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Introduzione
L’idea di ripubblicare alcuni miei scritti su Heidegger, quelli non già ripubblicati nella raccolta dei Nuovi studi aristotelici (Morcelliana, Brescia 2004-2010), non è mia, ma del dottor Carmine Fiorillo, che dirige la benemerita editrice Petite Plaisance. Non mi era mai passato per la testa, infatti, di dare alle stampe un volume su Heidegger, filosofo del quale ammiro la grandezza, ma del quale non mi considero né specialista né tanto meno seguace, essendo anzi diventato, specialmente nella maturità e nella vecchiaia, alquanto critico del suo pensiero. Ora che ho visto il volume in bozze, sono grato al dottor Fiorillo di avermi indotto a questa nuova impresa, perché mi accorgo che Heidegger è stato sempre, se non al centro, almeno vicino al centro del mio interesse per la filosofia, non solo in quanto egli fu critico di Aristotele, ma proprio in quanto fu filosofo originale ed estremamente influente. Cercherò pertanto di evocare i momenti principali della mia frequentazione del pensiero di questo filosofo, forse il più importante del secolo XX, consentendomi una breve ricostruzione autobiografica.
Il mio primo incontro con Heidegger risale al terzo anno di filosofia al liceo (1952-1953), dove disponevo del manuale di filosofia di Luigi Stefanini, il quale presentava il filosofo tedesco come esponente dell’esistenzialismo. Stefanini era stato uno dei primi filosofi a far conoscere Heidegger in Italia col suo volume Il momento dell’educazione: giudizio sull’esistenzialismo (Cedam, Padova 1938) e continuò ad occuparsene fino al volume Esistenzialismo ateo ed esistenzialismo teistico (ivi, 1952), dove egli giudica il filosofo tedesco negativamente a causa del suo ateismo. Essendomi iscritto al corso di laurea in filosofia nell’università di Padova, negli esami del primo anno (1953-1954) riportai tutti 30 e lode fuorché in Storia romana, dove ottenni un misero 22 e per la delusione andai in una famosa libreria, dove acquistai, per rifarmi con una lettura filosofica del mio insuccesso come studioso delle lettere di Cicerone al fratello Quinto, Essere e tempo nella traduzione di Pietro Chiodi (Fratelli Bocca, Milano 1953). Trascorsi così l’estate del 1954 alle prese con l’astruso linguaggio di Heidegger, andando incontro a difficoltà ancora più grandi quando, recatomi in Austria per impararvi il tedesco, presi a prestito l’edizione originale di Sein und Zeit, che nemmeno il mio insegnante riusciva a capire. Da quella lettura, pertanto, non ricavai molto, ma almeno mi confermai nella convinzione che Heidegger era il maggiore filosofo del momento.
Nel secondo anno di università ebbi la fortuna di frequentare il corso di Storia della filosofia tenuto da Stefanini proprio sull’esistenzialismo ateo, e quindi su Heidegger, che mi aiutò molto a comprendere il pensiero del filosofo tedesco, confermandomi tuttavia nella convinzione che questi fosse un esponente dell’esistenzialismo, convinzione allora condivisa da molti, ma poi come è noto smentita dallo stesso Heidegger. Nel corso di Filosofia teoretica, tenuto dal professor Umberto Padovani (tomista proveniente dall’Università Cattolica di Milano), appresi la formula in cui egli condensava il pensiero di Heidegger, cioè ens qua ens ex nihilo fit (l’ente in quanto ente nasce dal nulla), formula da lui giudicata contraddittoria perché equiparava l’essere al nulla, alla quale pertanto egli contrapponeva la tesi del creazionismo cristiano ens qua ens ex Ente fit (l’ente in quanto ente nasce dall’Ente).
Il mio successivo incontro con Heidegger avvenne subito dopo la laurea in filosofia, quando intrapresi lo studio delle interpretazioni contemporanee della filosofia presocratica, a cui dedicai un articolo («Studia Patavina», 6, 1960, pp. 444-481). In preparazione di questo articolo avevo letto il volumetto di Pietro Chiodi su L’ultimo Heidegger (Taylor, Torino 1952), nonché gli articoli di Heidegger sui presocratici, tutti posteriori alla famosa «svolta», scoprendo in essi un filosofo non più esistenzialista, ma impegnato nella ricerca del senso dell’essere e quindi nell’introduzione della differenza tra «essere» ed «ente».
Quest’ultima mi conquistò totalmente, per cui si può dire che divenni in qualche misura heideggeriano. Allora avevo già intrapreso lo studio di Aristotele e in particolare della sua metafisica intesa come scienza dell’ente in quanto ente, perciò mi disturbava l’accusa, rivolta da Heidegger a tutta la metafisica, compresa quella di Aristotele, di avere scambiato l’essere con l’ente e quindi di avere dimenticato il senso autentico dell’essere. Scrissi perciò un articolo su Il concetto di ente come essere ed Aristotele («Rivista di filosofia neoscolastica», 54, 1962, pp. 66-68), nel quale sostenni che l’ente in quanto ente, oggetto della metafisica di Aristotele, non è l’ente, ma è l’essere, e quindi la metafisica di Aristotele non è colpita dalla critica di Heidegger alla metafisica. È evidente che, alla base di questo articolo, c’era la condivisione della distinzione heideggeriana tra essere ed ente, la cosiddetta «differenza ontologica», ma altrettanto evidente è, almeno per me oggi, che quell’articolo era del tutto sbagliato, perché per Aristotele, sul piano linguistico, non c’è nessuna differenza tra «ente» (participio), «essere» (infinito) ed «è» (indicativo presente), e non ci deve essere nessuna differenza, perché tutti questi termini si dicono in molti sensi e indicano la stessa gamma di enti, cioè le diverse categorie e i diversi generi di sostanze. Questo è il motivo per cui non ho più ripubblicato quell’articolo e se mi si consente un minimo di enfasi ufficialmente lo «ripudio».
Nel corso degli anni ‘60, diventato professore di Storia della filosofia antica nell’Università di Perugia grazie ai miei libri su Aristotele, non mi occupai più di Heidegger, che del resto non era più «di moda», essendo stato spodestato dal centro del dibattito filosofico prima dalla nascita e diffusione dello strutturalismo e poi dalla rinascita del marxismo, dovuta anche ai movimenti studenteschi culminati nel famoso ‘68. Tornato a Padova come professore di Storia della filosofia, fui indotto a occuparmi di nuovo di Heidegger all’inizio degli anni ‘70, quando il mio maestro, Marino Gentile, mi segnalò la lettera di Heidegger al padre Richardson, nella quale il filosofo raccontava di essere stato indotto a dedicarsi alla filosofia dalla lettura del libro di Franz Brentano Sui molteplici significati dell’essere in Aristotele, e mi consigliò di chiedere ai miei studenti se c’era qualcuno interessato a scegliere come tema della sua tesi di laurea i rapporti tra Heidegger e Brentano o tra
Heidegger e Aristotele. Lo dissi a lezione e uno studente alzò la mano: era Franco Volpi.
Fui così indotto, dovendo seguire la stesura della tesi di Volpi, che fu pubblicata col titolo Heidegger e Brentano (Cedam, Padova 1976), a occuparmi di nuovo di Heidegger. Subito dopo Volpi vinse una borsa di studio, di cui ero il responsabile scientifico, e la utilizzò per scrivere il suo libro Heidegger e Aristotele (Daphne, Padova 1984). Benché pubblicato da una casa editrice piccola e di vita breve (allora era difficile per i giovani trovare un editore che non fosse a pagamento, e io mi interessai di fargliene trovare uno), il libro ebbe un successo immenso e fece di Volpi il massimo specialista internazionale del tema in esso trattato (esso è stato ripubblicato da Laterza nel 2010, dopo la prematura morte dell’autore, con una mia prefazione). Nel frattempo Heidegger era morto (1976), ma già da un anno prima della sua morte l’editore Klostermann aveva iniziato la pubblicazione dei suoi corsi universitari inediti, dallo stesso Heidegger sapientemente programmata, in modo da dare l’impressione che ogni anno uscisse una sua nuova opera. Questo conferì al pensiero di Heidegger un’attualità che forse non aveva mai conosciuto prima, sì da diventare una vera e propria moda, soprattutto in Francia, in Italia e in America sia del nord che del sud (meno in Germania).
Fu in questo periodo che, accogliendo il progetto della rivista «Filosofia oggi» di dedicare un fascicolo al nichilismo, scrissi il mio articolo su Il nichilismo in Nietzsche, Heidegger e Severino (1980), riportato in questa raccolta, dove presi una posizione critica verso tutti e tre i filosofi menzionati, a causa del comune nichilismo, ma non contro Heidegger in particolare. Ovviamente, essendomi dedicato da alcuni anni quasi interamente allo studio di Aristotele, ero interessato soprattutto ai rapporti di Heidegger con Aristotele e in questo la mia principale fonte di informazioni era Volpi. Questi dunque mi segnalò che nel corso del semestre invernale 1925-1926, Logik. Die Frage nach der Wahrheit, allora appena pubblicato, Heidegger aveva commesso una grave forzatura del testo aristotelico di Metaph. IX 10, dedicato al concetto di verità, introducendo una negazione proprio nel punto in cui Aristotele afferma che anche l’intellezione delle sostanze semplici, cioè delle forme, è una ricerca che può avere esiti opposti. Riprendendo questo spunto, scrissi l’articolo Heidegger e il concetto aristotelico di verità per il volume in omaggio a Pierre Aubenque (PUF, Paris 1993), che poi presentai suscitando qualche sconcerto in una seduta del Collège International de Philosophie a Parigi, alla presenza degli allievi di Aubenque (Rémy Brague, Barbara Cassin, Jean-François Courtine e Jean-Luc Marion), tutti in qualche misura heideggeriani come il maestro.
Non ho incluso questo articolo nella presente raccolta, perché esso è già stato ripubblicato nei miei Nuovi studi aristotelici, IV/2 (Morcelliana, Brescia 2010, pp. 220-248), così come non vi ho incluso l’altro articolo italiano dedicato allo stesso tema, cioè I luoghi della verità secondo Aristotele: un confronto con Heidegger, uscito nel volume curato da Virgilio Melchiorre, I luoghi del comprendere (Vita e pensiero, Milano, 2000, pp. 3-27), dove portavo nuovi argomenti a conferma della stessa tesi, anch’esso ripreso nei Nuovi studi aristotelici, IV/2, pp. 240-272. La mia tesi era che Heidegger aveva forzato il testo della Metafisica per poter attribuire ad Aristotele la sua concezione della verità come manifestazione diretta, la quale comportava una concezione dell’intellezione come intuizione immediata, che a mio giudizio non era la concezione di Aristotele.
Il primo di questi due articoli dovette attirare l’attenzione sul piano internazionale, perché mi procurò l’invito al congresso della Heidegger-Gesellschaft che si tenne a Messkirch, luogo natale del filosofo, nel 1996, per celebrare il ventennale della sua morte. Il tema generale del congresso, a cui parteciparono studiosi di tutto il mondo (specialmente dal Giappone, dove Heidegger era molto popolare), era Die Frage nach der Wahrheit, perciò fu affidata a me la relazione su come Heidegger interpretava la concezione della verità di Platone e di Aristotele, che io tenni in tedesco (essa è pubblicata nel presente volume). Non ricordo bene le impressioni che essa suscitò negli ascoltatori, ma ricordo di avere incontrato sulle scale dell’albergo di Messkirch il figlio di Heidegger, il quale mi sembrò alquanto imbarazzato, non so se perché deluso dalla mia relazione o grato di essa. In ogni caso la relazione dovette avere una certa fortuna, perché il collega americano Tom Rockmore mi chiese il permesso di pubblicarne una traduzione in inglese nel volume Heidegger and the Platonic Concept of Truth (Northwestern University Press, Evanston Illinois 2005), traduzione che ho inserito nel presente volume perché essa è un po’ diversa dall’originale tedesco e soprattutto perché l’inglese è molto più letto del tedesco.
La partecipazione a quel congresso fu per me l’occasione di una specie di pellegrinaggio, che raccontai in un articolo del «Bollettino della Società Filosofica Italiana» (n. 158, maggio-agosto 1996, pp. 60-63). Vidi infatti la casa in cui Heidegger era nato, cioè la casa del sacrestano della chiesa parrocchiale di Messkirch, dedicata a San Martino (da cui il nome dato dal padre al filosofo); visitai la chiesa, di dimensioni notevoli, rispetto a cui la casa sembra piccolissima; percorsi i sentieri da lui descritti nelle sue opere, visitai la sua tomba nel cimitero del paese, constatando con qualche sorpresa (si tratta di un cimitero cattolico) che la sua pietra tombale è collocata accanto a quelle dei genitori e del fratello, ma con una pietra di dimensioni più grandi e una stella al posto della croce. Ma l’impressione del pellegrinaggio me la diedero soprattutto i soci della Heidegger-Gesellshaft, che sembravano venuti a visitare le reliquie di un santo, anche a causa dei numerosi ritratti e busti in bronzo del filosofo sparsi in vari luoghi.
Da queste mie parole si può comprendere come il mio atteggiamento nei confronti del pensiero di Heidegger non fosse più di condivisione, nemmeno parziale, cioè relativa alla “differenza ontologica”, quale era stato nella mia gioventù, anche se continuai ad apprezzare soprattutto Essere e tempo, che considero il capolavoro di Heidegger e la descrizione più profonda della condizione umana come essere-nel-mondo, essere-con-gli-altri, essere-per-la-morte. La ragione di questo mutamento è che all’inizio degli anni ‘90 la casa editrice Laterza mi commissionò un libro su Aristotele nel Novecento (uscito nel 1992), per scrivere il quale lessi tutto ciò che Heidegger aveva scritto su Aristotele e mi convinsi che il filosofo tedesco da un lato aveva sempre considerato Aristotele il rivale più importante con cui misurarsi, determinandone in tal modo l’attualità in un momento in cui in Italia nessuno la sospettava, e dall’altro aveva totalmente frainteso molti aspetti del pensiero di Aristotele, soprattutto interpretandone la metafisica come «onto-teologia», cioè come riduzione dell’intero essere ad un ente sommo, ma pur sempre particolare. Naturalmente mi servii molto dei consigli di Franco Volpi, a cui il libro piacque, anche nella parte in cui critica Heidegger. Esso ha avuto fortuna, perché è stato tradotto in portoghese (Ed. Loyola, Sao Paulo 1997), in polacco (IFIS PAN, Warszawa 2015) e forse lo sarà in francese, ed ha avuto una nuova edizione nel 2008 (fatta anche al fine di evitare il commercio di esso al mercato nero, che a Lugano ne aveva fatto salire il prezzo a 150 franchi svizzeri).
In Aristotele nel Novecento tenevo conto anche del fenomeno della cosiddetta «Riabilitazione della filosofia pratica», nella quale l’influenza di Heidegger è stata fortissima, come ho cercato di mostrare nel saggio del 1990, ripubblicato in questo volume. Dall’interesse per la filosofia pratica è nata anche la conferenza su Le passioni tra Heidegger e Aristotele, dedicata al corso sui Grund-begriffe der aristotelischen Philosophie, tenuto da Heidegger nel semestre estivo del 1924, pubblicato in tedesco nel 2002. Il saggio è il testo di una conferenza che ho tenuto prima alla Società di Cultura classica di Padova, che l’ha messa on line, e poi alla sezione della Società Filosofica Italiana di Pescara. Per questo essa è stata pubblicata nel «Bollettino della Società Filosofica Italiana» (n. 206, maggio-giugno 2012, pp. 23-30) e ho chiesto alla Morcelliana di inserirla nel V volume dei miei Nuovi studi aristotelici, in corso di stampa. Tuttavia, per la cortese insistenza del dottor Fiorillo ho deciso di inserire questa conferenza anche nel presente volume, perché nel frattempo essa era stata scelta come espressione dei miei studi più recenti nella lectio magistralis che ho tenuto all’Università Nazionale di Atene nel 2012, quando questa mi conferì la docenza in filosofia honoris causa, e soprattutto perché due anni fa è uscita la traduzione italiana del suddetto corso, Concetti fondamentali della filosofia aristotelica, a cura di Giovanni Gurisatti (Adelphi, Milano 2017). Infatti ho ripreso il testo di quella conferenza in una relazione tenuta in occasione del convegno su “Heidegger e la Retorica di Aristotele”, tenutosi a Padova nel 2018, aggiungendovi l’Appendice che ora figura al termine di essa, facendone in tal modo un testo per qualche aspetto nuovo.
Infine ho dedicato a Heidegger il saggio, Heidegger e il libro Epsilon della Metafisica di Aristotele, che è il testo riveduto e corretto della relazione che ho tenuto nel convegno svoltosi a Padova nel 2014 su “Il libro Epsilon della Metafisica di Aristotele e la sua fortuna”, atto conclusivo di un triennio di ricerche compiute nell’ambito di un Progetto di Eccellenza finanziato dalla Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo, di cui non sono ancora stati pubblicati gli atti. Ovviamente mi riservo di mettere a disposizione questo testo anche per la pubblicazione di questi. Ma poiché la mia età è ormai molto avanzata ed esso costituisce il riepilogo dei miei studi precedenti e probabilmente la mia ultima parola su Heidegger, mi sono preso la libertà di pubblicarlo per la prima volta in questo volume. Tutto ciò documenta, spero, quello che dicevo all’inizio, cioè che Heidegger è sempre stato uno dei temi delle mie ricerche e riflessioni filosofiche, per cui la pubblicazione di un volume con i miei scritti su Heidegger può avere qualche giustificazione.
Enrico Berti
Ottobre 2019
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In copertina: Statua in bronzo di Aristotele,
ingresso della Albert-Ludwigs-Universität di Friburgo, Germania.
Martin Heidegger compie i suoi primi studi nel Berthold Gymnasium di Friburgo (1906-1909). Nel 1907 C. Gröber lo invita alla lettura della dissertazione di F. Brentano, Sui molteplici significati dell’essere secondo Aristotele. Nel 1909 si iscrive alla Albert-Ludwigs-Universität di Friburgo, e nel 1913 vi consegue il dottorato con la tesi La dottrina del giudizio nello psicologismo. Nel 1916 E. Husserl è chiamato a Friburgo come successore di H. Rickert. Il 7 gennaio 1919 Heidegger diviene assistente di Husserl. Nell’autunno del 1928 Husserl si adopera affinché l’allievo divenuto professore a Marburgo gli subentri nella cattedra della Albert-Ludwigs-Universität di Friburgo. Heidegger, il 21 aprile 1933, viene eletto rettore, insediandosi il 27 maggio con il famoso discorso L’autoaffermazione dell’università tedesca. Il 14 aprile 1934 rassegna le dimissioni da rettore della Albert-Ludwigs Universität di Friburgo.
In quarta di copertina: Paul Klee, Die Zeit, 1933.
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