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Il testo nasce dall’unione di alcuni articoli scritti da filosofi e teologi in occasione di un corso dedicato alla riflessione sulla città, ove si intende mostrare come il co-abitare può divenire spazio di crescita e di unione nella distinzione.
Il tema della ‘città’ è stato da me proposto per omaggiare Pistoia Toscana capitale italiana della cultura 2017, ma anche per stimolare negli uomini e nelle donne il senso di appartenenza e responsabilità verso la ‘cosa pubblica’ e per rintuzzare il desiderio di ripensare il loro esser parte viva di una comunità.
Osservando le tracce, che il tempo ha lasciato, di piante di antiche città, occidentali ed orientali, una differenza salta subito agli occhi: la presenza di piazze, la famosa αγορά nelle πόλεις greche, l’assenza di spazi ampi nelle città orientali.
Tale differenza di struttura non è certo priva di rilevanza poiché è lo specchio di due diverse concezioni politiche: in Oriente il prevalere di forme di governo assolutistiche non permette la realizzazione di aree spaziose, in cui il popolo possa confluire per alcun ‘mercato’, né di merci né di idee; in Grecia, invece, le πόλεις costruiscono le loro αγορά come cuore pulsante della città e del proprio governo. E non può stupire che sia in queste piazze che si muovano i primi passi verso la democrazia.
Noi siamo figli di questa tradizione e non identifichiamo la città con la sua struttura architettonica, bensì con la comunità degli uomini e delle donne che la abitano e che in essa costruiscono relazioni.
Fin dai tempi di Platone si è appunto cercato di costruire una città ideale, che costituisse una sorta di ‘stella polare’ capace di orientare gli abitanti in relazioni giuste.
E, nel tempo, molti sono stati i progetti ideali di città pensati proprio per consentire un quieto vivere, un buon vivere; tale idealità nella storia, talvolta, si è colorata di utopia, con il suo carattere critico e progettuale, altre volte di distopia, con la sua pretesa ‘totalitaria’ di organizzare e ordinare ogni singolo aspetto, facendo così perdere il carattere vivente alle comunità.1
Con l’ampliarsi degli agglomerati urbani le metropoli, ‘città madri’, hanno finito per perdere il loro carattere materno diventando megalopoli, grandi centri urbani, di cui si perdono i confini e allo stesso tempo luoghi chiusi se non addirittura ‘non luoghi’; quelli che Marc Augé2 definisce come spazi ‘spersonalizzati’ che radunano ‘masse di gente’, ma allo stesso tempo isolano sempre più le singole persone. Ne sono testimonianza i grandi centri commerciali, in cui le persone non ‘abitano’ più lo spazio e il tempo loro assegnato, ma si trovano piuttosto ad essere ‘manipolati’, gestiti, insomma, più ‘vittime’ che ‘attori’ della propria esistenza.
A tutto questo, seguendo il suggerimento di Serge Latouche,3 potremmo contrapporre il concetto di ‘limite’, che, contro la ύβρίς di una società sempre più globalizzata ed autodistruttiva (basti pensare alla diffusione planetaria dei conflitti bellici o ai problemi-danni ecologici …), cerca di costituire un argine.
Parlare di ‘città’ è dunque complesso.
Ciò che emerge dai testi come dato comune è il fatto che la città è luogo abitabile se creata da relazioni umane, se fondata sui principi laici della giustizia e della cooperazione o se ispirata da principi cristiani, come accadde per la Firenze di Giorgio La Pira.
Sullo sfondo, il cittadino e il politico hanno due strade possibili da percorrere: la creazione di ‘Babilonia’, città tentacolare, seduttrice e manipolatrice, o ‘Gerusalemme’, costruita da relazioni oblative fra gli uomini.
Con la consapevolezza dell’irrealizzabilità della ‘città perfetta’, auspico la costruzione di una città-comunità che resista all’anonimato, alla deriva di rapporti esclusivamente ‘digitali’, alla distruzione provocata dalla violenza nelle sue varie forme, che resista alla guerra, pena il suo autodistruggersi, come scrive G. Ungaretti:
Di queste case
Non è rimasto
Che qualche
Brandello di muro
Di tanti
Che mi corrispondevano
Non è rimasto
Neppure tanto
Ma nel cuore
Nessuna croce manca
È il mio cuore
Il paese più straziato
San Martino del Carso fa parte della sezione Il Porto sepolto della raccolta l’Allegria.
Il paesaggio è umanizzato, perché il luogo è dato dalle relazioni, dalla presenza dell’uomo, dalla risonanza che esso ha nel poeta e per questo non può che assumere sembianze umane, apparendo massacrato così come massacrati sono stati i soldati, durante la prima guerra mondiale.
L’immagine di San Martino del Carso è triste incarnazione di molte città che, oggi, si trovano in guerra, ma è anche monito per tutti noi ad un impegno attivo, quali costruttori di città non perfette, ma fondate sulla pace, la giustizia, la solidarietà… tra abitanti che condividono il medesimo spazio-tempo.
Ricordo infine che tutti i saggi, pur mantenendo un carattere scientifico, hanno come obiettivo prioritario la formazione di lettori non sempre ‘specializzati’ in teologia e filosofia; per questo ogni articolo è seguito da brani antologici, al fine di avvicinare al linguaggio specifico di ogni autore.
Edi Natali
1 Cfr. G. La Pira, Le città sono vive, La Scuola, 2005 e C. Quarta, Homoutopians, Dedalo, 2015.
2 Cf. M. Augé, Tra i confini: città, luoghi, integrazioni, Mondadori, 2007.
3 Cf. S. Latouche, Limite, Bollati Boringhieri, 2012.
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