. Questa simbiosi, inoltre, non potrà che produrre maggiori possibilità di conoscenza e nutrimento di quella immaginazione che, razionalizzandosi, inventa i necessari mezzi tecnici, come già in passato è avvenuto.
Inoltre non va mai dimenticato che l’intera vita operativa di un restauratore altro non è che un lungo ed ininterrotto tirocinio e non certo un mestiere, acquisito prima e praticato poi.
Mi è caro concludere con le parole di una citazione orale dello storico dell’arte e teorico del restauro Umberto Baldini (1921-2006). Egli diceva che il restauro di un dipinto antico altro non poteva e non doveva essere che un atto d’amore, quale prolungamento di quell’Eros creativo che l’aveva generato. Quanta verità e quante implicazioni conteneva questa asserzione...
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