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Cat.n. 501

Costanzo Preve

La passione durevole. Oltre la nostra particolarità, per un nuovo inizio.

ISBN 978-88-7588-399-7, 2025, pp. 240, formato 140x210 mm., Euro 20 – Collana “Divergenze” [91].

In copertina: Mark Rothko, Untitled (Shades of Red), 1961.

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Nei giovani la frequente dedizione entusiastica ad una «causa» può terminare al medesimo modo o nella fedeltà (lucida o ottusa) ad essa, o nel passaggio a un diverso campo, oppure ancora nella perdita della capacità di dedizione in genere […] I movimenti giovanili così frequenti nell’ultimo mezzo secolo lo mostrano con la massima evidenza, e tanto più quanto più danno valore centrale alla giovinezza stessa. […] Occorre esaminare se e fino a quale punto una dedizione è in grado di indurre l’individuo a innalzarsi sopra la propria particolarità, oltre che dar luogo ad una passione durevole.

György Lukács

Dobbiamo convincerci che oggi non possiamo, quanto al risveglio del fattore soggettivo, rinnovare e continuare gli anni Venti, ma dobbiamo ricominciare da un nuovo punto di partenza utilizzando tutte le esperienze che sono patrimonio del movimento operaio così come si è sviluppato fino ad ora e del marxismo. Dobbiamo renderci chiaramente conto che abbiamo a che fare con un nuovo inizio o, per usare un’analogia, che noi ora non siamo negli anni Venti del secolo ventesimo, ma in un certo senso, all’inizio del secolo diciannovesimo, quando, dopo la rivoluzione francese, si incominciava a formare lentamente il movimento operaio. Credo che questa idea sia molto importante per il teorico, perché ci si dispera assai presto quando l’enunciazione di certe verità produce solo un’eco molto limitata.

György Lukács

A cavallo fra gli anni Ottanta e gli anni Novanta del Novecento i marxisti ed i comunisti italiani si trovano in una situazione molto delicata, in bilico fra rottura e continuità con la propria storia. È infatti assai difficile conciliare nei fatti, e non solo nelle parole, la necessità di un’ autonomia dei luoghi e dei tempi della ricerca marxista, da un lato, e l’inevitabilità della ricaduta pratica dell’espressività politica di questa stessa ricerca teorica, dall’altro lato. Per i marxisti, d’altra parte, la ricerca teorica è sempre stata strutturalmente collegata con la pratica politica.

Questo collegamento, tuttavia, non deve essere “soffocante”. La costituente teorica dei marxisti non è la stessa cosa della costituente politica dei comunisti. Non è ovviamente possibile prefigurare astrattamente a priori un “prima” e un “dopo”, ma è certo che la distinzione fra momento teorico e momento pratico deve essere mantenuta. Il loro essere di volta in volta “una cosa sola” è infatti l’esito, il risultato finale di un complesso processo dialettico, e non è invece mai una postulazione aprioristicamente astratta. La realtà è che oggi sostanzialmente i marxisti non dispongono di una sicura rappresentazione scientificamente convincente dell’ attuale fase del capitalismo, e non possono pertanto supplire a questa assenza con un insieme di riflessioni di tipo sostanzialmente sovrastrutturale.

Questo libro nasce sulla base di questa precisa consapevolezza. Lo scrivente non ritiene di poter disporre, e di poter pertanto presentare e proporre una teoria scientificamente adeguata dell’attuale fase del capitalismo, e riterrebbe poco serio supplire a questa assenza con un affrettato collage di riflessioni tratte dalla lettura dei numerosi saggi marxisti sull’economia capitalistica che ogni studioso ha necessaria­mente nella propria biblioteca.

Occorre anzi ristabilire quell’elemento fondamentale dell’etica professionale del marxista onesto che consiste nel non fingere di sapere quel che in realtà non si sa affatto.

Ho pertanto scritto un libro di discussione e di transizione, ricco di suggerimenti metodologici e di bilanci teorici e storiografici, necessariamente meditato e forse profondo su alcuni temi e superficiale su altri, un libro la cui ambizione è di essere un «repertorio tematico» per un dibattito ancora largamente da svolgere.

Il titolo del libro fa riferimento ad una nozione elaborata da Lukács dopo il 1956, quella dell’anticapitalismo come «passione durevole», in grado cioè di resistere alla perversa dialettica fra estremismo e riflusso che caratterizza troppo spesso l’adesione al comunismo nel Novecento.

In forma popolare, la difficoltà di mantenere nel corso della vita l’anticapitalismo come «passione durevole» è espressa dal detto scettico e disincantato della saggezza del vecchio borghese reso ormai cinico dalle esperienze della vita, secondo cui chi non è comunista a vent’anni è uno sciocco, ma chi lo è ancora a quaranta è ancora più sciocco.

In forma filosoficamente più sofisticata ed elaborata Jean-Paul Sartre ha analizzato le vicende del «gruppo in fusione» rivoluzionario che si costituisce nel corso di una oscillazione fra l’utopia della fraternità e la realtà del terrore verso i nemici e verso se stesso, e che necessariamente rifluisce nella cosiddetta “serialità” di un mondo amministrato e burocratizzato.

La trasformazione dell’anticapitalismo da esaltazione momentanea a passione durevole nella vita concreta di un individuo è nel Novecento una questione storica di massa.

Il problema dell’anticapitalismo come passione durevole infatti riveste un’importanza storica e filosofica epocale in quanto non si tratta affatto di una vicenda biografica di singoli individui in qualche modo “coerenti”, ma di una modalità strutturale della vita sociale e quotidiana di questo secolo.

In proposito, è sbagliato dire che il mantenimento dell’anticapitalismo come passione durevole è una questione che concerne soltanto l’intellettuale di provenienza borghese o piccolo-borghese, che può essere facilmente “comprato” o “integrato” nel capitalismo con denaro, prestigio, carriera o lusinghe, mentre non riguarda in alcun modo l’operaio, il tecnico o l’impiegato, che sperimenterebbero quotidianamente sulla loro pelle lo sfruttamento capitalistico, e non potrebbero pertanto essere comprati o integrati in alcun modo.

Il grande filosofo marxista francese Louis Althusser ha scritto che l’operaio di fabbrica si trova nella situazione di poter facilmente comprendere la teoria marxiana del plusvalore e dello sfruttamento, perché la vive sulla propria pelle, mentre l’intellettuale accademico può soltanto arrivarci con faticosissimi passaggi teorici e filosofici.

La tesi di Althusser è sostanzialmente corretta, in quanto è certo che la nozione di “furto di tempo” resta formale ed astratta per coloro cui è estranea la vita di fabbrica, mentre corrisponde ad una esperienza concreta e quotidiana dell’operaio. È però giusto rilevare ancora una volta che non bisogna caricare sulle spalle dell’operaio, che ha già tanti fardelli da portare, anche la “missione” di emancipare con se stesso l’intera umanità.

L’anticapitalismo come passione durevole è dunque una dimensione politica ed esistenziale che tocca l’operaio come l’impiegato, l’intellettuale come il tecnico delle nuove professionalità.

Come acutamente rilevò Lukács nel 1965, «la trasformazione del capitalismo in un sistema dominato dal plusvalore relativo crea una situazione nuova in cui il movimento operaio, il movimento rivoluzionario, è condannato a un nuovo inizio durante il quale rinascono in forme molto caricaturali e comiche certe ideologie in apparenza sorpassate da molto tempo, come il luddismo della fine del Settecento».

In una situazione di dominanza, o quanto meno di massiccia presenza dell’estorsione di plusvalore assoluto, lo sfruttamento assumerebbe un aspetto trasparente, facilmente decifrabile, laddove in una situazione di generalizzazione dell’estorsione del plusvalore relativo la manipolazione investe tutte le dimensioni della vita quotidiana, ed il ruolo della presa di coscienza (e di conseguenza della presa di coscienza anticapitalistica come passione durevole) assume un ruolo particolarmente

importante, ed anzi decisivo.

L’analogia con il luddismo di fine Settecento permette di capire come certi aspetti ingenuamente “luddistici” dell’ideologia e della pratica dei movimenti del Sessantotto sono stati assolutamente fisiologici, e non devono assolutamente essere presi a pretesto per un’ennesima inutile condanna dell’instabilità e dell’inconseguenza della piccola borghesia studentesca e giovanile. Il marxismo deve anzi tenersi lontano da ogni atteggiamento moralistico e recriminatorio a proposito delle “oscillazioni” dei ceti medi. I ceti medi sono oscillanti così come la torre di Pisa è pendente. Questa ingenua constatazione non ci fa fare un solo passo avanti di carattere scientifico. In proposito, occorre respingere anche la tesi che interpreta in termini di “pentimento” il passaggio di molti leaders studenteschi radicali del Sessantotto all’apparato di potere e di manipolazione dei partiti capitalistici negli anni Ottanta.

Il “pentimento” è reale, ma è solo l’aspetto superficiale, psicologico, esistenziale (e pertanto sostanzialmente poco interessante) di un processo sociale di massa di cui occorre trovare la chiave scientifica e strutturale.

Il movimento operaio, come dice Lukács, è condannato ad un nuovo inizio. In questa espressione è contenuto sostanzialmente tutto il nostro problema attuale.

L’anticapitalismo come passione durevole non può essere mantenuto e sviluppato sulla base ristretta, psicologistica, dell’indignazione morale contro l’ingiustizia del capitalismo, e tantomeno dell’insegnamento formalistico di vecchie forme codificate di marxismo o di leninismo.

L’anticapitalismo come passione durevole deve potersi sviluppare sulla base robusta e strutturale di nuove forme di democrazia reale, e pertanto anche sulla base di nuove forme organizzative del movimento comunista.

Queste nuove forme organizzative non sono ancora visibili con la necessaria chiarezza. Da un lato, la crisi del “socialismo reale” e la sostanziale tenuta economica ed ideologica del “capitalismo reale” ci condannano a prendere in esame il tema della discontinuità e del «nuovo inizio», lo vogliamo o no. Dall’altro, è assolutamente chiaro che la tattica non deve essere messa davanti alla strategia, e che una nuova forma organizzativa dei comunisti può essere discussa solo contestualmente ad un nuovo livello della teoria marxista. È questa un’evidente ovvietà, che però come tutte le ovvietà chiede di essere presa radicalmente in considerazione, in forma ovviamente dialettica e processuale, e non rigida ed antinomica.

La questione non è affatto risolvibile in ciò che si definisce in linguaggio popolare “un serpente che si morde la coda”. Da un lato, non ci può essere nessuna forma organizzativa (la “casa comune dei comunisti”, il “partito di classe”, ecc.) prima della costituzione di una teoria adeguata alla fase. Dall’altro lato, non si può aspettare che la teoria venga compiutamente elaborata prima di “partire” con l’organizzazione politica, pena il non partire mai ed il rimando alle calende greche.

È evidente che livelli qualitativamente nuovi della teoria e della pratica si svilupperanno insieme e contestualmente ad un mutuo interscambio continuo. Un libro, ed in particolare un libro modesto come questo, non può in alcun modo indicare la via. Un libro può soltanto presentare in forma “aperta” un ventaglio di ipotesi e di tesi per la discussione. Senza una discussione, un libro come questo lascia il tempo che trova.

Lo scrivente ha scelto di dividere il libro in cinque parti relativamente indipendenti, in modo che la possibile fragilità di una di esse non impedisca la presa in esame di una delle altre.

Nel primo capitolo si evidenziano alcune caratteristiche del moderno capitalismo e dell’attuale cultura borghese, che segnalano l’emergere di determinazioni politiche e sociali nuove, delle quali occorre essere assolutamente consapevoli per contestualizzare ad essa la critica marxista. Nel secondo capitolo si tenta un abbozzo di bilancio storico ed ideologico del marxismo, senza ovviamente alcuna pretesa di completezza.

Gli ultimi tre capitoli sono invece basati sulla contestualizzazione di ipotesi di sviluppo della teoria marxista ad ipotesi politiche di tipo storico in un panorama volutamente limitato all’Italia (anche se in tutti e tre i casi la dimensione europea è stata tenuta presente: le tre ipotesi “italiane” sono anche a tutti gli effetti tre ipotesi “europee”).

Nel terzo capitolo si prende in esame la cosiddetta costituente arcobaleno interclassista, ecologista, femminista e pacifista, senza ovviamente perdere tempo con le miserie del ceto politico rampante che se ne fa chiassoso interprete, ma assumendo fino in fondo la legittimità dell’ipotesi strategica che vi sta a fondamento, quella dello “scioglimento” e della “ibridazione” di un punto di vista autonomo marxista e comunista in un più ampio contesto “verde”.

Nel quarto capitolo si prenda invece in esame il cosiddetto nuovo corso inaugurato dal PCI nel suo diciottesimo congresso tenuto a Roma nel marzo 1989, senza preoccuparsi eccessivamente di “definirlo” astrattamente (socialdemocratico, liberaldemocratico, riformista, radicale di massa, ecc.), ma assumendo fino in fondo l’ipotesi strategica della possibilità di mantenimento di un’identità marxista e comunista indipendente attraverso un “uso” giovanile, operaio e popolare di questo grande apparato politico-amministrativo che in quanto tale ha rotto esplicitamente con il marxismo ed il comunismo stesso.

Nel quinto capitolo, infine, si prende in esame l’ipotesi di un polo indipendente dei marxisti e dei comunisti, italiani ed europei, riassumendo in forma abbreviata alcuni temi di carattere ideologico e politico contestuali a questa ipotesi.

Nonostante l’ipotesi esplicitamente privilegiata dallo scrivente sia l’ultima (e il lettore se ne renderà conto agevolmente) vorremmo insistere sul fatto che in campo teorico la cecità settaria non è mai stata produttiva, e che il modo più adeguato di criticare una certe ipotesi è quello di ammetterne, se è il caso, la legittimità strategica. È inoltre assolutamente ovvio che qualunque ipotesi politica di autonomia organizzativa di un “polo comunista” (o, se preferiamo l’espressione, di una “costituente di nuovi comunisti”, oppure di “casa comune dei comunisti”) dovrebbe comunque porsi il problema pratico di un rapporto politico sia con l’arcobaleno sia con il “nuovo corso”, nell’ambito della più generale questione della ristrutturazione della “sinistra” italiana ed europea.

Non è tuttavia questo l’aspetto principale di queste note. Si tratta anzi di un aspetto secondario, che lo scrivente ritiene in questo contesto marginale. Un libro che si limitasse a prendere in esame questioni di tattica politica, sia pure questioni di tattica dotate di una dimensione “strategica”, invecchierebbe in pochissimi mesi, perché non potrebbe sopravvivere agli inevitabili zig-zag del panorama dell’attualità politica. Un libro deve invece mettere a fuoco questioni teoriche di medio periodo, questioni che permangono intatte nel tempo al di là delle congiunture che ne hanno sollevato la discussione.

Si ritorna dunque inevitabilmente ai tre termini che fanno da orizzonte a queste note. In primo luogo, all’anticapitalismo come «passione durevole», in grado di sopravvivere ai momenti iniziatici delle mobilitazioni giovanili e studentesche e degli stessi momenti alti delle lotte operaie e popolari.

In secondo luogo, al marxismo come la sola forma di consapevolezza scientifica che possa fare da fondamento all’anticapitalismo, al marxismo come scienza sociale storica ed unitaria dei modi di produzione sociali e del modo di produzione capitalistico in particolare.

In terzo luogo, al comunismo nella sua doppia natura di movimento pratico reale che potrebbe, se consapevolmente guidato, abolire lo stato di cose presenti, e di orizzonte storico e sociale in grado di esprimere un significato pienamente umano, terreno, alle azioni dell’uomo, senza alcuna pretesa ingiustificata, che sarebbe inevitabilmente di tipo religioso, di “svelare” l’enigma ultimo della storia universale.



Ci rivolgiamo a lettori che vogliano imparare qualcosa di nuovo, che dunque vogliano pure pensare da sé (K. Marx). – Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada (Eraclito). – ... se uno ha veramente a cuore la sapienza, non la ricerchi in vani giri, come di chi volesse raccogliere le foglie cadute da una pianta e già disperse dal vento, sperando di rimetterle sul ramo. La sapienza è una pianta che rinasce solo dalla radice, una e molteplice. Chi vuol vederla frondeggiare alla luce discenda nel profondo, là dove opera il dio, segua il germoglio nel suo cammino verticale e avrà del retto desiderio il retto adempimento: dovunque egli sia non gli occorre altro viaggio (M. Guidacci).

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