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Moreno Fabbri
Prefazione
(a seguire l’Introduzione di Simona Polvani)
Erano trascorsi undici lustri dalla sua costituzione, ed era il premio alla drammaturgia di lingua italiana che aveva celebrato il maggior numero di edizioni nel nostro paese, quando Laura Nervi inviò in anonimo il suo Mercoledì delle cene alla Segreteria del “Premio Teatrale Vallecorsi” per concorrere all’assegnazione di uno dei riconoscimenti più ambiti dai drammaturghi del tempo.
Grazie ad una Giuria che annoverava personalità come Luigi Squarzina, Antonio Calenda, Ugo Pagliai, Carlo Maria Pensa, Nando Gazzolo, Franca Nuti, Eva Franchi, della quale fui Segretario per diversi decenni; un cospicuo premio in denaro; una collaborazione con la rivista “Hystrio” (che pubblicava il testo vincitore) e all’impegno degli organizzatori del Premio a promuovere i testi premiati presso le più accreditate Compagnie italiane, gran parte dei maggiori drammaturghi viventi nei decenni passati aveva partecipato al concorso: alcuni avevano ricevuto il prestigioso riconoscimento, e molti dei loro testi avevano debuttato in palcoscenico grazie al qualificato impulso del “Vallecorsi” che talvolta confermava la qualità drammaturgica dei lavori di personalità teatrali già affermate e altre volte “battezzava” e diveniva viatico al successo di giovani drammaturghi ancora poco conosciuti.
Nell’edizione del 2004, Mercoledì delle cene di Laura Nervi, alla sua prima prova con la scrittura drammaturgica, ottenne una segnalazione speciale, risultando fra i prescelti dalla Giuria, in compagnia di Empedocle di Renato Giordano, che ottenne il primo premio dopo averlo già vinto nel 1993 con Labbra serrate (in ex aequo con Un capriccio di Ghigo De Chiara), e La fine di Shavuoth di Stefano Massini; un giovane drammaturgo, quest’ultimo, che negli anni successivi approderà al Piccolo Teatro di Milano e nel 2022 con The Lehmann Trilogy, messo in scena con grandissimo successo negli USA dal regista Sam Mendes, sarà il primo autore italiano a vincere il “Tony Award”.
Un esordio più che promettente quello di Laura Nervi, che con il suo Mercoledì delle cene aveva inscenato uno spaccato crudamente incisivo della situazione di smarrimento e di mancanza di prospettive della gioventù del tempo, della quale l’autrice si sentiva partecipe, seppure con le peculiarità autobiografiche che la distinguevano per l’acuminato senso critico ed una intelligenza fuori dal comune, esaltata dalla sua formazione classica e filosofica, efficacemente lumeggiate dal Prof. Lorenzo Franchini nella sua Testimonianza su Laura pubblicata in calce a questo volume.
Sarebbe interessante affrontare una lettura puntuale del testo per rintracciare i nessi, le ascendenze, le derivazioni mutuate dal ricco ed articolato pantheon di figure della storia letteraria e filosofica frequentata con singolare acutezza percettiva da Laura Nervi e documentata nei suoi scritti saggistici e narrativi, ma una tale lettura sarebbe incongrua al breve respiro di una nota introduttiva come questa, che parimenti ci induce a non addentrarci in un’analisi testuale volta ad evidenziare le capacità dell’autrice nel tratteggiare con la sua peculiare scrittura teatrale il profilo dei diversi personaggi, oppure di esplicare le motivazioni profonde che sottostanno ai loro specifici e reciproci comportamenti. Tale tentativo sarà invece perseguito dagli scritti di Simona Polvani, in introduzione e Federica Iacobelli in postfazione. Si offrono invece alcune citazioni testuali che rivelano con immediatezza l’atmosfera drammaticamente attuale che a distanza di un ventennio si respira nel testo di Laura Nervi, il quale mantiene ed esplicita efficacemente tutta la sua carica di reattività, incarnata in un gruppo di coetanei che agiscono in una città della provincia toscana della quale nelle espressioni dei personaggi sono conservati alcuni termini vernacolari: una città in cui la protagonista della pièce, Alessia, si sente una creatura “viva” fra i “morti”, ed in una battuta del primo atto afferma: «Siamo tutti scaraventati sulla terra con un passaporto gratuito per l’allucinazione. Qui mi sto scavando la fossa ad ascoltare le voci dei morti». E Giacomo uno dei giovani del gruppo, tutti più o meno impegnati a concludere gli studi universitari, a prendersi una seconda laurea o a cercarsi un lavoro anche precario e occasionale in un contesto avaro di prospettive più avanti afferma a complemento: «Un giorno sarò povero e sarò vecchio, in mezzo ad altri vecchi poveri come me, con la televisione che invade le coscienze». A fronte di un orizzonte tanto desolante, niente sembra dare senso alle azioni dei giovani del gruppo, e Alessia, bella, attraente e desiderabile sentenzia: «Io non ho amici o quasi», e alla proposta di suo fratello Davide di farla incontrare con Michele (il “bello” del gruppo che vuole conoscerla) risponde svogliatamente, parafrasando Oscar Wilde: «Non ho voglia di conoscere chi fa parte del club delle persone che vogliono conoscere me». Da parte sua Michele, che tanto successo ha con le donne e che è incline ad accontentarne anche più di una alla volta, si spinge ad affermare: «Perché è vero. Scopa, scopa, e poi, dopo, mi sento più solo di prima», aggiungendo però in un’altra battuta: «Io sono innamorato. Non cerco altro, perché sono innamorato. Sono felice e la felicità è questo: la vita che basta a se stessa, non devo darmi un senso. Sono io che do senso a tutto il resto».
In un contesto amicale e sociale di giovani privi di stabili punti di riferimento seppure nutriti dalla migliore formazione scolastica, e supportati da condizioni familiari economicamente non critiche emerge una profonda difficoltà esistenziale e relazionale in ciascuno dei personaggi che danno vita alla vicenda con una sorta di cinismo e scetticismo autodistruttivi, che nullificano e mettono in scacco tutti coloro che cercano uno scopo vitale in cui credere, perché «crederci è l’essenza della felicità».
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Simona Polvani
Introduzione
Sul concetto di amore nel Mercoledì delle cene
«La calma è la virtù dei morti», citazione dal poeta Piero Buscioni è l’esergo che Laura Nervi ha scelto per introdurre il suo testo teatrale Mercoledì delle cene a cui questa pubblicazione è dedicata. Segnalato al ”Premio Teatrale Vallecorsi” 2004, è il primo e unico testo teatrale, di cui si ha notizia, scritto da Laura Nervi, coltissima autrice pistoiese che, morta suicida nel 2018 all’età di quarantasette anni, ha lasciato un corpus di testi letterari inediti composto prevalentemente da racconti, poesie e saggi.
Il riferimento alla morte presente nel verso di Buscioni, con il tono di una constatazione insieme realistica e sarcastica, ci sembra anche il rimosso del titolo della pièce della Nervi. Esso richiama infatti direttamente il Mercoledì delle Ceneri, ossia quel giorno che nella tradizione religiosa cristiana segue il tripudio festivo del Martedì Grasso, con cui il Carnevale si conclude, per instaurare il periodo di penitenza della Quaresima in vista della Pasqua. La sostituzione del termine “ceneri” con ”cene” pare ribaltare in modo parodistico e dissacrante la prospettiva dal sacro al profano, passando dal riferimento alla pratica del digiuno, che connota tale ricorrenza cristiana, a quella del nutrirsi, come se in realtà fossimo di fronte a un prolungamento del periodo della festa più che alla sua negazione. Ma questa prospettiva, come vedremo, in realtà sarà solo illusoria: le cene saranno un pasto amaro.
Che cosa siano le cene a cui allude il titolo lo scopriamo nella prima scena quando Alessia Pari, la protagonista di una pièce che con i suoi diciassette personaggi ha una spiccata dimensione corale, è invitata dal fratello Davide Pari ad abbandonare l’eremo dell’appartamento in cui, da «appartenente alle schiere dei folli»1 e studentessa universitaria tardiva, conduce una vita da misantropo animale notturno, e partecipare così a una delle cene che ogni mercoledì il suo gruppo di amici organizza. I protagonisti della pièce sono tutti giovani tra i venti e trent’anni, della generazione nata tra gli anni Settanta e Ottanta, che vivono in una città della provincia italiana non meglio specificata. Tale collocazione tutto sommato geograficamente generica, viene tuttavia tradita dalla lingua usata dai personaggi, in cui ricorrono espressioni del vernacolo toscano e più precisamente pistoiese. Al di là delle intenzioni dell’autrice, tale elemento potrebbe indurre, quindi, a risituare l’ambientazione proprio in una città della Toscana. La genericità dell’indicazione del luogo è quindi più da intendere, come vedremo, rispetto alle vicende narrate, che, effettivamente, esulano da connotazioni regionalistiche. Per quanto riguarda l’ambientazione temporale, dal riferimento all’uso dei primi cellulari e a brani musicali, possiamo evincere che essa si svolga in un periodo contestuale a quello in cui è stata scritta2.
La scelta delle cene come filo conduttore assistiamo a due di esse, nel primo atto, a casa di Cristiano Raschetti e nel secondo atto, a casa di Ermanno Calici , situazione drammatica molto efficace, può essere interpretata, a mio avviso, almeno da una doppia prospettiva: drammaturgica e filosofico-morale.
Dal punto di vista drammaturgico, la modalità con cui l’autrice struttura il rituale della cena di gruppo, da un lato permette di riunire in una scena vari personaggi attorno a un evento di svago per antonomasia, in cui tramite l’adozione di uno stile dialogico si alternano momenti seri e leggeri, zone di concentrazione o di fluidificazione della parola; dall’altro, essa consente la manifestazione di una molteplicità di argomenti e punti di vista, talvolta concordanti talaltra in frizione, i quali, durante la conversazione, non necessitano di essere totalmente esplicitati per rivelare le loro problematicità. In un botta e risposta ritmato, dominato da una verve che va dal comico al sarcastico passando per l’ironico, grazie a poche battute sono in grado di emergere tanto le vicissitudini individuali, il contesto socioculturale e politico che i vari personaggi si trovano ad affrontare quanto i tratti salienti dei loro rispettivi temperamenti con gli stati emotivi del momento.
Si delinea in tal modo una costellazione di personaggi ben tratteggiati, come uno spaccato a suo modo rappresentativo di quella generazione dei nati negli anni Settanta che alla fine del Novecento si è trovata alle prese con una società post-comunista erano poco più che adolescenti quando nel 1989 cadde il Muro di Berlino , in cui il neoliberalismo inizia ad ergersi a sistema, con la globalizzazione e la delocalizzazione delle imprese verso paesi “più competitivi”, che hanno avuto come effetto l’impoverimento del mercato del lavoro locale. Laura Nervi rappresenta questo giovane mondo in crisi, assortendo il gruppo di amici di tipi socialmente integrati nel nuovo ordine socio-economico, rappresentati dalla bancaria Martina e da Cristiano, con il suo solido posto di lavoro fisso da una parte; e di personaggi che invece ne sono esclusi, i laureati disoccupati tipico fenomeno di quegli anni come Giorgio, con la sola prospettiva davanti a sé di una sfilza di lavori precari, tra cui troneggia il customer service, per i quali la laurea non sarebbe nemmeno servita e che guardano allora alla possibilità di prendere una seconda laurea, come un ripiego-impiego di fronte all’impossibilità di accedere al mondo del lavoro. Nel mezzo, tra questi due poli opposti, se ne situano altri, come il carpentiere Michele Conseri, che sogna di mollare tutto e trasferirsi a New York, in cerca di un american dream non meglio definito, per poi però accontentarsi di andare a vivere con la fidanzata, a casa della madre di lei, ad Orvieto, in definitiva in un’altra piccola città di provincia.
Non è solo lo scambio verbale la modalità per far avanzare il dialogo ed esporre i vari nuclei tematici. In particolare, nella cena del primo atto (e seppur in maniera minore anche in altre scene), l’autrice affida l’espressione dei vari punti di vista a una compilation di brani musicali, eseguiti, chitarra alla mano, dal personaggio di Giacomo Migliori, snob poeta cantautore, con il concorso anche nel senso di un vero e proprio contest degli amici.
Tanto per citarne alcuni, troviamo brani celebri tratti dalla discografia di Fabrizio de André (La città vecchia, 1965), dei Rolling Stone (Street fighting man, 1968), dei Beatles (I am the Walrus, 1967), di David Bowie (An occasional dream, 1969), Rino Gaetano (Mio fratello è figlio unico, 1976), John Lennon (Woman, 1980). Si tratta per lo più di canzoni uscite tra la metà degli anni Sessanta e i primi anni Ottanta, rappresentative di un periodo storico in fermento dal punto sociopolitico e culturale, e portatrici di messaggi politici più e meno espliciti. In Street fighting man è presente un riferimento diretto al “Maggio francese” del 1968, mentre Mio fratello è figlio unico ha al centro la lotta di classe contro il capitalismo e l’ingiustizia sociale. Questa trovata drammaturgica, se da un lato conferisce alla pièce una spiccata dimensione musicale, valorizzando la performance diegetica canora creata live sulla scena, ribadisce tuttavia per la scelta dei brani il tempo vuoto, passivo, anche musicalmente, del presente, rappresentato unico brano recente dal vituperato Ma che fantastica storia è la vita (2003) di Antonello Venditti. Con questa colonna sonora della generazione dei loro padri e madri, alcuni membri del gruppo contestano implicitamente la realtà desolante a cui fanno fronte, di una Italia ridotta a «una plutocrazia dittatoriale televisivamente parlando fondata sulla manipolazione dei fatti»3, riferimento diretto al fenomeno della televisione commerciale quale strumento di esercizio del potere nell’era berlusconiana. Merita qui citare un altro aforisma di Buscioni: «L’Italia è una repubblica fondata sul calcio e sui giochi a premi». Esso fa infatti eco alle problematiche sollevate nel testo, completando e permettendo di mettere in prospettiva il senso dell’’aforisma «La calma è la virtù dei morti», che l’autrice ha scelto come esergo4. Di fronte alla realtà spaventosa di cui sono succubi, e su cui non sembrano aver presa, i personaggi disorientati e impotenti del Mercoledì delle cene si aggrappano così, come naufraghi alla deriva su una zattera a pezzi, a un passato nostalgico, ideologicamente impegnato, che non solo però non hanno vissuto, ma del quale non possono interpretare lo spirito se non attraverso delle canzonette. La ricerca dello scopo della vita, se non del senso, che pur essi si pongono, in tale scenario rimane elusa.
Venendo invece a quella che ho definito una prospettiva filosofico-morale, la scelta da parte della Nervi, di formazione filosofa, del motivo della cena come struttura drammaturgica portante della pièce, per quanto l’ipotesi possa sembrare ardita, può essere rintracciata, a mio avviso, in un riferimento implicito al Simposio di Platone. In quello che è il più famoso dei dialoghi platonici, nella cornice di una cena a casa del poeta tragico Agatone, vari commensali, tra cui Fedro, il medico Erissimaco, il commediografo Aristofane e Socrate, concorrono in un agone oratorio al fine di tessere l’elogio di Amore, ciò che li porta a proporne delle definizioni e ad esporre ciascuno la propria teoria. Se, come enunciato sopra, vari sono gli argomenti che Mercoledì delle cene affronta, in realtà si può identificarne il topos principale nel tema dell’amore. Esso muove le vicende dei vari personaggi e disegna all’interno della pièce una rete di incontri. La ragione stessa per cui Davide invita Alessia alla prima cena è il fatto di volerle presentare l’amico Michele Conseri, il tipico collezionatore seriale di donne, che a detta di Davide vorrebbe conoscerla. Questo almeno è ciò che egli afferma all’inizio, per poi chiarire che in realtà favorire l’incontro di sua sorella con Michele, se i due si piacessero, gli permetterebbe di avere maggiori chance di conquistare Martina, la ragazza che egli sta corteggiando, ma che pare non essere immune al fascino di Michele. Di Michele e Alessia seguiamo i primi approcci, e nel seguito della pièce apprendiamo, che da una certa attrazione iniziale non è però germogliato alcun sentimento effettivo, per quanto Alessia, per cui lo spasimante è «Uno che è innamorato sempre perché innamorato mai»5, non nasconda una certa delusione. La coppia felice di Rita e Cristiano scoppierà alla fine. L’illusione di amore di Davide per Martina, lacerato da «[un’] attrazione-catapulta [che] lo ha scaraventato fuori da [se] stesso»6, rischiando di annientarlo, sarà anche all’origine della frattura con il gruppo di amici, come vedremo più avanti. Le stesse cene sono a tutti gli effetti occasioni attese in cui si introducono ragazze e ragazzi nuovi, nel miraggio di avere almeno un’avventura, se non di trovare l’anima gemella.
Nel Simposio, gli interlocutori propongono ipotesi sulla genealogia, la natura, la finalità di Amore, trattando tanto dell’amore sensuale che di quello spirituale, fino a quando interviene Socrate che riferendo del suo dialogo con la veggente Diotima, che lo avrebbe edotto proprio sulla natura di Amore, offre ai suoi commensali una definizione di ordine morale. «[L]’amore è possesso perenne del bene»7, sostiene Diotima e Socrate con lei. Il possesso perenne del bene implica l’operare bene, nel senso di creare armonia. Possedere il bene, secondo i due sapienti, è anche la condizione per l’essere umano di essere felice. Se l’amore sensuale è certamente al centro del Mercoledì delle cene, a mio avviso, il concetto di operare bene e possedere il bene come forma di amore rappresenta il motore della vicenda e fornisce una chiave di lettura per il modo in cui si conclude il testo teatrale. Il personaggio di Ermanno Calici, in questa ottica, incarna l’assenza di amore, perché egli non può fare a meno di dire male e di mal agire nei confronti di tutti i membri del suo gruppo di amici. Non è un caso che alla seconda cena del mercoledì, che si svolge a casa di Ermanno in montagna, la maggior parte degli amici del gruppo non sia presente. Quella cena è lo scenario di uno scontro, che iniziato tra Ermanno e Davide, con al centro l’innamoramento non corrisposto di Davide per Martina, coinvolge poi anche gli altri presenti. Ciò che Ermanno offre da cena, una carbonara di mare, che risulterà avariata, facendo stare male i commensali, diventa allora la metafora della sua condotta tossica e immorale: invece di nutrire l’amicizia, il suo cattivo operare, la mina e la distrugge.
Il fatto che il comportamento morale come espressione di amore sia al centro della vicenda, mi sembra possa trovare conferma nella scena di apertura del terzo atto, in cui assistiamo a un incontro casuale tra Alessia ed Ermanno che si rivela una vera e propria resa dei conti. La protervia maldicente di Ermanno è insopportabile per Alessia, che gli oppone indifferenza. Di fonte all’insistenza dell’uomo per ricevere l’attenzione che lei gli nega, la ragazza prima lo canzona, invitandolo parodisticamente ad andarsene, poi sputa qualcosa nella sua direzione, scatenando un rapido alterco verbale e fisico da cui Ermanno esce sconfitto. Con un effetto satirico, Alessia, rivolgendosi direttamente al pubblico sentenzia: «Signori e signore, medamsemesiè, cittadini assonnati e donne al mercato, venite venite! Accorrete al circo del gentilom sul sagrato, lo spacca spaccone che tanto sbraitò per finire carponi sul lercio selciato. Ohi gente venite!»8. Il comportamento di Ermanno viene così sanzionato, ma la punizione che gli viene inflitta non si riduce a un fatto privato tra i due personaggi. Aprendo la quarta parete della rappresentazione e convocando l’assemblea del pubblico, Alessia sancisce una punizione che si fa spettacolare, pubblica, e per questo esemplare. Il personaggio di Alessia diventa in un certo qual modo eroico e come la dea Temi “fa giustizia”, riaffermando in tal modo il senso dell’amore come precetto morale.
Ho frequentato Laura Nervi per un breve lasso di tempo delle nostre vite, siamo state compagne di classe e anche di banco al liceo classico Niccolò Forteguerri a Pistoia (1985-1990). Da allora l’ho incontrata solo un’altra volta, casualmente nell’atrio dell’ospedale San Jacopo a Pistoia a fine agosto del 2015, dove Laura era ricoverata nel reparto psichiatrico. Il suo bipolarismo si era manifestato in modo feroce durante gli ultimi due anni del liceo e da allora aveva dovuto convivere con la malattia. Fu lei a riconoscermi e a venirmi incontro, con un fare timido e affettuoso. Io ero ricoverata per un’operazione da fare d’urgenza e la conversazione fu breve. Teneva tra le mani, arrotolato, un quaderno a cui era fissata una penna e appresi così che continuava a coltivare la scrittura, che era sempre stata la sua passione anche durante gli anni del liceo. Quando poi, nel 2021 seppi da Lorenzo Franchini, che Laura si era suicidata tre anni prima, nel 2018, fu il ricordo di quel fugace scambio e di quel quadernetto stropicciato che portò me e Lorenzo a metterci sulle tracce dei suoi scritti. Grazie all’aiuto della famiglia di Laura, in particolare del padre Franco, del fratello Andrea e del cugino Giacomo, e all’intervento di nostri comuni compagni del liceo e di altre persone che avevano incrociato ad un certo punto la sua vita, entrammo in possesso delle opere di Laura che erano rimaste inedite. Dalla lettura dei vari testi, racconti, poesie, prose diaristiche, saggi, post su Facebook è emersa una produzione di indubbio valore, di cui, una delle cifre essenziali, mi è sembrata la presenza di una matrice autobiografica. Molti eventi della vita reale di Laura sono al centro dei suoi lavori, riscritti attraverso dei meccanismi di autofinzione.
Per tale caratteristica della sua produzione letteraria, si può ricondurre senza dubbio il suo atto creativo al genere delle “scritture del sé”, come processo che attinge al vissuto dell’autrice traendone temi e dinamiche per la creazione letteraria, in una continua operazione di riscrittura e messa in scena di sé, nella quale gli elementi del reale e la loro ricomposizione fittizia si mescolano e fondono. Non si tratta di una mera scrittura autobiografica, dal momento che il sé, l’io reale, pur offrendo secondo modalità varie la materia prima per la creazione artistica, è comunque sottoposto ad un processo di funzionalizzazione, che conduce alla creazione di un oggetto estetico frutto dell’ibridazione tra reale e immaginario. Se nel caso dei racconti scritti da Laura Nervi, ancora inediti, tale pratica è risultata evidente, e non solo perché in alcuni casi essi assumono la forma del diario, quanto per la presenza di elementi fattuali al centro della narrazione risultati vicende realmente accadute nella vita di Laura, lo stesso, almeno in parte, può affermarsi per Mercoledì delle cene. Il motivo delle cene si ispira infatti proprio alle cene, che suo fratello Andrea ha effettivamente organizzato per un certo tempo il mercoledì, assieme al suo gruppo di amici, e a cui Laura sarebbe stata introdotta. Ci sono state quindi delle cene del mercoledì in un certo periodo della vita di Laura. I personaggi che popolano il testo teatrale corrispondono a persone reali? Se non possiamo saperlo per tutti i personaggi, basandomi, da una parte, sulla mia conoscenza diretta di Laura, dall’altra su altri elementi noti della sua biografia, che abbiamo ricostruito grazie anche a testimonianze, è possibile sostenere che il personaggio di Alessia Pari sia calcato su di lei. Se ne ritrovano l’indole, aspetti della sua personalità acuta e anticonformista, pervasa da un’ironia tagliente che dà alla pièce il suo tono di agguerrita comicità e tragicomicità, la sua violenza controllata ma pronta a scattare, la sua patologia psichica, a cui allude più volte quando nel testo teatrale Alessia Pari si definisce folle. Sono reali anche il forte legame a tratti protettivo con il fratello minore Andrea, anch’egli tragicamente scomparso quest’anno, che nel testo si riconosceva rappresentato nel personaggio di Davide Pari. Ed era reale il suo disprezzo per la volgarità della maldicenza, quel dire male che si traduce nel fare del male, che le è sempre stato inviso e contro il quale si è sempre ribellata pronta a difendere chi era ingiustamente infamato e che ispira, come abbiamo visto sopra, le scene tra Alessia ed Ermanno. A lui, che incarna quel maldire e in definitiva l’assenza di amore, da Laura Nervi, attraverso l’alter ego drammatico Alessia Pari, è riservata in modo impietoso la sorte peggiore di tutti gli amici, quando alla fine della pièce, lo scopriamo cinquantenne menomato da un ictus, come se in fondo fosse la vita stessa a vendicarsi della cattiveria.
Nella scena finale del Mercoledì delle cene, ritroviamo i fratelli Pari nell’appartamento di Alessia. È trascorso un anno da quando, all’inizio della pièce, Davide aveva invitato la sorella a una delle cene del mercoledì. La sua ossessione per Martina, nel frattempo, lo ha portato a un esaurimento nervoso, da cui fatica a riprendersi, ed è attraversato da istinti suicidi. Non ha più contatti con il gruppo di amici del mercoledì, ma è divorato dalla curiosità di sapere che cosa essi siano diventati. Con un coup de théâtre, Alessia, dotata improvvisamente di poteri da maga veggente, decide di mostrarglieli. Alcuni dei protagonisti delle cene si manifestano allora lentamente sul palco e apparecchiano il rituale esangue della cena. Apparizioni dal volto imbiancato, sono presenze incolori, incagliate in un tempo ibrido in cui presente e futuro coesistono. Le due realtà, quella di Alessia e Davide e quella di immaginaria predizione, interferiscono, in una porosità che nell’arco della scena propone infine una realtà parallela. Si tratta dell’unico momento in cui viene meno l’estetica realista che connota il Mercoledì delle cene. L’effetto di realtà che si era prodotto nella scena del litigio con Ermanno, grazie all’invito rivolto al pubblico, e che con lo squarcio della quarta parete, aveva dato vita a una commistione tra la finzione della rappresentazione e la realtà della sala teatrale, trova qui il suo contrapposto. La visione a cui assistiamo è come se scavasse una voragine nel fondo scena, annullando d’un tratto la rappresentazione naturalistica per convocare sul palco una dimensione soprannaturale, in un gioco di potenziamento della finzione teatrale. Questi personaggi, che agiscono come se fossero figurine proiettate ricordando le ombre del mito della caverna di Platone non sono che fantasmi, prigionieri al contempo di se stessi e della società contemporanea, destinati a muoversi in una vita-limbo quella sì reale in cui pare proprio che la cosa più ardua sia rimanere vivi da vivi.
1 Laura Nervi, Mercoledì delle cene, infra, p. 166.
2 La citazione della canzone Ma che fantastica storia è la vita di Antonello Venditti, uscita nel 2003, permette di situare temporalmente le vicende al centro del Mercoledì delle cene tra il 2003 e 2004, anno, quest’ultimo in cui il testo è stato terminato e presentato in concorso al Premio Vallecorsi.
3 Vedi infra, p. 57.
4 I due aforismi citati di Piero Buscioni sono stati pubblicati in opere dell’autore e su numerosi siti web, da soli o uno accanto all’altro. Cfr: Piero Buscioni, Aforismi per la fine del mondo, Edizioni Joker, Novi Ligure 2018, pp. 11 e 23; Paola Lazzarini, “Aforismi Aforismi”, Persona & Danno, 24 ottobre 2008, https://www.personaedanno.it/articolo/aforismi-aforismi-a-cura-di-paola-lazzarini, consultato il 15 novembre 2024.
5 Vedi infra, p. 40.
6 Vedi infra, p. 37.
7 Platone, Simposio, trad. italiana di Nino Marziano, Garzanti, Milano (2001) 2010, Ebook.
8 Vedi infra, p. 147.
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