|
Anna Beltrametti
La commedia, l’attore, il linguaggio, il pubblico
Non c’è dubbio che gli studi teatrali più numerosi e più noti di Diego Lanza siano i suoi contributi sulla tragedia frequentata dagli anni giovanili alla più compiuta maturità e culminati nelle pagine di La tragedia e il tragico, pubblicate in Noi e i Greci nel 1996.1 Una magistrale tessitura di Grecia antica ed Europa moderna, quel saggio, che ancora oggi mi appare tra i più intensi e rivelatori, se non il più rivelatore, della tempra e degli interessi profondi dello studioso.
Quasi assenti, almeno fino alla fine degli anni Ottanta, o limitati ad alcuni spunti disseminati in studi di altro argomento, sono i contributi di Lanza sulla commedia e sul comico che prendono l’avvio da Aristofane, toccano Menandro e, nella produzione degli ultimi anni, tornano ad Aristofane, il commediografo senza ombra di dubbio a lui più congeniale, forse il più amato. Ad Aristofane Lanza si accosta riprendendo i fili delle sue riflessioni più generali dedicate allo spettacolo antico e in particolare alla tragedia, la forma drammatica per eccellenza della cultura greca. I titoli dei primi tre saggi, dedicati ad Aristofane e compresi in questa raccolta Lo spazio scenico dell’attor comico, L’attor comico davanti alla scrittura, L’attor comico sulla scena pubblicati tra il 1988 e il 1989, riprendono espressamente e focalizzano sulla commedia antica i temi trattati in via più generale nei contributi Lo spettacolo e L’attore, pubblicati in Oralità, scrittura spettacolo, Introduzione alle culture antiche, a cura di M. Vegetti per Boringhieri nel 1983.
All’epoca, erano passati più di vent’anni dalla prima pubblicazione presso la casa editrice Sansoni, nel 1962, di Aristofane autore di teatro, il libro di Carlo Ferdinando Russo2 che era divenuto e continuava a essere un riferimento obbligato e una pietra miliare per riconoscere nelle drammaturgie di Aristofane le tracce della dimensione spettacolare offuscata dalle letture di più stretta osservanza filologica. La lezione di Russo fu feconda e durevole. Lo fu per gli studiosi a lui coetanei come Benedetto Marzullo,3 il fondatore del Dams bolognese, che nel 1968 per l’editore Laterza tradusse con la competenza del grecista e del critico teatrale militante tutte le commedie di Aristofane, e Umberto Albini. Lo fu anche per gli studiosi più giovani come Dario Del Corno e lo stesso Diego Lanza che, ciascuno a modo proprio, andavano valorizzando gli aspetti performativi della scrittura aristofanea con diverso accento sulle indicazioni di tempo e spazio oltre che, da parte di Lanza, sul ruolo fondamentale che vi aveva l’attore, prevaricante anche rispetto al personaggio interpretato.
L’attore dunque, individuato da Lanza, come “demiurgo” della scena comica, inventore delle storie rappresentate, costruttore degli spazi, degli oggetti e delle azioni, signore del linguaggio, padrone dei tempi e dei meccanismi della messa in scena. Non è un attore qualunque, quello che Lanza riconosce al centro dello spettacolo comico. E non è neppure l’attore autoreferenziale, preoccupato dei propri virtuosismi a scapito della drammaturgia e dei compositori, a cui Aristotele negli ultimi capitoli della Poetica e nella Retorica4 attribuisce il decadimento del teatro di IV secolo. Al centro della scena comica, del suo svolgersi e del suo senso, per Lanza sta dunque il primo attore, il protagonistes, secondo il lessico tecnico del teatro attico, che agli inizi e almeno fino a Eschilo coincideva con il poeta che si arrogava i ruoli principali e spesso anche quelli minori, ma tecnicamente difficili.
Alla definizione del protagonistes, al suo ruolo sociale e istituzionale ben distinto da quelli del secondo e del terzo attore e al suo rapporto con i personaggi in tragedia, Lanza aveva già dedicato lo studio del 1983. Ma è nella commedia di Aristofane che il primo attore gli sembra trovare una marcata specificità e un’incomparabile pienezza sia sulla scena, in rapporto agli altri attori e al Coro, sia nella relazione con il pubblico. E in questa raccolta che, nel disporre in sequenza i saggi dedicati, è utile ai lettori più dei singoli contributi considerati separatamente, Lanza esplora le potenzialità e le funzioni del primo attore comico nei tre ambiti dello spazio scenico, della scrittura drammatica nel suo rapporto con la parola, degli oggetti evocati o esibiti nello spettacolo.
Nel saggio inaugurale, Lo spazio scenico dell’attor comico, attraverso l’analisi linguistica del vocabolario e del dialogo, l’attenzione per la prossemica e per i continui “slittamenti” il termine è dichiaratamente mutuato da Petrolini, Modestia a parte tra “dentro” e “fuori”, dalla finzione scenica alla realtà quotidiana degli spettatori, dal personaggio che sta nella vicenda all’interprete che spiega la vicenda e la raffinata comicità del suo poeta, Lanza mette in luce la funzione incomparabilmente pregnante del primo attore nella commedia e le sorprendenti continuità che si mantengono a distanza di secoli tra la commedia ateniese e le forme teatrali senza scrittura o “dell’improvviso” o “a soggetto”, anche con l’italiana Commedia dell’Arte. E, ripensando la lezione di Francis Mc-Donald Cornford (The Origin of Attic Comedy, 1914 e 1961), Lanza riconduce i personaggi della commedia aristofanea agli stereotipi del folclore e della cultura non scritta il vecchio buffone o bomolochos, apparentemente svaporato e oggetto di raggiri, ma di fatto l’eiron, l’ironista in understatement che si rivelerà il padrone dissimulato del dialogo e della vicenda, interpretato per convenzione dal primo attore; il dottore, il pedante, dalla parlantina forbita e inconsistente; il vanaglorioso, l’alazon, destinato a soccombere nella derisione generale che, si reggono e sorreggono lo spettacolo sulla propria abilità e non su intrecci ben congegnati, come nella commedia nuova di Menandro, né su antiche storie appartenenti all’immaginario e alle credenze condivise, come nella tragedia.
L’attore, con il suo statuto e le sue funzioni, si impone così come chiave di lettura nelle analisi che Lanza conduce sui singoli testi della commedia antica, e con particolare assiduità sugli Acarnesi, la commedia rappresentata da Aristofane al festival invernale delle Lenee nel 425, la prima e l’ultima interpretata da Lanza. Gli Acarnesi non lasciano dubbi: non è l’ambientazione, non è lo spazio scenico a condizionare l’attore e a investirlo dei panni del personaggio, ma è l’attore, un cittadino qualunque per come compare sulla scena in apertura, immerso nei disagi di una città in guerra, a definire con le parole e con i gesti che si ricavano dalle parole lo spazio e a nominarlo: dirà di trovarsi su una Pnice vuota, sul colle dell’assemblea disertata dai cittadini per disaffezione alla politica. Ed è ancora l’attore, sempre con le parole e con i gesti, a ridisegnare lo stesso spazio scenico, a portare gli spettatori prima davanti alla sua casa di campagna, in quel borgo di Acarne che prima della guerra gli consentiva una buona vita, di buoni cibi prodotti o barattati. Ed è ancora l’attore a riportare gli spettatori di nuovo nella città davanti alla casa di Euripide a cui chiederà gli stracci di scena dei suoi personaggi per assorbirne le attitudini, assimilare la loro retorica e persuadere meglio i carbonai del Coro a stipulare la pace con Sparta. Ed è ancora l’attore a volare, nella Pace, sul suo scarabeo scatofágo verso l’Olimpo, dove vuole arrivare per liberare la Pace imprigionata, partendo dalla città reale con le sue latrine che attraggono irresistibilmente verso il basso quello strano cavallo alato, la parodia escrementizia del mitologico e tragico Pegaso.
I temi dei saggi successivi sono qui, in questo primo saggio della raccolta, già tutti annunciati e in parte affrontati. I saggi che seguono riprenderanno in approfondimenti specifici i fili già dipanati. Con L’attor comico davanti alla scrittura del 1989 arriva in primo piano uno dei nodi costitutivi e più problematici della commedia attica antica che si avvale della scrittura e delle sofisticazioni consentite dalla scrittura poetica mantenendo tuttavia tracce inequivocabili dell’origine orale di questa forma di teatro. Opportunamente Lanza avvia le sue riflessioni richiamando forme di recitazione collegate in Grecia con i culti misterici in onore di Demetra o di Dioniso, come i gephyrismoi o gli skommata ex amaxes, vere e proprie provocazioni e invettive rituali pronunciate sul ponte della via sacra per Eleusi o dal carro della processione dionisiaca. La raffinata poesia di Aristofane, non solo praticata, ma spesso esplicitamente rivendicata in opposizione alle antiquate e volgari buffonerie doriche e megaresi, non cancella gli echi di questa origine né nella struttura della commedia che a lungo si avvale della parabasi corale una sorta di sfilata del Coro spogliato dai costumi di scena e schierato al bordo dell’orchestra con faccia alla cavea e che mantiene tra i tratti costitutivi dello spettacolo la diretta allocuzione al pubblico, sia a gruppi ben distinti sia a persone o personalità prese di mira. Evidenziando i momenti salienti di questa complicità, spesso aggressiva, con gli spettatori costruita nel corso dello spettacolo si fa così emergere il sottofondo di iambikè idea che dalla poesia arcaica si riproduce e resta sottesa alla nuova poetica della commedia antica. Il lazzo, nel senso già illustrato da Goldoni nella nota introduttiva alla stampa del Servitore di due padroni e da Fo in Il manuale minimo dell’attore, nel senso dunque di azione accompagnata da battute, contraibile o dilatabile dal primo attore a seconda delle reazioni del pubblico, è alla base di questo gioco scenico che, nella contraddizione tra memorie di oralità e ricerche di conformazione alla tragedia attraverso la scrittura, trova in questa tensione la propria cifra distintiva.
Gli argomenti sono ripresi in L’attor comico sulla scena. L’attore qui è indagato per la capacità di costruire ed espandere la scena sia attraverso dialoghi impostati sul meccanismo di coppia, tra il comico, il primo attore, che solitamente in seconda battuta risponde e abbassa, anche in senso osceno, la battuta servita dalla spalla, sia appropriandosi del vocabolario: accostamenti inattesi e azzardati dall’attore generano nuove metafore, mentre parole abusate, metafore estinte e frasi fatte prese dal parlar comune sono dall’attore riportate alla lettera e, spesso, anche materializzate in oggetti di scena. È il caso molto noto e studiato, delle spondai, termine consueto nella lingua d’uso per “tregua”, ricondotto da Diceopoli, negli Acarnesi, dal valore metaforico al significato originario di ampolle contenti le libagioni per celebrare la pace e come tali, nella loro concretezza, mostrate e maneggiate sulla scena. Lanza abbonda nelle citazioni che illustrano questa pratica del primo attore di risalire dalla parola alla cosa, annullando le valenze simboliche intermedie. Pace, Vespe e Nuvole sfruttano spesso questo meccanismo che alla base ha i fraintendimenti di chi non comprende il linguaggio figurato e, in un’ultima analisi, si gioca sulla figura folclorica e fiabesca dello sciocco alla figura antropologica dello stolto Lanza nel 1997 dedicherà uno studio importante , sull’ingenuo o finto ingenuo, estraneo al linguaggio condiviso e, proprio perché non offuscato dal senso comune, più vicino alla verità.
Con la figura dello stolto, di volta in volta connotato come vecchio, presbys, rustico campagnolo, agroikos, ignorante, amathes, e scontroso, dyskolos, che azzera le metafore traducendo le parole in cose, che manipola i discorsi mentre gli oggetti si risemantizzano in nuove metafore e si trasformano in oggetti diversi intorno a lui emblematica è la scena del processo domestico nelle Vespe Lanza documenta la parentela della commedia e della favola che non solo condividono la stessa origine folclorica ma si avvalgono degli stessi dispositivi narrativi e scenici.
Con l’ultimo saggio del 1989, Aristofane rigattiere, richiamando passi già considerati in altra chiave e con nuovi esempi, Lanza approfondisce la dimensione della scena comica ammobiliata da una piccola e umile attrezzeria del tutto estranea alle scene austere e perlopiù vuote della tragedia. Comincia suggerendo un’analogia pertinente, citando il catalogo delle “robbe” che nel canovaccio o scenario del 1611 seguiva l’elenco dei personaggi nella commedia Le burle di Isabella di Flaminio Scala. La comparazione è chiaramente suggerita dagli stracci di scena che Diceopoli chiede in ritmi tragici storpiati a Euripide, e anche da quella strana paccottiglia un cestino, una scodellina sbrecciata, una fiaschetta, una spugna, erbe secche, insalata che per il pubblico allude alla versione comica della madre di Euripide, l’erbivendola. La scena (Acarnesi, vv. 430-479) è tra le più famose e due livelli parodici vi si combinano: sul piano di superficie il linguaggio e il ritmo tragico sono approssimati e ridicolizzati dal carbonaio Diceopoli che si rivolge al tragediografo più in auge del momento; su quello più profondo, nella vicenda ormai senza sbocco della ricerca della pace si innesta la vicenda tragica di Telefo e del bambino-ostaggio sostituito da un cesto di carbone. E ancora negli Acarnesi accade in scena l’abile esibizione e trasformazione della sontuosa armatura, elmo e pennacchi, del generale Lamaco in strumenti vomitori con cui Diceopoli esprime il proprio disgusto per il generale e per la guerra. Così come nella Pace (vv. 1210-1249), si assiste alla trasformazione delle armi vendute dagli armaioli in oggetti innocui e, nelle Vespe (vv. 854-858), alla riconversione degli attrezzi da cucina il piatto, la grattugia, la pentola, il pestello e il cane Labete dal nome parlante di ladreria in strumenti per il processo domestico in cui impegnare il vecchio giudice Filocleone contro l'imputato, il cane “Ladrone”.
Dal sorprendente iperrealismo di partenza l’abilità del primo attore approda al surreale e al fantastico che è la dimensione propria della commedia antica, uno spettacolo refrattario alle regole del verosimile e in continua tensione tra la realtà storica con i suoi disagi e la trasfigurazione della realtà nel sogno e nel riso.
Con Diceopoli vs deboli sorrisi la linea interpretativa si modifica e si sposta sui tratti formali non prima ignorati, ma qui privilegiati. La commedia di riferimento principale resta quella degli Acarnesi. Ma rispetto alla tecnica compositiva più generale della commedia qui sono le tecniche parodiche a prendere il primo piano. Viene allo scoperto una parodia a tutto campo che attacca, abbassandole, le istituzioni della polis, qui in particolare attraverso la caricatura degli ambasciatori inviati dalla città presso il re di Persia, parassiti mangioni, mantenuti nel lusso dei cibi e delle vesti a spese pubbliche. Le tecniche comprendono gli “a parte” del protagonista che in margine alla scena commenta l’arrivo degli scrocconi di stato, il grammelot con cui si approssima almeno nei suoni la parlata persiana, il più consueto smascheramento del vocabolario pretenzioso e vacuo degli ambasciatori, la messa in ridicolo della seriosità istituzionale. Nulla che possa ridursi a mero gioco linguistico e “letterario”, ammesso che si possa parlare di letteratura per il teatro attico di V secolo, ma un più profondo scavo nell’ethos collettivo rimesso in discussione attraverso i bersagli della derisione comica.
Gioco parodico e continui slittamenti del primo attore tra la sua parte di eroe comico espressione tanto abusata quanto per Lanza (p. 229) paradossale e interprete presiedono al materializzarsi e all’incrociarsi di spazi fittizi e reali in commedia. È il punto centrale del saggio del 2000, Entrelacement des espaces chez Aristophane (l’exemple des Acharniens) che, riparte dagli Acarnesi con argomenti che saranno ripresi nell’Introduzione alla traduzione della commedia per Carocci nel 2012 e che valorizzano, una volta di più, la dimensione fantastica che il primo attore introduce con il suo espressionismo linguistico, proiettando negli spazi reali e noti in cui la commedia si avvia il sogno di un mondo altro, non necessariamente migliore, ma immaginato come migliore da chi si sforza di inventarlo o raggiungerlo. Un mondo non verosimile, dove e quando l’inverosimiglianza osserva Lanza p. 203 è un moltiplicatore di comicità, ma anche si dovrebbe aggiungere una strada del pensiero attraverso i paesaggi dell’immaginazione.
Nel lungo saggio del 2012, Aristofane, o del mettere in commedia, premesso come Introduzione alla traduzione e commento degli Acarnesi per Carocci, ricompaiono i punti forti delle analisi dedicate da Lanza negli anni alla commedia antica. Centrale resta la figura del primo attore nel suo rapporto con gli spazi scenici e delle interferenze tra scena, retroscena, fuoriscena e cavea, nella sua pirotecnica e creativa padronanza del linguaggio tra oralità e scrittura, nella sua destrezza da giocoliere nell’uso dei poveri oggetti da far comparire o sparire, da trasformare illusionisticamente. Nel suo trasformismo, nel suo mutare di scena in scena a seconda dell’interlocutore e della parte, continuamente alternandosi tra il ruolo di buffone e quello di spalla.
Rispetto tuttavia ai saggi di argomento più circoscritto, questo, l’ultimo e il conclusivo così sembra di poter arguire da molti segni disseminati da Lanza nella stesura dedicato ad Aristofane, ha un impianto più didattico e un intento più esaustivo. Il saggio si apre con una messa a punto alla luce di Tucidide del quadro storico in cui gli Acarnesi si collocano e del personaggio, Cleone, più in vista del momento, individuato come bersaglio della derisione e della denuncia dal drammaturgo. Procede con la ripresa delle precedenti disamine esercitate su questa commedia d’elezione, muove alla conclusione sulla realizzabilità del desiderio comico soffermandosi, nel paragrafo 4 (pp. 212-218), sulla ricezione novecentesca di Aristofane.
Queste, sulla ricezione, sono tra le pagine più felici del saggio in cui è meglio avvertibile il “tocco” d’autore, la voce del critico che sa coniugare antico e moderno fino al contemporaneo. Lanza elenca le interpretazioni di Aristofane ancora debitrici alla poetica di Friedrich Schlegel e all’estetica della poesia pura, quindi si sofferma sulle interpretazioni più impegnate, più “politiche”, proprie degli anni Cinquanta e Sessanta, alla ricerca spesso forzosa di testimonianze storiche nella quasi totale indifferenza per la qualità e la specificità dei testi poetici. Chiudono la rassegna le riflessioni sulla grande stagione, negli anni Settanta, delle letture “utopistiche” di Aristofane, qualunque significato anche molto largo e approssimativo abbiano dato di volta in volta alla nozione di utopia, e quelle sulle letture carnevalesche del mondo alla rovescio suggestionate più che da Bachtin, con le sue categorie di “ufficiale” e “popolare” che giustamente Lanza distingue con dati storici dalla vulgata dell’opposizione alto vs basso, dalla lectio facilior applicata a Bachtin, da un bachtinismo dilagante che io definisco di maniera.
La trattazione dedicata a Menandro, pubblicata nel 1996 in Lo spazio letterario della Grecia antica, ha tutti i caratteri della voce enciclopedica di alto livello con intenti al contempo di esaustività e di sintesi. Lanza prende le mosse dal confronto plutarcheo tra Aristofane e Menandro, un’operetta che anticipava i tratti salienti del commediografo e della commedia nuova di cui fino alla seconda metà dell’Ottocento non si conoscevano i testi, a parte gli 877 trimetri di carattere sentenzioso e proverbiale, gnomai monostichoi, raccolti per tradizione indiretta in una compilazione di età romana. Alla luce dei primi frammenti dal Phasma e dagli Epitrepontes ritrovati sul codice in pergamena scoperto nel 1844 e, soprattutto, lavorando sul testo quasi integrale del Dyskolos, L’intrattabile nella traduzione di Lanza, e sugli ampi stralci dalla Samia e dell’Aspis riportati nel papiro Bodmer, pubblicato a metà del Novecento, il saggio pone il problema della corrispondenza tra il Menandro riscoperto e le informazioni degli antichi, di Plutarco ma anche degli scritti sulla commedia del grammatico Platonio. Così, tenendosi sul filo delle drammaturgie, Lanza fa emergere i tratti distintivi della scrittura di Menandro: intrecci ben costruiti e saldamente governati dal principio di verosimiglianza; azioni che si compiono negli spazi tra loro solidali di scena e retroscena, in un certo senso in un unico spazio articolato tra interni ed esterni delle case e in un tempo, anch’esso unitario, che porta allo scioglimento dell’equivoco, spesso degli equivoci casuali, e degli inganni di partenza; un linguaggio medio, scarsamente differenziato tra i personaggi e vorrei anche aggiungere vicino alla koinè, addomesticato nei toni colloquiali, e, come piaceva a Plutarco, mitigato nell’invettiva, psogos, e depurato dell’osceno; i riferimenti costanti alla tragedia per via parodica o per più semplici rimandi.
Senza negare le evidenti coincidenze strutturali tra la commedia menandrea e la tragedia di Euripide, a cominciare dal personaggio prologante, spesso una divinità, che informa gli spettatori sugli antefatti dell’azione drammatizzata, Lanza mette tuttavia in guardia i suoi lettori da troppo facili accostamenti dei due drammaturghi operanti in generi drammatici ben distinti a oltre un secolo di distanza l’uno dall’altro e dopo una gran messe di produzione teatrale. Anche se quel che ci resta di Menandro rivela un progressivo sconfinamento tra tragedia e commedia era la direzione, io penso, auspicata e forse prevista da Socrate nel finale del Simposio platonico restano nelle commedie di Menandro tracce inconfondibili del genere comico originario e della teatralità dell’improvviso. Attraverso la disamina dei testi, Lanza fa emergere il ruolo ancora portante del primo attore soprattutto nel governo del lazzo da dilatare o contrarre a seconda della reazione del pubblico. E anche scopre, sotto i nomi propri dei personaggi coinvolti negli intrighi e sotto i tipi ricorrenti del vecchio bisbetico o del cuoco o del militare, le figure folcloriche ormai stereotipate del buffone, del pedante, del parassita, del vanaglorioso a cui anche Aristofane aveva fatto ricorso, ma da Menandro destinate invece che al conflitto alla conciliazione del lieto fine.
Nel saggio menandreo più corposo, Lanza offre il quadro di una poetica drammaturgica che assorbe le eredità dello spettacolo orale dentro una scrittura che ha fatto i conti con Aristofane e anche con la tragedia, di quella forma di teatro che resterà paradigmatica per lungo tempo ancora. Il quadro che ne risulta è quello di una poetica drammaturgica, quella menandrea, che si era profondamente nutrita non solo di teatro, ma anche dell’etica del Peripatos in cui individuale e collettivo si intrecciavano e miravano a una riconciliazione fondata «sul rispetto reciproco (αἰδώς), sull'autocontrollo (σωφροσύνη), e sulla solidarietà (φιλανθωπία)», di cui il lieto fine è il segno teatrale.
La stessa visione di Menandro torna confermata anche nel saggio più circoscritto, Menandro sulla scena, dove, in sintonia con Dario Del Corno e in occasione di uno stesso convegno, è posto il problema della lunga durata della commedia menandrea, all’origine non solo della commedia latina, plautina e soprattutto terenziana, ma ancora del grande teatro comico moderno. Ma saranno poi così affini la commedia moderna e quella di Menandro che riduce il conflitto a increspatura di superficie, a equivoco, in un mondo idealizzato, in una polis, dove ogni cosa e ogni persona hanno il proprio posto? Lanza, come è solito fare scrivendo, ci lascia nel dubbio.
1 D. Lanza, La tragedia e il tragico, in I Greci, a cura di S. Settis, vol.: I Noi e i Greci, Torino Einaudi 1996, pp. 469-504.
2 Per un bel ritratto di Russo e sulle premesse del libro, vedi Sotera Fornaro, Carlo Ferdinando Russo, «Visioni del tragico. La tragedia greca sulla scena del XXI secolo».
3 Sull’attenzione di Marzullo per gli aspetti spettacolari della drammaturgia antica e sulla nozione di parola scenica da lui coniata per differenza dalla più ricorrente e shakespeariana nozione di scenografia verbale, vedi M. De Marinis, Note rapsodiche e stravaganti per un maestro eccentrico, in A.M. Andrisano e V. Tammaro (a cura di), Benedetto Marzullo. Il grecista che fondò il DAMS, libreriauniversitaria.it edizione, Padova 2009, pp. 9-19.
4 Aristotele, Retorica, 3, 1403b 27-35.
|