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Cat.n. 434

Diego Lanza

Dramata I. Scritti sulla drammaturgia euripidea. Prefazione di Gherardo Ugolini.

ISBN 978-88-7588-368-3, 2023, pp. 256, formato 140x210 mm., Euro 30 – Collana “il giogo” [163].

In copertina: Oreste e Pilade in Tauride. Dipinto a figure rosse su un cratere campano degli anni 330-320 a.C. (Museo del Louvre, K 404), raffigurante Oreste e Pilade di fronte a Ifigenia in Tauride.

indice - presentazione - autore - sintesi

30,00

Introduzione

Gherardo Ugolini

Diego Lanza “alla cattura di Euripide”

Alla cattura di Euripide. Appunti su una lunga controversia è il titolo di un saggio del 2002 che Diego Lanza pubblicò come introduzione all’edizione einaudiana dei drammi euripidei curata da Anna Beltrametti.1 È un saggio di ampio respiro, ricco di dottrina e di suggestioni, nel quale lo studioso prende le mosse da alcuni celebri giudizi di interpreti moderni (Goethe, A.W. Schlegel, Heine, Nietzsche) sul conto di Euripide, per dimostrare come ogni tentativo di “catturare” il drammaturgo rinchiudendolo nel recinto di una determinata etichetta o di una specifica chiave interpretativa sia destinato al fallimento. Il tragediografo ateniese è stato visto di volta in volta come un autore “razionalista”, “irrazionalista”, “il filosofo della scena”, “il poeta dell’illuminismo greco”, “studioso della natura umana”, “ateo”, uccisore dell’autentico spirito tragico, precursore di forme teatrali affermatesi successivamente, escogitatore di nuovi miti, intellettuale politicamente impegnato, ovvero disinteressato alle questioni della polis e ripiegato in toto sul patetico. Ma la “cattura” di Euripide è un esercizio praticato già nei tempi antichi, a partire almeno dalla Rane di Aristofane, messe in scena nel 405 a.C. pochi mesi dopo la morte di Euripide. Lanza smascherava in quello scritto come ingenui e inefficaci tutti gli approcci miranti ad una caratterizzazione semplificatoria del drammaturgo, se non altro perché non tengono conto dell’inevitabile variare nel tempo, lungo il cammino di un percorso biografico e artistico, di posizioni, idee, punti di vista e tecniche drammaturgiche.

Il saggio Alla cattura di Euripide chiude per certi aspetti il percorso di studi euripidei che Lanza aveva iniziato fin dalle prime pubblicazioni dopo avere conseguito la laurea, negli anni in cui si avviava alla carriera accademica presso l’ateneo pavese. E non c’è dubbio che Euripide sia stato dei tre grandi tragediografi del teatro attico del V secolo a.C. quello che ha maggiormente affascinato Lanza, come dimostra il numero di contributi a lui dedicati nel corso dei decenni, nettamente superiore a quelli su Eschilo e Sofocle. Euripide è l’oggetto di studio del primo articolo in assoluto pubblicato da Lanza, Unità e significato dell’«Oreste» euripideo («Dioniso», XXXV, 1961, pp. 58-72), rielaborazione di una parte della sua tesi di laurea in Letteratura greca, scritta sotto la guida di Adelmo Barigazzi, e conseguita a Pavia nel 1959. Vi dimostra come il disegno drammaturgico dell’Oreste, ultimo dramma messo in scena da Euripide ad Atene prima del trasferimento in Macedonia alla corte del re Archelao (l’anno è il 408 a.C.), non metta al centro tanto la figura di Oreste, bensì la sua trasformazione dalla passività all’iniziativa, nel contesto di una polemica contro una realtà sociale in cui i princìpi etici sono ridotti a vuote convenzioni. Si rivela qui, in questa prova d’esordio di un giovane e promettente ricercatore, destinato a diventare uno dei più raffinati esegeti del teatro antico, un approccio filologico originale, che parte dal testo per allargare via via l’orizzonte ermeneutico alle più varie problematiche che a quel testo sono sottese. È lo stesso metodo dispiegato nei due saggi euripidei successivi: Νόμος e ἴσον in Euripide («Rivista di Filologia e di Istruzione Classica», 91, 1963, pp. 416-439) e L’Alessandro e il valore del doppio coro euripideo («Studi Italiani di Filologia Classica», 35, 1963, pp. 230-245),2 e in generale in tutta la produzione ermeneutica di Lanza. Nel primo dei due scritti viene indagato il concetto di nomos in tutta l’opera euripidea, inteso come valore fondante della vita pubblica, indispensabile per garantire alla polis la possibilità dell’uguaglianza sociale, e senza il quale viene meno la possibilità stessa di una vita comune. Nel secondo l’attenzione si focalizza sul perduto Alessandro di Euripide: sulla base dei frammenti conservatisi Lanza analizza il ruolo del coro e contesta che l’uso del doppio coro corrisponda a una tendenza arcaizzante, visto che l’ambiguità tragica è spostata da Euripide sul piano della dialettica concettuale con una molteplicità di significazioni espressive, tra le quali può avere il suo peso anche l’ironia.

Il punto di vista dello spettatore, il livello di coinvolgimento emotivo e critico che egli sperimenta nell’assistere alla rappresentazione teatrale, costituisce per la lettura che Lanza dà della drammaturgia di Euripide, e più in generale di tutto il teatro antico, una bussola di orientamento fondamentale, un criterio di intelligibilità imprescindibile. È questa la prospettiva più efficace per riuscire a comprendere come il riadattamento del mito da parte del drammaturgo, la sua rilettura della saga antica, le opinioni che vengono espresse sulla scena dai personaggi, potessero essere condivisi dal pubblico dell’epoca. Come è stato giustamente notato, si potrebbe affermare che «lo spettatore è il protagonista delle opere di Diego Lanza, sempre attento alla percezione che il pubblico ha della rappresentazione teatrale e alla forza di suggestione che questa esercita su di lui».3 Naturalmente lo spettatore non rimane sempre lo stesso nel corso del V sec. a.C.; dagli esordi di Eschilo all’ultimo Euripide si evolve sotto molti punti di vista, sicché «a una tragedia di Euripide si assiste in modo diverso che ad una tragedia di Eschilo».4  Solo in questa prospettiva si capisce il confronto tra Euripide ed Eschilo che il commediografo Aristofane mette in scena nella Rane sul finire del secolo aureo del teatro tragico attico. Lanza osserva come la differenza fondamentale che intercorre tra i due drammaturghi è determinata essenzialmente dal diverso ruolo da loro esercitato nella polis, dalla diversa postura assunta di fronte al pubblico e dalle diverse emozioni che suscitavano negli spettatori. Eschilo, che aveva davanti a sé un pubblico molto coeso e omogeneo, «la città degli opliti»,5 assume il suo ruolo di poeta/educatore, obbligato a nascondere il vizio e a dire solo cose oneste; Euripide, viceversa, si vanta di avere insegnato alla massa a «spettegolare, pensare, vedere, capire» e a «considerare attentamente tutte le cose» (Rane, vv. 954-958). L’Euripide di Aristofane è il poeta che ha voluto insegnare al pubblico a ragionare, a esaminare criticamente, a giudicare e deliberare: già nei versi delle Rane è scolpita icasticamente una gran parte della visione di Euripide elaborata dagli intellettuali europei dell’Ottocento e del Novecento.

L’interesse per l’antropologia e per le ritualità religiose costituisce un’ulteriore modalità d’approccio alla quale Lanza è ricorso sovente per l’analisi di testi teatrali, pur stando attento a concentrarsi prevalentemente sulla dimensione drammaturgica e sui codici espressivi e visivi che essa prevede. Un esempio sintomatico di questa prospettiva d’analisi è il saggio del 1989 sull’Ifigenia in Tauride, intitolato Una ragazza, offerta al sacrificio.6 Lo studioso, sulla scia di Erwin Rohde e Walter Burkert, si sofferma su certe pratiche rituali e simboliche (per esempio le pratiche della pietà funebre) che facevano parte della realtà ateniese dell’epoca e che vengono allusivamente riprese nella costruzione drammaturgica di Euripide con lo scopo di produrre un impatto e una persuasività immediati. Dietro la superficie dell’azione scenica, il dramma mette in scena archetipi di cui possiamo cogliere solo elementi sparsi, ma che dovevano suscitare un effetto rassicurante. Per esempio, l’associazione di Ifigenia a Eileithyia, demone della nascita e della morte, che a sua volta si presenta talora come ipostasi della dea Artemide, poteva sortire un intrigante gioco di riferimenti arricchendo la vicenda rappresentata a teatro di una fitta rete di suggestioni connotative. Tutto ciò va in ogni caso compreso all’interno di una lucida e calibrata costruzione drammaturgica che produce lo svolgimento dell’azione secondo una rigorosa scansione dei tempi e dei rapporti di causa-effetto. La lettura dell’Ifigenia in Tauride proposta da Lanza si basa, dunque, su un doppio livello di comprensione: quello dell’azione vera e propria visibile sulla scena e nell’orchestra del teatro di Dioniso, e quello dell’allusione continua a rituali di vario genere (funebri, sacrificali etc.) ben noti al pubblico ateniese. Rimane aperta la questione – e Lanza alla fine del saggio pone la domanda senza dare una risposta – del motivo per cui compaia questa «ridondanza rituale» e della funzione che essa doveva svolgere. Essenziale è riflettere sul fatto che «tutto questo ha evidentemente a che fare con un codice di ascolto assai diverso dal nostro, con un diverso sistema di attese».7

Un elemento importante su cui Lanza ha insistito a più riprese, a partire dal saggio Lo spettatore sulla scena, uscito nel 1977 all’interno del volume collettaneo L’ideologia della città (Liguori, Napoli, pp. 57-78)8 è la celebre tesi di Friedrich Nietzsche per il quale, tra i tanti misfatti attribuiti ad Euripide, vi sarebbe quello di «avere portato lo spettatore sulla scena», concetto da intendere nel senso che il drammaturgo avrebbe trasformato gli eroi del mito in personaggi della vita quotidiana, figure che parlano e agiscono proprio come gli spettatori che assistono allo spettacolo.9 Per Nietzsche questa scelta era un passo inequivocabile che portava alla “morte” della tragedia, oramai privata della sua dimensione dionisiaca primigenia; Lanza prende per buono l’assioma di Nietzsche e prova a verificarne le conseguenze in un’ottica di tipo estetico e storico-sociologico al tempo stesso. Se fosse vero che nel teatro di Euripide l’uomo comune sale sul palcoscenico, e dunque che l’oggetto della rappresentazione diventa la vita quotidiana, con tutti i suoi problemi e preoccupazioni, allora sarebbe presumibile che lo spettatore dell’epoca dovesse sentire quelle rappresentazioni come più vicine alla propria sensibilità e pensare di poter giudicare in modo appropriato gli accadimenti. Quel teatro sarebbe dovuto risultare più familiare e gradito a spettatori che possono facilmente riconoscersi nei protagonisti.

Ma l’analisi porta a demistificare questa prospettiva, giacché «lo spettatore in scena» non corrisponde affatto allo spettatore reale che prendeva posto sugli spalti del teatro di Dioniso. L’opera d’arte non è assolutamente uno specchio fedele e realistico della realtà sociale. Il contadino euripideo dell’Oreste o quello dell’Elettra, per esempio, non sono certo riproduzioni realistiche del contadino attico del tempo. Il criterio ermeneutico di Lanza consiste in questo caso, come del resto nella sua celebre monografia del 1977 sul tiranno come figura teatrale,10 nell’analizzare personaggi come il contadino o il tiranno alla stregua di «figure ideologiche», prodotti delle forme culturali e politiche che il sistema democratico ateniese aveva sviluppato.

La drammaturgia euripidea, come del resto anche quella di Eschilo e di Sofocle, assume come contenuto delle sue rappresentazioni e tematizzazioni non già la polis reale, storicamente determinata come aggregato diversificato di individui e gruppi sociali, bensì una polis idealizzata, presentata come un insieme organico e coeso, nel quale le contraddizioni e le contrapposizioni si neutralizzano in un’autorappresentazione retorica poco veritiera, ma utile a cementare l’identità comunitaria.

La quantità e la qualità degli studi che Diego Lanza ha dedicato al teatro di Euripide sono tali che si è ritenuto utile raccoglierli in un volume unico. Non che essi debbano essere intesi come i capitoli di una ipotetica monografia su Euripide, monografia che Lanza non ha scritto; ma certamente come tappe di un percorso di studi sul grande drammaturgo di Salamina, condotto sempre con acume e con sguardo spiazzante.

Ringrazio Carmine Fiorillo di Petite Plaisance, la meritoria casa editrice di Pistoia che si dedica, tra le altre imprese, alla ristampa degli scritti di Diego Lanza e Mario Vegetti. A lui si deve il paziente lavoro di recupero, raccolta e ricomposizione dei saggi compresi nel presente volume, con l’aggiunta di note esplicative e informative.

Ringrazio pure i famigliari di Diego Lanza, Nicoletta, Simone e Andrea, per il sostegno fattivo fornito anche a questa pubblicazione. Infine, desidero esprimere la mia riconoscenza ai direttori delle riviste e ai curatori delle miscellanee che hanno generosamente concesso l’autorizzazione a ristampare gli articoli che qui sono stati raccolti.

Concludo questa breve nota introduttiva citando un passaggio di Lanza che mi pare possa essere un suggello significativo ed emblematico del suo approccio non soltanto ai drammi euripidei, ma più in generale a tutti i testi della cultura antica. Si tratta di un ragionamento essenziale e rigoroso che mette a fuoco da un lato la limitatezza intrinseca del moderno esercizio ermeneu­tico, schiacciato sul nostro angolo di visuale storico e soggettivo, e dall’altro la persistenza inevitabile di quelle che Lanza chiama «zone d’ombra», elementi d’incomprensione, dunque, che non possono essere chiariti in maniera soddisfacente, e che, anzi, paradossalmente è preferibile lasciare indeterminati nella loro nebulosità. In altre parole, l’insufficienza dell’interprete, la sua incapacità a fare luce su tutti i dettagli del testo che ha davanti e che vuole comprendere, è un valore in sé, in quanto garanzia del futuro rinnovarsi della fatica esegetica:

«Se siamo tratti a sorridere di alcune interpretazioni dell’antico che il passato ci ha conservate, non è certo perché oggi possiamo pretendere di conoscere e mostrare come effettivamente gli avvenimenti anche culturali si siano svolti, ma perché ci rendiamo conto, almeno in parte, dell’inevitabile relatività storica di ogni lettura. Certo, ogni lettore tende a far proprio il testo che legge, ma, quando la lettura non sia eccessivamente distratta, restano sempre zone d’ombra. Sono queste zone che vanno salvate, perché sono la garanzia, che qualcosa nel testo resiste, qualcosa rimane incompreso; ed è qualcosa che ci obbliga a riflettere su ciò che leggiamo e su di noi, qualcosa che può indurci a riformulare meglio le domande consapevoli e inconsapevoli che al testo avevamo rivolto. La speranza è che le tragedie di Euripide inducano il lettore di oggi a domande sempre nuove e sempre più consapevoli».11

1 D. Lanza, Alla cattura di Euripide. Appunti su una lunga controversia, in Euripide, Le tragedie, a cura di A. Beltrametti, Torino Einaudi 2002, pp. VII-XXXVI; rist. nel presente volume, pp. 169-207.

2 Tutti i tre saggi degli anni Sessanta sono ristampati nel presente volume, ris­pettivamente alle pp. 19-37 (Unità e significato dell’«Oreste» euripideo), pp. 59-85 (Νόμος e ἴσον in Euripide), e pp. 39-58 (L’Alessandro e il valore del doppio coro euripideo).

3 M. Nappi, «La tragédie et le pouvoir évocateur de la parole. Réflexions autour de l’en­seignement de Diego Lanza», in Diego Lanza, lecteur des oeuvres de l’Antiquité. Poésie, philosophie, histoire de la philologie, éd. Par P. Rousseauet R. Saetta Cottone, Presses Universitaires du Septentrion, Villeneuve d’Ascq 2013, p. 261.

4 D. Lanza, Lo spettatore sulla scena, in D. Lanza, M. Vegetti, G. Caiani, F. Sircana, L’ideologia della città, Liguori, Napoli, pp. 57-78; rist. nel presente volume, pp. 87-113. Citazione a p. 112.

5 Ibidem, p. 112.

6 D. Lanza, Una ragazza, offerta al sacrificio ..., in «Quaderni di storia», 29, 1989, pp. 6-22; rist. in appendice a D. Lanza, La disciplina dell’emozione. Un’introduzione alla tragedia greca, Petite Plaisance, Pistoia 2019 (1997), pp. 281-301; rist. infra, pp. 133-152.

7 Ibidem, p. 152.

8 Cfr. nota 4.

9 F. Nietzsche, La nascita della tragedia (1872) in Opere di Friedrich Nietzsche, edi-zione italiana a cura di G. Colli e M. Montinari, vol. 3.1, Adelphi, Milano 1972, p. 76.

10 D. Lanza, Il tiranno e il suo pubblico, Einaudi, Torino 1977, rist. Petite Plaisance, Pistoia 2020.

11 D. Lanza, Alla cattura di Euripide. Appunti su una lunga controversia, cit., infra, p. 207.

Gherardo Ugolini insegna Filologia classica, Storia della tradizione classica e Storia del teatro greco e latino all'università di Verona. I suoi interessi scientifici riguardano in modo particolare la tragedia greca antica e le sue interpretazioni, il giovane Nietzsche studioso della cultura greca, la fortuna dell’antico nella tradizione letteraria moderna, la storia degli studi classici. È membro della redazione di Skenè. Journal of Theatre and Drama Studies. Nel 2017 ha vinto il Premio Nazionale di Editoria Universitaria con il libro Storia della filologia classica (Carocci, 2016, trad. ingl. De Gruyter 2022), curato e scritto insieme a Diego Lanza.



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