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Cat.n. 326

Mino Ianne

Diremo addio ai filosofi greci? Il Cristianesimo deellenizzato del terzo millennio. Prefazione di Arianna Fermani.

ISBN 978-88-7588-242-6, 2019, pp. 128, formato 140x210 mm., Euro 15 – Collana “Il giogo” [104].

In copertina: Il simbolo del pesce, in greco antico ΙΧΘΥΣ.

indice - presentazione - autore - sintesi

15,00

Prefazione

di Arianna Fermani

Nel sesto capitolo della Poetica, Aristotele, offrendo quella che sarebbe diventata la celeberrima definizione della tragedia («imitazione di una azione nobile e compiuta»1), aggiunge che essa deve essere dotata di un linguaggio “ornato”, ovvero di un linguaggio bello, curato. Anzi, per essere più precisi, il Filosofo parla di “linguaggio gustoso”, «condito», visto che in greco c’è ἡδυσμέν? (da ¹dÚnw: “addolcisco”, “rendo piacevole”, “condisco”), termine che rimanda immediatamente al piacere: ¹don», dato che «hedoné […] discende dalla radice indoeuropea suad, e si collega a una famiglia di termini il cui significato, in via preliminare, riguarda tutto ciò che risulta gradevole al palato o può essere reso gradevole per esso».2

Leggendo – con autentico godimento – questo intenso, soave e curatissimo testo di Mino Ianne, il filo dei pensieri mi ha condotto immediatamente a questo passo della Poetica, ovvero a quel luogo in cui, mirabilmente, il sapere si fonde col sapore.

È uno studio prezioso, quello di Ianne, che, con acribia filologica sapientemente dosata con taglio teorico, realizza una meticolosa ed appassionante ricostruzione storico-filosofica su una questione insieme antica e attualissima quale quella del rapporto tra Cristianesimo e cultura greca. Un incontro cruciale, quello tra messaggio

biblico e pensiero greco che, per citare le parole di papa Benedetto XVI, «non era un semplice caso».

Il testo, che affronta un amplissimo ventaglio di questioni che, in questa sede, non è possibile ripercorrere neppure in modo sommario, parte della giusta sottolineatura della straordinaria portata della nozione di paideia, pilastro della cultura greca e, insieme, «esigenza vitale» del Cristianesimo stesso, visto che, come rileva l’Autore, «la relazione di Dio con l’uomo è rappresentata e concepita essa stessa in termini di educazione».

D’altra parte, come è stato ricordato, «il mondo greco non è dato soltanto dalle componenti religiose della società, ma anche e ancor più da quelle culturali […] l’uomo antico […] non scorgeva fratture tra fede e ragione, a motivo del riconoscimento di una radicale syngéneia esistente fra il divino e l’umano in tutte le sue espressioni. Già i Dialoghi di Platone stabilivano un nesso quanto mai stretto tra il divino e il bene, il bello, il vero, il giusto, essendo tutto in questo mondo semplice ombra di un mondo superiore».3

Ma l’incontro unico, irripetibile, tra mondo greco e mondo cristiano ha, a fondamento, l’Incontro per eccellenza: quello tra Dio e mondo. Come ha ricordato infatti Jaeger, istituendo, con ciò, un ulteriore solidissimo ponte tra fede cristiana e filosofia greca: «unica è la fonte dell’uno e dell’altra: il Logos divino».4

E come ogni incontro necessita di un luogo per realizzarsi, così accade per l’incontro tra il logos greco e quello biblico: «questi due logoi […] si incontrano nell’Areopago nella città dei filosofi: entrambi hanno in comune di essere, appunto, due logoi. Non una religione e una scienza, non una favola e una dimostrazione razionale, ma due logoi».

La radicale polivocità del pensiero greco, la costitutiva “plasticità” di questa forma mentis, che si manifesta, in opere operato, anche nelle diverse declinazioni e/o manifestazioni della figura divina, affiancate (senza tentativi di – e tentazioni alla – reductio ad unum) alle elaborazioni teoriche del Dio filosofico, implica la necessità di avvicinarsi con rispetto e con “cura” a questi territori parimenti ricchissimi e “scivolosi”, operando un continuo spostamento degli angoli di osservazione e degli “sguardi”. D’altra parte tale continuo spostamento – va sottolineato fortemente – sia nel cristianesimo, sia nel mondo greco, non solo non ha nulla a che fare col relativismo ma si pone esattamente agli antipodi dello stesso. Come infatti ricorda Ianne: «la sfida che […] il Cristianesimo deve affrontare nell’epoca della “dittatura del relativismo” è la riduzione della fede all’insignificanza, confinata come fatto privato nel mercato dei sentimenti».

In questo senso l’Autore mostra con chiarezza i pericoli di quel processo di «deellenizzazione» che conduce al relativismo e al nichilismo, ovvero alla nullificazione del vero e del buono, visto che «se tutto è vero e buono, niente è vero e buono, la verità e il bene oggettivamente non esistono».

Può essere utile ricordare, a questo proposito, un breve ma incisivo articolo di Francesco d’Agostino, intitolato: «Sono un cattolico ‘anti-relativista’»,5 in cui l’autore ricorda le molteplici ragioni dell’incompatibilità del cristianesimo e del relativismo. Il relativismo, infatti, è innanzitutto inconciliabile con il riconoscimento dei diritti umani, come diritti fondamentali e inviolabili di ogni essere umano, ovvero con diritti assolutamente ‘non relativizzabili’. Inoltre «i relativisti reputano insuperabili le differenze tra gli uomini e le loro culture e amano sottolinearne la reciproca irriducibilità; gli antirelativisti operano invece per reinterpretarle, per superarle, per unificarle, nella certezza che tutto nell’esperienza umana può essere volto al bene». In questo senso, si chiede D’Agostino, «come può un cristiano non essere antirelativista?».

Il rifiuto del relativismo, pertanto, come Ianne mostra molto lucidamente nel suo saggio, non conduce, come erroneamente e superficialmente si potrebbe credere, all’annullamento delle differenze o al mancato rispetto di esse. Al contrario esprime un pensiero che, non intendendo soggiacere al relativismo imperante, si fonda costitutivamente sull’apertura.

Tale “sapere”, che ha dunque, sin dall’inizio, “il sapore dell’accoglienza”, ha uno specifico atto di nascita, un topos storico-teorico, e si incarna in una figura tratteggiata tanto delicatamente quanto magistralmente da Ianne: la venditrice di stoffe di porpora.

La terra d’Asia è ora alle spalle di Paolo, i suoi piedi per la prima volta calpestano il suolo europeo e qui, in mezzo a un gruppetto di lavandaie, incontra una donna, Lidia, alla quale l’apostolo comunica il suo lógoV e quella donna ne rimane affascinata […]. L’incontro con la venditrice di stoffe di porpora, macedone di patria, greca di lingua e cultura, può essere considerato il vero giorno di nascita dell’Europa; l’ethos della grecità si apre ad accogliere la novità cristiana, la mente passa dal logos della ragione teorica al logos della storia.

Altro snodo estremamente rilevante del bel saggio di Ianne, inoltre, è la sottolineatura della necessità, comune tanto alla filo­sofia greca quanto al cristianesimo, di intendere la filosofia come “arte di vivere” e non come una semplice teoria astratta. Nella loro comune missione, consistente in quella che può essere definita una «incorporazione della verità»,6 logos ed ethos finiscono per “abbracciarsi” in modo profondo e indissolubile. In entrambi i casi, infatti, ci troviamo di fronte a una verità che, per essere davvero tale, deve farsi “carne e sangue”: «il vero non è conosciuto se non è praticato: se non è enunciato, ripetuto, vissuto, tradotto in un […] essere pronto ad agire, se, cioè, da logos non diviene ethos, condotta etopietica e biopoietica costruita sulla base di una askesis rigorosa e disciplinata».7

Se da un lato quindi, sempre per dirla con l’Autore, «solo nella verità l’essere umano diventa uomo», dall’altra, però, va rilevato come, nello stesso essere umano, c’è un’impronta divina, una dimensione altra ed alta, quella stessa che, per usare l’efficace neologismo aristotelico, rende possibile l’ἀθανατίζειν.8

D’altro canto, è opportuno evidenziare come il percorso proposto da Mino Ianne non valorizzi unilateralmente i profondi elementi di sintonia e di stretta vicinanza fra le due culture, greca e cristiana, ma sottolinei con acribia e con acutezza non solo le loro differenze ma anche, in alcuni casi, la loro radicale «scandalosa diversità». Tra le nozioni «inaccettabili» per un greco c’è, ovviamente, il concetto di Resurrezione, che «contrasta non solo i principi della logica ma anche l’intera tradizione speculativa greca». Non a caso, precisa sempre Ianne, «questo è il motivo della brusca reazione dell’uditorio alle parole conclusive di Paolo».

Inoltre, in quell’universo greco profondamente imbevuto di divino sin dalle sue origini, in cui, da un certo punto di vista, “tutto è pieno di dèi”, ma in cui, da un altro punto di vista, viene marcata una incolmabile distanza tra le due sfere dell’eterno e del corruttibile, risulta inesplicabile l’idea di un Dio perfetto e assoluto che si fa uomo: «come può l’eterna immobilità metafisica dell’Assoluto entrare nel divenire della storia? Come può la quiete eterna di Dio, assente di passioni, altezza sublime della apatheia, nutrire sentimenti per l’uomo e amarlo?».

Le radici greche del Cristianesimo, dunque, si rivelano parimenti inestirpabili, visto che «senza la grecità il Cristianesimo non è storicamente pensabile», e, insieme, feconde, visto che «questo imprinting originario, rinnovato dall’oggi, è la condizione di possibilità di un dialogo vero e di contatto non superficiale (e non subalterno) con tutte le civiltà».

Non a caso, come è stato ricordato, «il grande compito della religione autentica e della vera cultura dovrebbe essere […] quello di incrociare voci, pensieri, costumi, così che identità e molteplicità non siano opposte ma dialogiche».9

Ma, di nuovo, il dialogo, vero e profondo, con le diverse culture, oltre a fondarsi sull’originario dialogo tra mondo greco e mondo cristiano, trova nella luce rischiarante del logos uno dei suoi atti di nascita e una delle cifre costitutive. Non a caso la filosofia è da sempre pensata come “risveglio”, ovvero come quell’atto con cui la coscienza si eleva dalla penombra oscura dell’ignoranza alla luce della “chiara visione intellettuale”.

La luce, la luce piena associata al dio Apollo, è, per i Greci, espressione visiva di sapienza, personificazione di quel logos «che permette di cogliere la luce presente negli esseri, di conoscerli, di comprenderli, di cogliere le diverse cause del loro essere. È l’intelligenza in quanto luce capace di percepire ciò che è luminoso nelle cose».10

In questo atto chiarificatore del logos, inoltre, che esprime e manifesta la piena razionalità de kosmos e, dunque, la sua profonda bellezza, affonda magnificamente le radici la meraviglia, quel thauma grazie a cui gli esseri umani hanno iniziato a filosofare.11 Come ricorda Ianne, infatti,

in questo risiede il fascino che per i greci ha la bellezza; la bellezza e l’armonia dell’ordine cosmico che, sulle coste della Ionia, lascia Talete colmo di ammirato stupore per la razionalità del tutto e apre all’uomo l’avventura del pensiero filosofico; la bellezza dell’uomo, tanto fisica quanto intellettuale che, nella kalokagathia, diventa consapevole ideale di perfezione umana.

In questo breve, inevitabilmente incompleto e, per così dire, impressionistico tentativo di restituire, seppur in minima parte, alcune delle sfumature del ricchissimo saggio di Mino Ianne, sono partita dal gusto, dal sapore e dal piacere. E a questa triade intendo ritornare in chiusura, invitando alla lettura, calma e distesa, di un testo che richiede di essere assaporato parola per parola, che sollecita una decantazione di pensieri ed emozioni, che esige una lettura profonda, e tutta la lentezza che è necessario riservare alle opere di gran pregio quando per di più, come in questo caso, si interrogano sulle questioni “immortali”. Non a caso, come si racconta, «a chi gli chiedeva perché dipingesse così lentamente, Zeusi rispose: “Perché dipingo l’eterno”».12

Arianna Fermani

Docente di Storia della filosofia antica presso l’Università di Macerata.

Note

1 Aristotele, Poetica, VI, 1449 b 25-26.

2 «Di qui hedys, dolce, da cui il termine süß che in tedesco ha il medesimo significato. A questa famiglia appartiene, inoltre, la parola latina suavis che significa parimenti dolce e, in senso stretto, designa il godimento dei sensi e ciò per il cui tramite i sensi godono. Per questo in latino si può ben dire, per esempio, suavitas odorum, e più in generale i piaceri corporei sono designati con il plurale suavitates» (S. Natoli, La felicità. Saggio di teoria degli affetti, Feltrinelli, Milano 19985, pp. 169-170).

3 R. Penna (a cura di), Le origini del cristianesimo. Una guida, Carocci, Roma 2018, p. 5.

4 R. Cantalamessa, Cristianesimo primitivo e filosofia greca, in R. Cantalamessa (a cura di), Il Cristianesimo e le filosofie, Vita e Pensiero, Milano 1971, p. 34.

5 Avvenire, 7 gennaio 2012.

6 L’immagine è tratta dal volume di R. Fabbrichesi, Cosa si fa quando si fa filosofia?, Raffaello Cortina Editore, Milano 2017.

7 R. Fabbrichesi, Cosa si fa quando si fa filosofia?, op. cit., p. 41.

8 «D’altro canto […] non si deve, in quanto esseri umani, limitarsi a pensare cose umane né, essendo mortali, limitarsi a pensare cose mortali, come si consiglia ma, per quanto è possibile, ci si deve immortalare (athanatizein) e fare di tutto per vivere secondo la parte migliore che è in noi» (Aristotele, Etica Nicomachea, X, 7, 1177 b 31-34).

9 G. Ravasi, Breviario dei nostri giorni, Mondadori, Milano 2018, p. 125.

10 J. Vanier, Le goût du bonheur. Au fondement de la morale avec Aristote, Presse de la renaissance, Paris 2000; trad. it. M.A. Cozzi, Il sapore della felicità. Alle basi della morale con Aristotele, Edizioni Dehoniane, Bologna 2001, p. 26.

11 Cfr. Platone, Teeteto, 155 D 2-5; Aristotele, Metafisica, 982 b 12-13.

12 W. Tatarkiewicz, History of aesthetics, Warszawa 1976; Storia dell’estetica, a cura di G. Cavaglià, trad. it. di M.T. Marcialis, Einaudi, Torino 1979, vol. I, Estetica antica, p. 100.



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