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Prefazione
«[…] il libero sviluppo di ognuno sia la condizione per il libero sviluppo di tutti».
K. Marx, F. Engels,
Il manifesto dei comunisti
«Anche a me sembra che una reale trasformazione dei rapporti dell’uomo con la proprietà potrebbe giovare per superare l’aggressività e l’odio nella società umana più di qualsiasi altra norma etica. Ma tra i socialisti tale idea viene oscurata da nuove aspettazioni idealistiche che, disconoscendo la natura umana, le tolgono ogni valore pratico».
S. Freud
Un esame delle principali coordinate spazio-temporali in cui si colloca l’enigma storico del comunismo permette di giungere a due risultati fondamentali, che devono fare da sfondo ad ogni indagine ulteriore.
In primo luogo, appare sempre più evidente che la dimensione spaziale e geografica del comunismo può soltanto essere mondiale. Il modo di produzione capitalistico è giunto alla fine del Novecento ad una fase di vera e propria mondializzazione integrale dello spazio economico, della decisione politica, dei linguaggi culturali.
La mondializzazione, ovviamente, non è affatto una omogeneizzazione delle condizioni di vita sul pianeta. Al contrario, la mondializzazione avviene proprio spingendo a livelli inauditi di diversificazione le condizioni di vita. Dal tempo delle caverne ad oggi non c’è mai stata nel mondo tanta diseguaglianza geografica nelle condizioni sociali ed economiche. La manipolazione culturale attuata dal sistema dei mezzi di comunicazione di massa è molto superiore a quanto è avvenuto in passato nel campo dei messaggi simbolici, dal tempo dei sacerdoti babilonesi a quello degli aruspici etruschi.
Chi parla oggi di “opinione pubblica” come se ci si trovasse di fronte ad un campo omogeneo in cui si scambiano messaggi fra soggetti in reciproco dialogo è in preda ad un’illusione ideologica (non importa se in buona o in mala fede) al limite dell’irresponsabilità.
In breve: la dimensione spaziale odierna è la mondializzazione integrale, e chi propone di chiudersi in un’ottica settoriale e provinciale non sa letteralmente quello che si dice; lo stesso nazionalismo (che non è sempre negativo, perché è talvolta legato ad una resistenza legittima contro i diktat delle direzioni mondiali imperialistiche) è un fenomeno che non ha più rapporti come nell’Ottocento con la formazione di un mercato unico nazionale, ma che coagula contraddittoriamente nostalgie premoderne, comunitarismi etnici e religiosi, resistenza all’omologazione subalterna imposta dall’imperialismo e confuse ricerche di una nuova comunità.
In secondo luogo, la dimensione temporale odierna appare sempre più essere una determinata fase storica della modernità che l’ideologia post-moderna coglie correttamente come novità e discontinuità radicale, e nello stesso tempo mistifica scorrettamente come fine della storia.
In un saggio precedente, dedicato al moderno, al post-moderno e alla fine della storia, abbiamo insistito sul fatto che senza una preventiva operazione di spazializzazione e di temporalizzazione della situazione attuale non è possibile orientarsi correttamente nell’azione culturale e politica. Si tratta apparentemente di una vera e propria ovvietà. A parole, nessuno vorrà negare che il progetto della modernità è entrato in crisi profonda, che il post-moderno è ad un tempo rivelatore e mistificatore, e che le ideologie della fine capitalistica della storia rappresentano un’emulsione congiunturale che risulta dalla sinergia fra due componenti storiche essenziali: l’euforia neoliberale ed ultra-capitalistica risultante dalla vittoria sul comunismo storico novecentesco consumatasi, in una drammatica unità di tempo e di luogo, fra il 1989 ed il 1991, ed il riflusso lamentoso della generazione dei reduci del 1968.
Nei fatti, non appena si passa dalle dichiarazioni generiche all’analisi del merito delle questioni, l’accordo apparente si rivela essere in realtà un nodo di disaccordi di fondo. Alcuni vorrebbero un rilancio del marxismo oggi, e non si rendono conto che senza una riformulazione coraggiosa dei parametri essenziali del materialismo storico e della critica dell’economia politica, la volontà soggettiva di effettuare un rilancio del marxismo oggi si riduce ad essere un archivio diligente della memoria storica del marxismo ieri. Abbiamo certo bisogno di questo archivio di storia delle idee del marxismo ieri, in cui i giovani possano ritrovare le opinioni di Engels, Gramsci, Lukács, Korsch, Bloch ed Althusser, per confrontarle con tutte le proposte di rinnovamento che vengono fatte, e che talvolta non fanno che riproporre sterilmente vie già percorse in passato e che si sono rivelate senza uscita. Ma il marxismo oggi è un’altra cosa. Esso deve essere un marxismo nuovo, e non un semplice aggiornamento delle vecchie formulazioni. Alla radice delle resistenze a passare dal marxismo ieri al marxismo oggi sta in ogni caso la sottovalutazione della rottura epocale del 1989-1991, e del fatto che molti ritengono che si possa in fondo ricominciare «come prima» e riprendere le cose dove si erano interrotte.
Altri vorrebbero ripartire sulla base di una riqualificazione della vecchia e gloriosa dicotomia fra “destra” e “sinistra” che è non dimentichiamolo mai uno dei presupposti irrinunciabili della metafisica del marxismo di ieri.
A nostro avviso la dicotomia fra “destra” e “sinistra” ha fatto integralmente parte di un lungo periodo storico dello sviluppo capitalistico, in cui la borghesia ed il proletariato come classi-soggetto esistevano ancora nella loro consistenza sociologica e culturale, ed in cui non si era appunto ancora compiuta la transizione dalla fase della sottomissione formale di questi due soggetti (la borghesia ed il proletariato, appunto) alla riproduzione anonima, impersonale e sistemica del rapporto generale e mondializzato di capitale, alla fase della sottomissione reale, in cui questi due soggetti collettivi perdono progressivamente le loro identità, i loro profili culturali, le loro appartenenze.
Ci fu un tempo in cui c’erano una borghesia di “destra” ed una borghesia di “sinistra”, affiancate da due mezze ali chiamate piccola borghesia di estrema sinistra e piccola borghesia di estrema destra; gli anni fra il 1917 ed il 1968 furono forse il periodo d’oro di questo scontro.
Chi pensa oggi di offrire una bussola di orientamento fondata su questi due poli, “destra” e “sinistra”, e cerca ad ogni costo di trovare parametri capaci di fare “incasellare” le varie posizioni di qua o di là nelle attuali condizioni storiche del modo di produzione capitalistico non fa a nostro avviso che rimandare la resa dei conti con le concezioni invecchiate del conflitto sociale (come se il “volontariato”, o “l’opzione per gli ultimi”, o la “solidarietà con gli sfavoriti”, di cui si parla oggi per legittimare una fantomatica “sinistra” contro la “destra”, identificata con il lusso e l’egoismo, potessero essere un parametro filosofico e sociale per la nuova “sinistra”; se così fosse, i santi della Controriforma, che si mescolavano ai lebbrosi ed ai moribondi per condivider ne le pene, sarebbero i fondatori della nuova sinistra, contrapposti a Robespierre e Lenin, visti come i portabandiera della vecchia sinistra).
Più in generale, la “sinistra” diventerà sempre di più un’espressione “elettorale” della finzione uninominale maggioritaria bipolare manipolata, che cercherà di sorpassare “a destra” la vecchia destra sul piano del neoliberalismo politico e del neoliberismo economico come partito dell’alleanza “a clessidra” fra grande capitale monopolistico e multinazionale e strati impoveriti e proletarizzati di operai ed impiegati.
Questa metamorfosi è in atto, e nello stesso tempo è talmente orribile da incontrare ancora resistenza psicologica persino presso intellettuali disincantati. Il Dorian Gray di Wilde è ormai, a nostro avviso, il personaggio ideale della “sinistra”.
Abbandoniamo dunque con coraggio le due vie illusorie della riproposizione del marxismo ieri scambiato per attualità del marxismo oggi, da un lato, e della collocazione bipolare illusoria fra una “sinistra” ed una “destra” svuotate dalla realizzazione integrale della sottomissione reale delle classi sociali proto-capitalistiche al rapporto astratto di capitale, dall’altro.
Ci rendiamo conto che questo nostro invito non sarà seguito, dal momento che gli intellettuali cercano committenza politica immediata, e la committenza politica (e soprattutto giornalistica) continuerà ad essere illusoriamente fornita dalla polarità fantasmatica fra “sinistra” e “destra”. Nello stesso tempo siamo fiduciosi sul fatto che sarà la stessa forza delle cose a produrre prima o poi questo doppio congedo, non senza però che si siano perduti anni preziosi nel fare la guardia a bidoni di benzina vuoti e nell’avallare vecchie cariatidi di un’epoca irreversibilmente trascorsa.
Gli avvenimenti epocali del triennio 1989-1991 ci dicono molte cose, che riassumeremo qui in tre punti. In primo luogo, non ci possiamo aspettare la transizione dal capitalismo al comunismo dal semplice sviluppo delle forze produttive capitalistiche. Il capitalismo sviluppa le forze produttive nella forma peculiare della socializzazione “capitalistica” delle forze produttive stesse, sia dal lato della produzione (nella formazione sempre più allargata di ruoli direttivi ed esecutivi, che rende impossibile l’assunzione “comunista” di questi stessi ruoli direttivi da parte di agenti sociali eventualmente provenienti dagli strati sociali “oppressi” della popolazione senza che questa assunzione non comporti ipso facto la riproduzione anonima, impersonale ed allargata dello stesso rapporto di produzione capitalistico), sia dal lato del consumo (nella moltiplicazione virtualmente infinita di prodotti di consumo differenziato di individui, famiglie, gruppi sociali, popoli, nazioni, sessi, ecc., che sulla base di questi consumi riproducono comunità di vita certamente “alienate” e nello stesso tempo profondamente attaccate al capitalismo come legame sociale). Il marxismo ieri, da non confondere con il marxismo oggi, si è basato sulla scommessa razionale del fatto che la socializzazione capitalistica delle forze produttive fosse l’anticamera del passaggio al comunismo. Non è così, e sarà tutto tempo perduto quello passato a cercare di rilanciare il vecchio paradigma.
In secondo luogo, non ci possiamo aspettare la transizione dal capitalismo al comunismo dall’azione collettiva di una determinata classe sociale identificata nel proletariato di fabbrica, integrato o meno da alleati differenziati (contadini poveri, piccola borghesia intellettuale proletarizzata, popoli oppressi dall’imperialismo, genere femminile nel suo complesso, ecc.).
Marx ebbe certo serie e valide ragioni nell’identificare la classe sociologica dei salariati di fabbrica, che con il plusvalore loro estorto reggevano l’intera società soprastante, con la classe filosofica dei proletari rivoluzionari, che avrebbero abbattuto la borghesia sostituendo ad essa non un ennesimo potere di classe, ma la comunità solidale e fraterna al di là delle classi.
La classe operaia non è una classe universale, esattamente come non lo sono state a suo tempo la classe degli schiavi antichi e la classe dei servi della gleba medioevali. Come classe particolare la classe operaia è stata forse migliore della borghesia (che è stata naturalmente anch’essa una classe particolare), almeno nel Novecento. La borghesia novecentesca ha infatti prodotto (insieme con alcune cose relativamente buone, peraltro compiute su pressione operaia, come il welfare state, oppure su pressione esterna, come la decolonizzazione) cose come l’imperialismo ed il fascismo (e la piccola borghesia “di destra” le ha dato indubbiamente una mano!), mentre la classe operaia ha prodotto due vere e proprie performances di tutto rispetto: la socialdemocrazia, cioè la contrattazione collettiva e solidale di norme di consumo e di produzione che hanno costretto i capitalisti a determinati compromessi sociali; e lo stalinismo, cioè la salarializzazione egualitaria e livellatrice di tutto il popolo, gestita da un partito-stato capillarmente insediato in tutte le sfere della società. La socialdemocrazia e lo stalinismo possono essere considerate, a piacere e secondo i propri personali gusti storici e biografici, cose ottime o cose pessime.
In questa sede, in cui non possiamo certo per ragioni di spazio ripetere tutti i vari argomenti pro o contro l’una o l’altro (che presupponiamo noti nel lettore conoscitore della storia del Novecento), ci basta, per poter continuare, che si ammetta che né la socialdemocrazia né lo stalinismo sono forme di emancipazione universale o universalizzabile, e che non può essere un semplice caso (dovuto ai loschi complotti della piccola borghesia o della “burocrazia”) che in centoventi anni la classe operaia non sia riuscita a fare di meglio. Essa ha già dato il massimo, così come il massimo dato dagli schiavi dell’antichità è stata l’unità fra le nobili rivolte di Spartaco e la religione di salvezza predicata da Paolo di Tarso (su cui ritorneremo nel secondo capitolo di questo saggio), ed il massimo dato dai servi della gleba medioevali è stata la predicazione pauperistica, evangelica ed egualitaria di un Occam, di un Francesco di Assisi, di un Hus, di un Wycliffe.
In queste osservazioni non c’è ovviamente nulla di anti-operaio, di anti-proletario, e neppure di anti-operaistico. Al contrario. Crediamo da tempo che la classe operaia, empiricamente e sociologicamente definita (gli operai concreti, in poche parole), abbia tutto da guadagnare e nulla da perdere con l’abbandono esplicito delle metafisiche salvifiche che pretendono di parlare in suo nome. Queste metafisiche salvifiche sono infatti quasi sempre la copertura ideologica mistificata di una teoria della rappresentanza politica che, in nome appunto della centralità escatologica della classe operaia stessa, legittima l’esistenza separata, continuamente riprodotta, di un ceto politico e sindacale professionale che non esisterebbe neppure se non fosse giustificato dall’essere appunto la “voce degli operai”.
In terzo luogo, non ci possiamo aspettare la transizione dal capitalismo al comunismo dall’esclusiva attività politica di un partito, sia esso di tipo socialdemocratico classico (alla Kautsky ed alla Plechanov), sia esso di tipo comunista (alla Lenin, alla Gramsci, alla Stalin, alla Trotzkij o alla Mao). La ragione di questa impossibilità sta in due principali ordini di ragioni. Da un lato, la formazione di burocrazie che nel giro di due generazioni trasformano gli apostoli disinteressati in cardinali vestiti di porpora, cui non ci si può opporre in nome di “valori egualitari” o di richiami all’ascesi messianica originaria, appunto perché si tratta di trasformazioni strutturali e sistemiche, la cui legalità ferrea assomiglia a quella che ha trasformato a suo tempo i mercanti in capitalisti; si tratta infatti di “ruoli oggettivi”, non certo di “difetti e qualità soggettive”; la forma-partito produce burocrazia non certo per ragioni patologiche, ma in forza di processi assolutamente fisiologici; il solo rimedio che si potrebbe ragionevolmente ipotizzare contro la degenerazione burocratica (e che effettivamente Gramsci, Lenin, Rosa Luxemburg e Trotzkij ipotizzarono) consiste nella continua, capillare e permanente attività di autogoverno politico e di autogestione economica della classe operaia-proletariato, attività che si basa su di una illusione metafisico-sociologica che non corrisponde per nulla alle capacità effettive, strutturali, della classe operaia stessa. Questa classe, capace di azione collettiva e di solidarietà capillare, titolare di valori umani eccezionali legati al lavoro manuale ed alla conoscenza-trasformazione della materia, è pur sempre un gruppo sociale modellato intimamente dalla valorizzazione capitalistica e dalle sue forme di cooperazione produttiva, e non le si può ragionevolmente attribuire la capacità di mobilitazione anti-burocratica permanente.
Se infatti si pretendesse seriamente da qualcuno una disponibilità permanente all’autogoverno politico ed all’autogestione economica, oltre al lavoro di fabbrica e di ufficio, e oltre ai lavori domestici (anche divisi fra uomini e donne), si avrebbe una vita quotidiana in cui non resterebbe letteralmente un attimo di tempo per vivere. E allora, a che pro fare il comunismo se poi non resta tempo che per “militare”, “autogovernare”, “appartenere”, “autogestire”, “controllare i burocrati”?
Vi è però un secondo ordine di ragioni, assai più importante, che sconsiglia recisamente di pensare alla transizione dal capitalismo al comunismo in termini di centralità di una forma-partito. Si tratta del fatto che il partito politico moderno è stato modellato sull’esempio dello Stato, e in particolare dello stato capitalistico. Il partito è uno Stato in miniatura, con i suoi cittadini (i militanti), i suoi governanti (i dirigenti), il suo patriottismo, le sue bandiere. Esso è la forma di esistenza necessaria della rappresentanza politica nell’epoca dello Stato capitalistico moderno, ed è dunque del tutto pleonastico accusare di “statalismo” l’ideologia dei partiti comunisti del Novecento.
Un partito politico non statalista è in effetti astrattamente pensabile, ma si tratterebbe allora di un partito perennemente all’opposizione, che rifiuterebbe per principio di assumere funzioni di governo di un paese. Il partito politico è dunque strutturalmente ed intimamente “statalista” (né potrebbe essere diversamente), e l’antistatalismo eventualmente presente in gruppi di militanti non è che una copertura illusoria ed un’integrazione ideologica subalterna destinata alla sconfitta e all’emarginazione.
Con queste osservazioni non intendiamo affatto rilanciare il vecchio “anarchismo” (pure non certo privo di meriti). Il vecchio “anarchismo” era contro la forma-stato, non solo contro la forma-partito. Chi scrive pensa invece che una forma-stato (certo, non l’attuale forma-stato capitalista!) permarrà anche nella società comunista, mentre invece la società comunista (o meglio, la comunità comunista) è incompatibile con la forma-partito comunista, tanto più poi quanto più quest’ultima è costruita sul modello dello stato “capitalistico”. Dedicheremo a questo punto essenziale riflessioni apposite. Per il momento, ci basti rilevare ancora una volta che quanto stiamo dicendo non ha nulla a che fare con il vecchio “anarchismo”: una forma-stato universalistica ci sembra possibile (anche se radicalmente ridefinita e fortemente ridimensionata), mentre una forma-partito universalistica è per noi del tutto impossibile.
Ci siamo dunque per ora pronunciati in negativo, escludendo tre tradizionali fattori prescrittivo-normativi della transizione dal capitalismo al comunismo: lo sviluppo progressivo delle forze produttive capitalistiche, la centralità della classe operaia-proletariato, l’esclusività di una forma-partito “di sinistra”.
Chiediamoci ora: è possibile passare da questa formulazione in negativo, da questa pars destruens, ad una formazione in positivo, ad una pars contruens? Sì, lo pensiamo. E anzi questa la scommessa di questo saggio, che vorrebbe appunto indicare i primi elementi filosofici atti a farci uscire da questa dolorosa impasse del pensiero e dell’azione. Questa uscita non potrà avvenire senza rischiare: e rischiare significa abbandonare i tranquilli lidi dell’ortodossia (comprendendo in essa anche quella ingannatoria variante dell’ortodossia che è l’ortodossia eretica tradizionale), in direzione di prospettive fino ad oggi poco praticate.
La tesi di questo saggio è molto semplice: la forza principale e decisiva della transizione dal capitalismo al comunismo è la natura umana; lo sviluppo delle forze produttive capitalistiche, l’attività politica, il protagonismo sociale di una classe determinata, ed infine la sintesi dinamica di tutti e tre questi fattori non sono assolutamente sufficienti, senza il decisivo concorrere della natura umana intesa come determinazione antropologico-sociale decisiva. Tutto qui, si dirà? Ma questa è la montagna che partorisce un topolino! Ma questa è la scoperta dell’acqua calda!
Il lettore informato può avere questa reazione legittima di fronte a questa perentoria affermazione, perché essa sembra a prima vista tutt’altro che nuova ed inedita. Da più di centoventi anni (ed il periodo storico 1870-1990 è da noi visto come il “lungo secolo” della storia unitaria del movimento operaio e socialista e poi del comunismo storico novecentesco) si sono scritte intere biblioteche per “raccomandare” la coltivazione della dimensione etica del socialismo, dell’impegno morale del rivoluzionario, del costume austero del comunista, della necessità inderogabile di costruire l’Uomo Nuovo, ecc. Decine di autori hanno sottolineato il fatto che senza una decisa riforma intellettuale e soprattutto morale era del tutto vano aspettarsi la costruzione di una società di liberi e di eguali.
In breve, tutti hanno concordato (al di fuori di pochissimi ultra-deterministi consapevoli) che senza lavorare anche sulla “natura umana” non si sarebbe mai potuto superare il “vecchio Adamo” feudale e capitalistico.
Rassicuriamo subito il lettore. In questo saggio non verrà ripreso questo insieme di temi, ma si imboccherà una via inedita, o quanto meno poco percorsa in precedenza. Ci basiamo in proposito su un’affermazione di Pascal, che abbiamo sempre trovato molto opportuna:
«Non mi si dica di non avere detto nulla di nuovo: nuova è la disposizione della materia. Quando due giocano alla pallacorda, si rimandano sempre la stessa palla, ma uno la lancia meglio. Tanto varrebbe rimproverarmi di essermi servito di parole antiche: come se gli stessi pensieri non facessero, grazie ad una differente collocazione, un altro discorso, nello stesso modo che le medesime parole diversamente disposte fanno altri pensieri».
L’espressione, la “parola” di cui ci serviamo (“natura umana”) è antica; il discorso che intendiamo svolgere è nuovo. Si tratta, infatti, di partire dal presente tempo della modernità come tempo della radicale incertezza sulla possibilità di un futuro del comunismo, per proporre un’antropologia sociale della libertà e dell’eguaglianza (nel nostro linguaggio, dell’eguale libertà) che non getti via però il bambino insieme con l’acqua sporca, cioè la teoria marxiana dei modi di produzione insieme con l’economicismo ed il determinismo delle varie vulgate marxiste, ortodosse o eretiche. Per impostare questo arduo programma, proponiamo un percorso in quattro tappe.
In primo luogo, sarà necessario riflettere sommariamente sulla nozione generale di natura, sul concetto di natura umana, sulla presenza di una ben precisa teoria della natura umana in Marx, e su come infine questa teoria si specifica come teoria della determinazione storica dell’ente naturale generico in libera individualità integrale moderna come unica base antropologica del comunismo inteso come comunità post-capitalistica.
Riteniamo che il discorso possa essere relativamente semplice e lineare, purché si abbandoni la tradizionale dicotomia fuorviante fra “marxismo umanistico” e “marxismo strutturalistico”, che ha dominato il panorama filosofico francese e italiano degli anni Sessanta e Settanta del Novecento.
Nel contesto storico-politico di quei due ormai lontani decenni, il conflitto teorico fra “umanisti” e «strutturalisti» nascondeva spesso (non sempre!) un conflitto pratico fra una “destra comunista”, gli “umanisti”, che sotto l’etichetta di Uomo e di Valori Umani intendevano in realtà “allargare” il fronte politico della “sinistra” a gruppi sociali non operai e non proletari, ed una “sinistra comunista”, gli “strutturalisti”, che con il primato delle strutture intendevano in realtà enfatizzare l’opposizione “strutturale” della classe operaia e del proletariato antiborghese ed anticapitalista. Uno scontro fra interclassisti ed operaisti, dunque; uno dei tanti scontri sostanzialmente inutili di una storia che pure doveva svolgersi fino in fondo, nella sua pervicace assurdità, per permettere alla nottola di Minerva di levarsi in volo al crepuscolo. E la nottola di Minerva siamo noi tutti, che in questa fine del secolo ci riproponiamo spregiudicatamente il tema della possibilità e della desiderabilità del comunismo.
In proposito, riteniamo che la questione del rapporto fra Marx e la natura umana abbia due dimensioni fondamentali.
Da un lato, la presenza di un’antropologia sociale del comunismo ci sembra in Marx evidente e difficilmente negabile; essa però è quasi sempre implicita nel suo discorso economico, storico e sociologico, anche perché Marx non ritiene ovviamente necessario ripeterla continuamente; in questo saggio, sottolineeremo il fatto che l’antropologia sociale di Marx, cioè la sua teoria della natura umana (di ciò che la natura umana è e di ciò che la natura umana può diventare), non è “originale”, ma è una semplice generalizzazione e coerentizzazione “comunista” della teoria di Hegel della modernità come libertà di tutti, cioè “libertà eguale per tutti”, contrapposta alla pre-modernità come libertà di uno solo o di pochi (comunque non di tutti).
Dall’altro, in Marx non ci può essere praticamente nulla su quanto più ci interessa in questa sede, cioè sulla storia delle vicende antropologiche del “compagno”, questa terza figura antropologica della modernità che si affianca gloriosamente alle due precedenti figure del “borghese” e del “cittadino”. È noto che Marx ha genialmente descritto le vicende dialettiche dell’unità e della separazione di queste due figure, e che nello stesso tempo ha dato per scontato che il “compagno” avrebbe “superato” entrambe (nel significato hegeliano espresso dal termine aufgehoben).
Diciamocelo francamente: in Marx non esiste un’indagine materialistica della figura del “compagno”, cioè del “comunista” che si definisce nel capitalismo (e nel “socialismo reale”) in base alla categoria della “separatezza” dal mondo dei “non-compagni”, e dunque in base alla doppia determinazione della “militanza” e della “appartenenza”. Se in Marx di tutta questa problematica non c’è praticamente neppure l’ombra, è evidente che bisognerà rivolgersi per questo alla grande tradizione della storia della filosofia occidentale.
In secondo luogo, appare chiaro che per non sperdersi nella foresta di questa grande tradizione, sarà necessario effettuare una scelta semplificatrice radicale. Di questa semplificazione non bisogna avere paura o vergogna, purché si abbia coscienza del fatto che il tema del nostro discorso sarà sempre uno ed uno solo, quello del rapporto fra particolare ed universale, cioè fra pretesa di universalità di ciò che è in realtà solo particolare e ribellione degli altri “particolari” a lasciarsi sussumere sotto una generalità illusoria e fittizia. In questo saggio abbiamo deciso di ridurre a sei gli autori suggeriti (Aristotele, Epicuro, Paolo di Tarso, Spinoza, Robespierre e Hegel), in modo che fossero chiari gli “scenari” filosofici dentro cui si colloca la dolorosa dialettica della “particolarità” della figura del “compagno” che pretende ricavare dalla propria separatezza costituita dalla militanza e dall’appartenenza una vera e propria “universalità”, che dovrebbe costituire la “natura umana” del comunismo, sia presente che futuro.
Al centro di questa tragedia sofoclea sta a nostro avviso la dialettica di rigorismo morale e di regno animale dello spirito, già genialmente intravista da Hegel, anche se questa figura ingiustamente trascurata dalla critica marxista deve essere affiancata da una seconda figura, assai più paolina che spinoziana, quella dell’asservimento consapevole ad una divinità personalizzata che agisce nella storia, anche se il suo orizzonte è fuori della storia (o, se si vuole, alla “fine della storia” ed è questa una ragione ulteriore per congedarsi irrevocabilmente da ogni residua teoria della fine della storia stessa). Nessuno di questi sei autori ci parla ovviamente in modo esplicito della figura del “compagno”, che non esisteva neppure ai loro tempi. Tutti e sei, però, ci descrivono implicitamente in modo geniale il quadro antropologico e filosofico dentro cui collocare la storia di una grande e fatale alienazione, che fu storicamente obbligata in passato ma che non sarà più storicamente obbligata in futuro.
In terzo luogo, è giunto il momento di affiancare alle tradizionali storie “ideologiche” del marxismo e del comunismo, che elencano più o meno diligentemente le tesi filosofiche, economiche e politiche dei vari marxisti attivi nel “lungo secolo” 1870-1990, un abbozzo di storia antropologica del “compagno”, basata sul tipo di modello di “natura umana” via via proposto e realizzato.
Confessiamo la nostra radicale insoddisfazione rispetto ai risultati raggiunti in questo saggio. Nello stesso tempo, se abbiamo scelto di affrontare la questione del lato antropologico-sociale risultante dalle posizioni ideologiche di un Engels o di un Kautsky, di un Lenin o di uno Stalin, di un Mao o di un Guevara, non pensiamo con questo di essere già arrivati a risultati soddisfacenti, bastandoci l’aver sollevato metodologicamente il problema e l’aver messo “la pulce nell’orecchio” a futuri ricercatori, meno emotivamente coinvolti di chi scrive nelle dolorose vicende del tramonto del comunismo storico novecentesco, consumatosi fra il 1956 e il 1991.
Siamo invece relativamente più soddisfatti dell’applicazione alla storia della degenerazione antropologico-sociale di una certa figura di “compagno” della categoria nicciana di Ultimo Uomo, che ci sembra sostanzialmente pertinente per connotare il nichilismo irrimediabile di questa figura (e ripetiamo qui quanto abbiamo già cercato di motivare a lungo altrove: il nichilismo è l’esito di un universalismo mancato; l’individualità deve cessare di mentire a se stessa e deve preferire la tempesta del dubbio e la perdita della fede al mantenimento di certezze edificanti, rassicuranti, e però false ed infondate).
In quarto luogo, sosterremo che l’indagine sulla natura umana si specifica sempre in una teoria della comunità umana. Il comunismo non è una società di eguali, forzatamente eguagliati da un processo economico-politico di eguagliamento. Il comunismo è una comunità di egualmente liberi, in cui probabilmente alcuni elementi post-capitalistici di Stato e di mercato non si estingueranno completamente, ed in cui le strategie individuali e collettive di resistenza alle estraneazioni e di realizzazione delle capacità non avranno più bisogno delle forme della militanza-appartenenza-rappresentanza. Anche il capitalismo è una comunità, e non solo una società, ed è per questo che è così forte e resistente.
La natura umana è però capace di sostituire il legame sociale capitalistico con un altro legame sociale costituito dall’eguale libertà comunista.
La questione del legame sociale è dunque centrale. Ciò non deve stupire, perché gran parte del libro è dedicata alla segnalazione, che abbiamo talvolta voluto espressamente insistente ed ossessiva, del fatto che la categoria ontologica di Essere acquista significato soltanto se le si attribuisce lo statuto epistemologico di una relazione sociale.
Il comunismo deve dunque essere ridefinito sulla base di una riforma, indubbiamente traumatica e non indolore, del tradizionale apparato categoriale ereditato dalla tradizione marxista. Questa tradizione ci ha abituati da decenni a considerare la struttura di un modo di produzione come fondata dalla relazione dialettica fra sviluppo delle forze produttive sociali, da un lato, e dinamica dei rapporti sociali di produzione, caratterizzati in prima istanza dalla lotta fra le classi fondamentali, dall’altro.
Nella nostra concezione la struttura è invece caratterizzata dalla riproduzione del legame sociale, e dunque in essa è implicitamente inclusa l’attività umana, la praxis, la capacità di azione e di trascendimento dell’esistente. In altra sede (cfr. L’Ideologia italiana, Milano 1993), abbiamo rilevato che questa impostazione non ha quasi nulla a che vedere con ciò che in Italia è stato per decenni definito «filosofia della prassi», dal momento che con questo termine si connotava in realtà un adattamento manipolato del pensiero di Gramsci al primato tattico dell’agire politico e partitico, che riduceva la praxis a dialettica fra militanza e rappresentanza. Non insisteremo mai abbastanza su questo punto decisivo.
Il comunismo dovrà dunque essere ripensato a partire dal primato strutturale (e non soltanto “sovrastrutturale”) del legame sociale complessivo, cioè della riproduzione dell’interezza dei rapporti sociali di produzione. Il discorso sulla natura umana svolto in questo saggio è propedeutico a questo progetto.
Propedeutica è stata anche la discussione delle nozioni di moderno, post-moderno e fine della storia, svolta in un saggio precedente. Ci rimane ora l’affascinante compito di impostazione di una discussione diretta, e non più mediata o implicita, della nozione di comunismo, alla luce del discorso svolto fino ad ora.
Costanzo Preve
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