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Cat.n. 493

Costanzo Preve

I secoli difficili.  II edizione. Il carattere veritativo della conoscenza filosofica: un percorso di verità e di libertà. Introduzione al pensiero filosofico dell’Ottocento e del Novecento.

ISBN 978-88-7588-394-2, 2024, pp. 368, formato 140x210 mm., Euro 30 – Collana “il giogo” [198].

In copertina: René Magritte, Le domaine enchanté VII, 1953.

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Introduzione

Questo saggio è ispirato ad un principio teorico centrale, quello del carattere veritativo della conoscenza filosofica. Conformemente ad un approccio di tipo storico ai fenomeni culturali, questo principio non è soltanto proclamato, enunciato, “agitato”, ma è “applicato” e sottoposto ad una verifica di natura appunto storica, la storia dell’Ottocento e del Novecento.

Il primo capitolo, dedicato alla nascita della modernità filosofica nel Settecento europeo, rappresenta l’inizio di questo percorso storico e teorico. Ma prima è bene cominciare con un’introduzione, che dia alcune indicazioni preliminari sul tema del carattere veritativo della conoscenza filosofica.

In filosofia, come nel nuoto, è impossibile dare indicazioni astratte svincolate da un’immediata appli­cazione pratica. Si impara a nuotare solo nuotando, ed a filosofare solo filosofando. È questa la ragione per cui non credo, e non ho mai creduto, alle “introduzioni metodologiche”. Tuttavia, è bene egualmente segnalare al lettore alcuni punti, destinati ad essere continuamente ripresi nei capitoli successivi.

Primo, è bene che il lettore sappia subito che l’affermazione del carattere veritativo della conoscenza filosofica non è oggi sostenuta dalla stragrande maggioranza della comunità professionale dei filosofi universitari, che influenzano direttamente ed indirettamente la comunità dei giornalisti recensori e di­vulgatori delle pagine culturali dei quotidiani e delle riviste, e delle trasmissioni culturali radiofoniche e televisive.

L’affermazione del carattere veritativo della conoscenza filosofica è in genere respinta dalla stragrande maggioranza dei filosofi professionali e dei giornalisti culturali per due ordini di ragioni. Da un lato, essa è ritenuta arcaica, mitica, religiosa, premoderna, non conforme ad una contemporaneità vista come luogo del disincanto, del relativismo delle opinioni giuridicamente garantito, della pluralità degli stili di vita, ecc. Dall’altro, essa è ritenuta pericolosa, perché potenzialmente intollerante, incline a passare dal descrittivo al normativo, cioè a legittimare il conformismo imposto e forzato in nome del richiamo ad una Verità di tipo religioso (e si pensi ai vari fondamentalismi religiosi nel mondo, che sono quasi sempre effettivamente intolleranti).

Secondo, per far chiarezza su questa situazione storica attuale, è necessario fare un passo indietro, o meglio una mossa teorica, e chiarire che cosa propriamente vuol dire verità filosofica. Vi sono infatti molti altri tipi di affermazioni e di negazioni, cioè di proposizioni, che nel linguaggio quotidiano vengono sommariamente chiamate “verità” (o falsità), e che invece non sono verità (o falsità) di tipo filosofico.

Terzo, alla luce delle considerazioni sul carattere proprio e distinto delle proposizioni filosofiche, sarà possibile mettere in discussione, ed eventualmente respingere (come suggerisco) le accuse alla verità filosofica di essere premoderna ed intollerante, cioè indegna dell’epoca contemporanea e pericolosa per il pluralismo politico e culturale delle opinioni e degli stili di vita.

Prego il lettore di prestare una particolare attenzione all’esame di questi tre punti, perché in questo modo l’intero saggio può essere letto e compreso con maggiore facilità.

Iniziamo dal primo punto.

Se il comune lettore è spesso intimorito e “spaventato” dall’autorità e dalla notorietà dei filosofi “famosi”, sappia che si tratta di un timore reverenziale del tutto infondato. Così si è letteralmente espresso nel 1994 il novantaquattrenne filosofo Gadamer, uno dei più importati del Novecento: «I filosofi? E chi sono? Io non ne conosco. Conosco i professori di filosofia, che sono soltanto una piccola parte della gente accomunata dai medesimi problemi. Anche un pastore, anche un prete, anche un economista possono essere filosofi, mentre i professori di filosofia non è detto che lo siano. Forse un giorno impareremo a guardare le cose con i nostri occhi, e non chiederemo più ad un altro come le vede».

Parole sante. In generale, un professore universitario di fisica, chimica, chirurgia è anche un fisico, un chimico, un chirurgo. Un professore universitario di filosofia non è invece automaticamente un filosofo.

Questa situazione è relativamente recente, ed è nata appunto con la modernità, quando si è potuti diventare ufficialmente “filosofi” specializzandosi o in storia della filosofia (cioè nell’approfondimento filologico delle opinioni espresse da altri), o in campi specialistici della teoria della conoscenza.

In ogni caso, le ragioni della grande impopolarità della concezione veritativa della conoscenza filosofica presso i filosofi professionali è dovuta a profonde ragioni storiche, indubbiamente assai serie, e non a caso ne parleremo tanto a lungo in questo saggio.

Senza bisogno di risalire fino a Kant, che viene spesso scorrettamente e frettolosamente interpretato come un negatore della conoscenza filosofica in nome della sola conoscenza “scientifica” assolutizzata (ma questo è per l’appunto tipico del neokantismo ottocentesco e novecentesco e non invece di Kant), una negazione aperta del carattere veritativo della conoscenza filosofica si ha ad esempio in Max Weber. Secondo Weber l’epoca moderna è quella del «disincanto del mondo», del venir meno irreversibile di qualunque possibilità di fondare la conoscenza del Bene e del Male su basi sicure. Ciò dà luogo ad un politeismo dei valori incomponibili, regolabili solo mediante procedure giuridiche convenzionalistiche.

Come vedremo meglio nel quinto capitolo, Weber dà qui un’interpretazione “civilizzata”, educata e ra­gionevole di ciò che Nietzsche aveva già affermato a “colpi di martello”. Oggi il punto di vista di Weber è sostenuto con argomenti tratti in buona parte dal pragmatismo americano e dalla sua tradizione. Si parla di teoria “deflazionistica” della verità, di “sgonfiare” le pretese di verità, di subordinazione di questo “valore” (la verità) ad altri valori di maggiore utilità sociale, come le opinioni, le apparenze, il successo, il piacere.

Vedremo più avanti come tutto questo nasce da una confusione, perché la verità non è un valore fra gli altri, ma è il fondamento dei valori. Ed infatti non è un caso che tutti coloro che vogliono “sgonfiare” la verità vogliono anche congiuntamente abolire lo stesso concetto di fondamento. Nel 1981 si è così espresso il noto filosofo tedesco Jurgen Habermas, in una conversazione con tre suoi allievi in cui rendeva noto il suo irreversibile distacco dai suoi due maestri francofortesi Horkheimer e Adorno: «Per quanto mi riguarda, mi sono congedato dall’enfatica pretesa filosofica alla Verità. Questo vecchio concetto elitario della Verità è un ultimo avanzo di mito, ed io non voglio tornare indietro».

Apparentemente, si tratta soltanto della riaffermazione del vecchio punto di vista dei sofisti contro Socrate, e di Isocrate contro Platone. Ma c’è in più, a mio avviso, tutta l’arroganza del cosiddetto “progressista”, che ha paura di «tornare indietro», parla della verità in termini di enfatico, vecchio ed elitario, e la liquida in termini di «ultimo avanzo di mito».

Ma è proprio così? È proprio vero che il riferimento alla verità deve essere lasciato ai preti ed ai predi­catori? Non lo penso proprio. E tuttavia, i negatori della pertinenza e della legittimità del riferimento alla verità hanno dalla loro parte l’apparenza di una ovvietà indiscutibile. Non viviamo forse già in un mondo in cui tutti gli stili di vita si organizzano liberamente, purché ovviamente uno se li possa permettere e soprattutto possa pagarseli? E non sono forse pericolosi coloro che, come i talebani dell’Afganistan, in nome dell’imposizione della verità religiosa del Corano, costringono le donne in un abito-prigione in cui persino il viso è nascosto da una grata? Non è forse meglio rinunciare all’antiquato e mitico concetto di verità, residuo di tempi premoderni, e limitarsi a gestire la pacifica convivenza giuridicamente garantita di opinioni diverse, nessuna delle quali candidata ad essere riconosciuta come l’«unica» verità, riconoscendo anche che persino in campo scientifico la verità non è che una chimera inutile, perché le scienze non si servono di questo concetto antiquato, ma usano procedure concordate, definite “protocolli”, di verificazione e di falsificazione di ipotesi mediante esperimenti o mediante confutazioni?

Come si vede, chi nega la pertinenza della nozione filosofica di verità non è certamente uno sciocco, ha buone frecce al suo arco, ed è dunque necessario assumere come legittima la sua posizione.

Ma questo ci porta al secondo punto sopra indicato: l’indagine su che cosa propriamente voglia dire verità filosofica. Su questo termine, infatti, si sono accumulate molte confusioni, che bisogna cominciare pazientemente a chiarire.

Come è noto, nel linguaggio quotidiano un unico termine significa cose molto diverse e talora opposte. È noto che la caratteristica principale del linguaggio “scientifico” sta proprio nel cercare di evitare gli equivoci attraverso connotazioni precise ed univoche di termini specifici, ma bisogna rassegnarsi al fatto che il linguaggio filosofico è distinto sia da quello quotidiano sia da quello scientifico, ed ogni tentativo forzato di conformarlo ad uno dei due finisce con il fallire.

Proposizioni come “Parigi è la capitale della Francia”, “Giacomo Leopardi è morto nel 1837”, “La neve è bianca”, “I neutrini mancano di massa inerziale”, ecc., non sono verità filosofiche, anche se connotano realtà indubbiamente vere. Analogamente, non sono verità filosofiche le espressioni veridiche, cioè sincere, quando ad esempio io dico “Ti amo” ed amo veramente e non fingo.

Le stesse opinioni che esprimiamo continuamente sui più diversi temi politici, economici, sportivi, familiari, ecc., non sono verità filosofiche, ma non sono neppure separate da esse da un’invalicabile muraglia cinese, perché la separazione fra verità filosofica ed opinione non è assoluta, ma costituisce lo spazio dialettico del dialogo filosofico.

Il dialogo filosofico infatti non ha mai la forma autoritaria della conferenza, in cui chi possiede la verità la comunica a chi ha soltanto delle domande o delle opinioni, ma ha sempre la forma del dialogo, in cui le opinioni si confrontano, con il presupposto però che i partecipanti al dialogo siano interessati alla comune ricerca della verità e ritengano questo obiettivo perseguibile.

È noto che i dialoghi socratici di Platone sono il modello di questa concezione veritativa della filosofia. Chi li ha letti, però, sa bene che il dialogo non avviene mai in modo disteso, tollerante, aperto alla registrazione di tutte le opinioni possibili messe sullo stesso piano, ma si tratta di un dialogo difficile, faticoso, che richiede una concentrazione ed un’attenzione assoluta.

Ed infatti il dialogo platonico – modello inarrivabile di ogni posteriore dialogo filosofico – non è un comune dialogo in cui si “elencano” punti di vista divergenti che pretendono solo di essere riconosciuti in un clima di scetticismo giuridicamente tutelato, ma è un dialogo il cui presupposto sta nel fatto indispensabile che i partecipanti al dialogo preventivamente consentano alla premessa per cui vi è una verità raggiungibile, e che la comune ricerca di essa è un obbiettivo non solo possibile ma anche e soprattutto meritevole di essere perseguito, conseguito e comunicato.

Vi è qui indubbiamente un paradosso, o, se si vuole, una contraddizione. In breve, è impossibile perseguire dialogicamente la verità filosofica se non si presuppone preventivamente che essa esiste. Io penso che questa contraddizione non debba essere nascosta o esorcizzata pudicamente, ma debba essere apertamente enunciata fin dal principio. Forse è questa la ragione per cui Wittgenstein, che non credeva assolutamente alla verità filosofica, affermò che la metafisica non era altro che la magia dei popoli sviluppati. Ed è certo questa la ragione per cui Platone sostenne che anni ed anni di quotidiani esercizi dialogici “razionali” servono solo a far scattare ad un certo punto una sorta di intuizione che si presenta come un’evidenza. Ed è probabilmente questa la ragione per cui Heidegger, forse il massimo filosofo del Novecento, sostenne che la verità filosofica si nasconde e si rivela senza che noi possiamo disporne a nostro piacimento.

Chi è abituato ad una concezione puramente “scientifica” della verità, su cui ci soffermeremo soprattutto nel capitolo settimo di questo saggio, può avvertire in queste mie parole uno sgradevole tono irrazionalistico, come se chiedessi una sorta di giuramento mistico analogo a chi chiede di credere nell’astrologia, nei lupi mannari, nelle profezie di Nostradamus e nella trasmigrazione delle anime .

Ma non è così. È certamente impossibile dare una definizione univoca, una volta per tutte, della natura della verità filosofica, per il fatto che essa dipende dalla storia, cioè dal tempo storico. La correlazione fra verità e storia è generalmente interpretata come un’ammissione di relativismo, cioè di non-verità per definizione, dal momento che siamo abituati a pensare che le uniche verità esistenti sono le verità non dipendenti dalla storia, come ad esempio le verità matematiche e le loro applicazioni ad un mondo fisico considerato stabile: due più due fa quattro al tempo dei dinosauri ed al tempo di Carlo Magno; un sasso cade verso il basso al tempo delle piramidi egizie e durante la seconda guerra mondiale.

Ma la natura delle verità matematiche non è la stessa di quella delle verità filosofiche, come del resto era già chiaro ad un grande ammiratore delle verità matematiche come Platone, che impiegava per i due tipi di verità l’uso di facoltà conoscitive differenti denominate dianoia e nous.

Il filosofo italiano Emanuele Severino, un valoroso difensore della natura veritativa della conoscenza filosofica – cosa che lo mette a mio avviso molto al di sopra della maggioranza dei suoi colleghi – si inganna credendo di garantire meglio la verità filosofica dandole un carattere eterno ed atemporale, che è piuttosto tipico delle verità matematiche. Il tempo storico non è il semplice tempo omogeneo dell’orologio, ma è un tempo denso, che si addensa e si condensa, diviene fitto e rarefatto, e permette la visibilità oppure condanna all’invisibilità.

Ci vuole lo stesso numero di minuti e di secondi per leggere la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e per spingere nelle camere a gas degli inermi innocenti. Il tempo dell’orologio per fare le due cose è lo stesso, ma il tempo storico in cui le due cose avvengono non è lo stesso, perché è diversa la conoscenza del Bene e del Male che sta sotto e sopra i due avvenimenti. E la conoscenza filosofica è appunto quella capacità di orientamento individuale e collettiva nella distinzione del Bene e del Male, che deriva da un’interpretazione della totalità espressiva del legame sociale in cui gli uomini sono inseriti.

Questa capacità di orientamento non può essere definita una volta per tutte, e non può essere ma­nualizzata in una tavola dei logaritmi, per il fatto che essa ha bisogno di tre dimensioni del pensiero e dell’azione, tutte e tre necessarie ed indispensabili, che potremo definire con i tre termini greci di logos, di phrònesis e di éthos. L’unione di questi tre termini costituisce la verità filosofica, o, per meglio dire, introduce ad una sua possibile conoscenza.

Il termine greco logos allude sia alla Ragione, cioè ad una verità che si manifesta nella storia ma che è al di sopra delle mutevoli opinioni che gli uomini di volta in volta si fanno delle cose, sia ai Ragionamenti che, mettendo gli uomini in reciproco rapporto dialogico, permettono di arrivare a questa Ragione in modo appunto “logico”, cioè razionale e consensuale.

Non esiste dunque logos se si confrontano semplicemente punti di vista diversi senza il presupposto di poter giungere ad una verità che non sia soltanto una stipulazione convenzionale provvisoria. Oggi non disponiamo più, nelle lingue moderne, di un unico termine per indicare sia la Ragione sia i Ragionamenti che portano ad essa, ed è per questo che ci è tanto difficile capire ciò che – in linguaggio purtroppo complicato – potremo definire unità di ontologia e di assiologia, di essere e di valore, di realtà e di logica che a questa realtà giunge razionalmente. È vero che il grande filosofo Hegel ha cercato di restaurare questo grande significato greco del termine logos, ma è anche vero che, come dimostrerò nel mio saggio, la modernità si è costituita negando la pertinenza della soluzione hegeliana.

Il termine logos resterebbe però del tutto vuoto ed astratto, se non si concretizzasse – sul piano collettivo – nell’éthos, cioè nel carattere e nei comportamenti di una comunità capace di dare ascolto al logos, e non si individualizzasse nella singola persona come phrònesis, cioè come saggezza prudente capace caso per caso di prendere la decisione migliore nelle condizioni date.

La natura della verità filosofica è dunque di tipo storico, in un senso però opposto al relativismo ed al convenzionalismo che generalmente il termine “storico” porta con sé, ed è formata dall’unione inscindibile di logos, di éthos e di phrònesis, cioè rispettivamente di ragione-ragionamento, di carattere-comportamento e di saggezza-decisione.

L’insieme espressivo dei rapporti sociali in cui viviamo è assunto come oggetto legittimo di giudizio della verità filosofica in merito ai piani del Bene/Male e del Vero/Falso, a differenza di quel che fa la scienza della natura.

Nella verità filosofica il Vero è anche Bene ed il Falso è anche Male, mentre le leggi scientifiche utilizzate per costruire uno strumento di salvezza ed uno strumento di morte sono le stesse: e, dunque, il “vero” scientifico può essere usato sia per il “bene” che per il “male” filosofico. È necessario che questa differenza di principio fra le scienze e la filosofia sia ben compresa, per non cadere in equivoci e confusioni di ogni tipo.

Bisogna aprire per questo una piccola parentesi, insufficiente per approfondire il tema della verità filosofica, ma utile per impedire fraintendimenti fatali.

La natura della verità filosofica è di tipo logico ed ontologico, non semplicemente gnoseologico, nel senso che non consiste in una “verità” neutra ed asettica, separata da ogni valore sociale (non è dunque un logos separato dall’éthos e dalla phrònesis). Non è, per questo, opportuno applicarvi le due teorie della verità come corrispondenza e della verità come coerenza, che sono spesso segnalate come esclusive nei dizionari filosofici alla voce ‘‘verità’’.

La teoria della verità come corrispondenza dice in breve che una proposizione è vera se corrisponde ad una “realtà” esterna effettivamente esistente. È vero che c’è un gatto sul balcone se c’è effettivamente un gatto sul balcone. Nella teoria di Popper l’enunciato “c’è un gatto sul balcone” è scientifico al cento per cento, anche se per caso fosse falso e non ci fosse nessun gatto, perché è possibile falsificare questa affermazione andando a vedere e verificando appunto che non c’è. La proposizione “due più due fa quattro” non ha un oggetto materiale esterno visibile come il gatto sul balcone, ma rientra egualmente nella concezione della verità come corrispondenza, perché ci si riferisce ad un’idea matematica visibile con gli occhi della mente (è questa una concezione pitagorica ripresa pienamente da Platone).

Se dunque in molti casi, di tipo quotidiano o scientifico, la teoria della verità come corrispondenza sembra funzionare molto bene, non è questo il caso della verità filosofica, che non “corrisponde” in alcun modo ad una cosiddetta “realtà”, spirituale e materiale, di cui sia necessario supporre e postulare l’esistenza a priori.

È possibile verificare quanto dico con un rapido esame delle due principali varianti della verità filosofica come corrispondenza, la variante spiritualistico-religiosa e la variante detta “marxista”, tipica della filosofia dominante del comunismo storico novecentesco, il materialismo dialettico.

Ritornerò ovviamente su questo punto cruciale nel corso del saggio, ma è necessario segnalare subito tale questione per impedire iniziali fraintendimenti.

La variante spiritualistico-religiosa della concezione della verità come corrispondenza ad una realtà esterna data per necessariamente postulata – concezione spesso definita “realismo gnoseologico” –, immagina Dio come una realtà superiore trascendente che fa da criterio ultimo per distinguere fra Vero e Falso, e dunque anche fra Bene e Male. La mente di Dio può essere così concepita sia come una gigantesca tavola pitagorica di enti – non solo matematici ma anche morali (una sorta di “numeri morali”) –, sia invece come un centro di Volontà buona, arbitraria ma egualmente buona.

Sebbene nella storia della filosofia occidentale queste due concezioni – l’essenza delle cose come eterna coesistenza da sempre nella mente di Dio, oppure l’essenza delle cose come frutto dell’insondabile volontà divina – si siano presentate quasi sempre non come complementari ed armoniche, ma come opposte ed inconciliabili, da un punto di vista filosofico mi sembra che esse siano omogenee in ultima istanza.

Questa “corrispondenza” non dà però luogo ad una verità filosofica, ma soltanto ad una verità religiosa eventuale, in quanto la dialogicità che la costituisce è al servizio di una semplice “spiegazione” di un postulato religioso sottratto ad ogni sovranità dialogica.

La variante “marxista” della concezione della verità come corrispondenza, generalmente definita come «teoria del rispecchiamento», postula una sorta di “materia” come substrato preesistente ai processi di conoscenza, “materia” in cui viene incorporata sia la dimensione naturale (astronomica, fisica, chimica e biologica), sia la dimensione storica (rapporti sociali, forze produttive, classi sociali, evoluzione storica).

È evidente come questa “materia” assolutizzata diventi un sostituto del precedente Dio spiritualistico-religioso, anche se si determina un restringimento ed un impoverimento di questo principio religioso divino. È infatti difficile attribuire alla “materia”, per quanto questo principio venga allargato, ampliato e complicato, quelle caratteristiche di logos, di éthos e di phrònesis che era invece possibile attribuire ad un Dio personale.

È necessario allora inserire due nuovi principi, quelli della “scienza” e del “progresso”, per permettere alla “materia” di adempiere ad un ruolo metafisico affine a quello esercitato da Dio. Ma si ha allora una debole e penosa “religione positivistica”, su cui tornerò a lungo specie nei capitoli terzo ed ottavo.

La concezione della verità come corrispondenza, dunque, non è in grado di aiutarci per un’adeguata comprensione del carattere veritativo della conoscenza filosofica. Essa ci immette in un circolo vizioso, che rimanda continuamente fra i due poli della religione e della scienza.

Nella filosofia italiana i due pensatori che nell’ultimo cinquantennio del Novecento hanno meglio professato questa concezione della verità come corrispondenza sono a mio avviso rispettivamente Augusto Del Noce (verità come corrispondenza religiosa) e Ludovico Geymonat (verità “marxista” come corrispondenza scientifica).

Questo saggio non è assolutamente compatibile con queste due concezioni, assolutamente opposte sul piano politico ed ideologico, ma secondo me se­gretamente affini, e pertanto entrambe sbagliate, sul piano teorico.

Per ripeterlo ancora una volta, la concezione della verità come corrispondenza ad una “realtà” esterna postulata come fonte originaria della conoscenza non è una concezione adatta alla verità filosofica, ma sol­tanto, forse e con molte riserve, a “verità” di tipo diverso, di carattere religioso o scientifico.

La teoria della verità come coerenza abbandona il presupposto di una realtà esterna preesistente cui conformarsi, e si limita a fornire procedure razionali per ricostruire la coerenza logica del tessuto delle argomentazioni e per stabilire criteri intersoggettivi adatti a raggiungere un consenso “patteggiato” sulla base di verificazioni e di falsificazioni di ipotesi e di prove sperimentali. Gran parte della filosofia della scienza contemporanea si ispira ad una concezione, esplicita o implicita, della verità come coerenza.

Nello stesso tempo l’epistemologia contemporanea più avvertita ha preso coscienza della sostanziale impossibilità di gettare un ponte fra la “forma” della coerenza e la “materia” della corrispondenza, cioè di poter riflettere come in uno specchio il corso presunto “oggettivo” della natura e della storia umana. È noto infatti che la coerenza è un criterio valido anche per le creazioni letterarie di fantasia, e per le visioni del mondo di tipo schizofrenico e paranoico. Facciamo l’ipotesi che la storia umana sia segretamente determinata dall’azione reciproca e dalla lotta senza quartiere fra 344 angeli e 344 diavoli. Una simile concezione può dar luogo ad una costruzione assolutamente coerente, e la possibilità di elencare addirittura 344 qualità positive dei comportamenti e 344 tentazioni negative della volontà darebbe addirittura luogo ad una psicologia individuale e sociale più ricca ed articolata di quella di Freud.

Siamo abituati a classificare i sessi in numero di 2, ma se volessimo classificarli in 8 classi, comprendendovi non soltanto la dichiarata omosessualità maschile e femminile, ma anche varianti della mascolinità e della femminilità, costruiremmo certamente un quadro psicologico e sociale dotato di alto grado di coerenza interna.

La coerenza non è dunque il criterio di base per la conoscenza del Bene e del Male, perché ci può essere una coerenza assoluta nel Vero come nel Falso, nel Bene come nel Male.

Le concezioni della verità come corrispondenza e come coerenza meritano dunque rispetto ed attenzione, ma non sono adatte alla natura della verità filosofica, per il loro carattere prevalentemente gnoseologico, e non logico ed ontologico.

In questa introduzione non è possibile chiarire subito questi termini, ma spero che essi diventino progressivamente comprensibili per il lettore mano a mano che si inoltrerà nella serie dei capitoli del saggio, in particolare a partire dal capitolo secondo, dedicato alla concezione logica ed ontologica della verità di Hegel. Per il momento, è sufficiente che il lettore non si faccia “spaventare” dai due pregiudizi dominanti oggi nei confronti della concezione veritativa della conoscenza filosofica, per cui questa concezione non è “moderna”, ma è arcaica, mitica, medioevale e premoderna, e per cui questa concezione è “pericolosa”, perché può portare all’esclusivismo, all’intolleranza, alla negazione dei diritti di espressione di quelle opinioni che si dichiarano “non vere”.

Bisogna ritornare ancora su questo doppio pregiudizio, perché esso funziona come un vero e proprio “blocco psicologico” ad una serena lettura del mio testo. E gli argomenti teorici non vengono neppure presi in considerazione, se prima non si è “sciolto” almeno in parte il blocco psicologico che ne impedisce l’ascolto.

Partiamo dal primo aspetto, e torniamo al “congedo” di Habermas da ogni teoria della verità. Quelle che Habermas chiama “verità” al plurale e con la “v” minuscola, infatti, non sono altro che opinioni difese con strategie retoriche convincenti. La filosofia per Habermas è dunque un luogo di registrazioni delle differenti opinioni esistenti, che vengono confrontate ed argomentate fino a che non si raggiunga un accordo convenzionale provvisorio.

Dico subito di non essere affatto in disaccordo con questa impostazione, se essa si limita a fondare un “ordine giuridico” in grado di garantire legalmente l’espressione pubblica di opinioni differenti. Questa impostazione di Habermas è il massimo di civiltà giuridica possibile, perché garantisce correttamente l’illimitata pratica pacifica del dialogo. Io l’appoggio incondizionatamente e senza riserve, e se non lo facessi sarei anche uno sciocco, perché finirei con l’appoggiare chiunque volesse rendere questo mio stesso libro illegale e punirmi penalmente o amministrativamente per averlo scritto e pubblicato.

Il fatto è che la questione della verità è una questione filosofica, non una questione giuridica. Non si può ridurre la questione della verità alla questione della tutela giuridica ed amministrativa del diritto ad esprimere pubblicamente le proprie opinioni senza censura e senza paura di essere discriminato, licenziato, incarcerato ed ucciso.

In realtà Habermas vuol dire che siamo ormai in un’epoca post-metafisica, che la questione della verità filosofica appartiene ad un’epoca metafisica indegna della modernità, e che bisogna dunque abbandonarla.

Si tratta di una posizione che vorrebbe presentarsi come novecentesca, ed addirittura tardonovecentesca, ed addirittura conforme al terzo millennio, mentre invece essa è pienamente e dichiaratamente ottocentesca, come vedremo nei capitoli tre, quattro e cinque dedicati a Comte, Marx e Nietzsche.

Bisogna dunque abbandonare la paura di non essere considerati “attuali” e di essere ritenuti “antiquati”. Quando, anzi, il termine “antiquato” verrà vissuto come una caratteristica legittima – come propone correttamente Günther Anders –, saremo sulla strada giusta.

Nel nono capitolo mi soffermerò a lungo sulla teoria della verità in Heidegger, intesa come aletheia, cioè come disvelamento, non-nascondimento. Sebbene questa teoria venga esposta in un linguaggio molto arduo e difficile, si può dire che essa esprima un concetto molto semplice e di facile comprensione, quello per cui nella storia non sempre la conoscenza della verità è a disposizione degli uomini che la vogliono, ma capita che essa si nasconda per secoli e si faccia intravedere solo di tanto in tanto.

La verità allora non è solo un oggetto cui avvicinarsi progressivamente combinando corrispondenza e coerenza, rispecchiamento e costruzione, ma è un peculiare rapporto fra soggetto ed oggetto in cui può capitare che il soggetto perda storicamente ogni interesse nei confronti dell’oggetto stesso. Questo corrisponde anche alla geniale definizione di ateismo proposta da Hegel, per cui l’ateismo non è una negazione di un presunto oggetto da rispecchiare o da costruire razionalmente, ma è una perdita di interesse verso la verità.

Tutto questo libro, del resto, è ispirato ad un voluto parallelismo fra i capitoli due e nove, per cui Hegel ed Heidegger non sono visti come pensatori divergenti, ma come alleati in una comune impostazione corretta verso il tema del carattere veritativo del­la conoscenza filosofica.

Bisogna dunque perdere ogni assurdo timore re­verenziale verso la presunta “attualità”. In filosofia, il venire dopo non significa automaticamente che si abbia anche ragione. Platone può essere meglio di Comte, ed Aristotele di Nietzsche. In particolare, i filosofi di fine Novecento considerati in testa alle classifiche di alto gradimento della comunità autorizzata dei “colti” sono dei veri e propri nani rispetto ai pensatori della tradizione occidentale classica.

Passando al secondo aspetto della questione, ripeto che non bisogna aver paura del fatto che l’ammissione del carattere veritativo della conoscenza filosofica possa essere l’anticamera di una intolleranza politica e di una persecuzione giuridica. Si è detto che la natura della verità filosofica è data dall’unità di ontologia e di assiologia, cioè di essere e di valore, ed ancora di rapporto sociale e di valutazione del Bene e del Male presenti in questo rapporto.

La verità filosofica non è dunque la registrazione di stati quantitativamente accertabili con procedure scientifiche, come ad esempio gli esami delle cartelle mediche. I risultati di una radiografia o di un esame del sangue, infatti, non hanno bisogno di alcun “assenso morale” per essere registrati. La verità filosofica implica per converso la comunicazione dialogica permanente non solo come mezzo, ma soprattutto come fine.

Questa comunicazione dialogica comprende, come è assolutamente ovvio (ma vale la pena dirlo lo stesso), anche chi ritiene che la verità filosofica stessa sia un mito premoderno insostenibile ed inesistente, e che solo l’assoluto relativismo delle opinioni individuali e sociali possa essere l’oggetto di una “analisi linguistica” cortese ed educata quanto irrilevante ed interminabile. Non bisogna confondere infatti l’affermazione della verità filosofica con l’imposizione di un’opinione politica ed ideologica fatta passare per verità vera da tutelare. Il Novecento è stato il secolo delle ideologie, o, per meglio dire, della legittimazione ideologica del potere politico in forma diretta, laddove sembra che stiamo avvicinandoci ad una nuova legittimazione indiretta nella forma di un monoteismo idolatrico del mercato capitalistico eternizzato.

Tornerò su questo punto. Basti qui ricordare ancora che la persecuzione delle opinioni, rendendo impossibile ogni comunicazione dialogica, non è la precondizione di una pratica veritativa della conoscenza filosofica, ma ne è un impedimento mortale.

Questa Introduzione è certo insufficiente per esaurire tutti i temi che ci interessano. Ma prolungarla ancora sarebbe dannoso, e ci porterebbe alla serie dell’«impariamo a nuotare senza bisogno di scendere in acqua». L’acqua in cui bisogna scendere, e lo faremo a partire dal primo capitolo, è quella della storia della filosofia occidentale degli ultimi due secoli.

Costanzo Preve



Ci rivolgiamo a lettori che vogliano imparare qualcosa di nuovo, che dunque vogliano pure pensare da sé (K. Marx). – Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada (Eraclito). – ... se uno ha veramente a cuore la sapienza, non la ricerchi in vani giri, come di chi volesse raccogliere le foglie cadute da una pianta e già disperse dal vento, sperando di rimetterle sul ramo. La sapienza è una pianta che rinasce solo dalla radice, una e molteplice. Chi vuol vederla frondeggiare alla luce discenda nel profondo, là dove opera il dio, segua il germoglio nel suo cammino verticale e avrà del retto desiderio il retto adempimento: dovunque egli sia non gli occorre altro viaggio (M. Guidacci).

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