|
Cerve, cerbiatte e cervicapre
nel migadāya dell’umanità
Dalla Cerva-Ifigenia alla Baccante-cerbiatta che rifugge i cacciatori in Euripide, finanche all’agnus dei o alle viscere di Biancaneve sostituite con quelle di un cinghiale (un cerbiatto oppure un cane), le fonti antiche non infrequentemente concordano nel tramandare l’immagine di un’umanità animale, quasi sempre ungulata, esposta all’inevitabilità della ferita. Capretti, agnelli, cerbiatti ma anche giraffe, rinoceronti, tapiri e pecore : si tratta di una famiglia di mammiferi molto vasta e differenziata, che agli umani piace ricordare attraverso una classificazione particolarissima. Infatti, siamo soliti enfatizzarne un elemento ben preciso: l’“unghio”, lo zoccolo (cfr. sanscrito aṅga, aṅguli; latino ungulus).
D’altra parte, non appare di secondaria importanza constatare che l’animale prescelto per il sacrificio tragico-rituale greco-antico sia molto raramente differente da un ungulato in quest’ultimo caso, un capretto.
Ma l’“unghio” allude alla relazione con la terra e dunque, simbolicamente, al modo di portarsi nel mondo interesse precipuo dell’etica. Perché l’“unghio” è ciò che radica: una calcificazione cheratinosa e protettiva che scherma la pelle della zampa dal contatto diretto e vivo con il terreno. Fuor di metafora, il mondo può anche essere molto aspro, a volte, molto pericoloso, ma la natura ci offre un filtro protettivo, seppur logorabile, che attenui il contatto e questo vale per il corpo così come per l’anima.
La vicinanza simbolico-immaginale tra umani e ungulati diventa poi affascinante se posiamo lo sguardo sulla letteratura buddhista. Che questa ci sia più o meno familiare non importa, in ogni caso le fonti tramandano come molti insegnamenti del Buddha (compreso il primo discorso sulle Quattro Verità, ovvero sulla sofferenza esistenziale e sulla prassi per la sua estinzione) avvengano nei migadāya, parchi o riserve dedicati alla protezione di animali. Il “Parco dei cervi”, come viene riduttivamente tradotto questo termine, assume allora un significato ancor più interessante e tutto da esplorare, per chi, come noi, voglia esercitare uno sguardo filosofico pronto a cogliere le ramificazioni coralline e gli sviluppi ermeneutici di ampio respiro che restino ad un tempo fedelissimi al testo.
Forse la ricerca del senso e l’indagine della verità trovano posto nei migadāya di ciascuno di noi: riserve interiori, recinti biografici sacri dedicati allo scavo e al discernimento luminoso della consapevolezza, luoghi protetti dove le cerve, i cerbiatti e tutti gli animali che siamo, possano dismettere l’allerta e sentirsi al sicuro. Non immediatamente pronti alla fuga improvvisa, ma solo accovacciati, pacificamente assorti in una contemplazione attenta e presente, assaporando la gioiosa resa alla fiducia, questa volta sì, senza riserva alcuna.
Alessandra Filannino Indelicato
|