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Prologo
Al potere non piace il riso
La frase non è mia, ma di Dario Fo, quel benedetto (ma purtroppo già defunto) buffone. E la pronunciò, nientemeno, nel discorso di accettazione del Premio che ebbero la gentilezza di concedergli, nel 1997, i membri dell’Accademia Svedese, in un atto di provocazione senza precedenti. Lo stesso Fo si incaricò di “rimproverarli” per il loro comportamento in diretta:
Il premio più alto va dato senz’altro quest’anno ai Membri dell’Accademia svedese che hanno avuto il coraggio di assegnare il Nobel a un giullare!. Eh sì, il Vostro è stato davvero un atto di coraggio che rasenta la provocazione. Basta vedere il putiferio che ha causato: poeti e pensatori sublimi che normalmente volano alto […] e poco si degnano di quelli che campano rasoterra […] si sono trovati all’istante travolti da una specie di tromba d’aria. Ebbene, io applaudo e sono d’accordo con loro. Stavano già beati nel Parnaso degli eletti e Voi, con questa Vostra insolenza, li avete abbattuti e precipitati giù a sbattere musi e pance nel fango della normalità.
Come dicevo, al potere non piace il riso.
Ma non si tratta di una frase coniata per l’occasione, bensì, in realtà, potremmo dire che è il corollario di tutta la filosofia implicita nell’opera di Fo. L’intera opera, feconda e di una vastità quasi inafferrabile, dell’autore italiano sembra essere guidata da un filo rosso (se mi è concessa l’espressione), il cui scopo è la denuncia del potere attraverso il riso. E io, che sono un ammiratore devoto di Fo, ho sempre nutrito l’intenzione di realizzare uno studio il più approfondito possibile su questa battaglia condotta dall’ineffabile autore-attore (e mille altre cose ancora), esplorando la sua opera e le sue fonti d’ispirazione, dai giullari medievali al grande Shakespeare stesso, passando per il geniale Ruzzante (Angelo Beolco), il teatro di Molière, la Commedia dell’Arte e tutta una serie di comici che, in un modo o nell’altro, hanno cercato di usare il riso contro l’oppressione che viene sempre dall’alto.
Perché, non dimentichiamolo, al potere non piace il riso.
Per anni, questa frase mi ha spronato come un mantra che ho messo in gioco in quasi ogni momento del mio agire quotidiano, avendo sempre come punto di partenza, centro di gravità permanente (o come diavolo si voglia chiamare) il tema del riso come elemento opposto, antagonista, scomodo e nemico del Potere. Era diventato una sorta di leitmotiv:
“Al potere non piace il riso, al potere non piace il riso ...”. Più che un mantra, si era trasformato in un’ossessione, in una specie di canto che avrei voluto usare come tromba di Gerico per assaltare il potere.
Ero tentato di legare insieme proclami e citazioni per portarli come stendardo nella conquista di nuovi Palazzi d’Inverno: “Imparate a ridere, uomini superiori, e con le vostre risate abbattete i muri che impediscono al popolo di riprendersi il potere che gli spetta per organizzare la propria vita e via dicendo …”.
Il potere e il riso. Nemici irriconciliabili?
Il riso, uno strumento rivoluzionario? Purtroppo, non ci misi molto a capire che solo un ingenuo poteva pensarla così. Il guaio è che il sottoscritto è fin troppo ingenuo, ed è proprio per questo che impiegai un po’ di tempo a rendermi conto che un simile ragionamento crollava da solo: anche il potere ride … e in che modo!
Ma il progetto non fu accantonato, anzi. Da uno studio sul riso come possibile arma rivoluzionaria, la questione si trasformò in un’analisi delle relazioni tra questi due elementi così umani, così quotidiani, eppure così poco studiati insieme. In effetti, se i trattati sul Potere rischiano di rendere realtà il meraviglioso racconto di Julio Cortázar Fine del mondo fine1, al contrario, il tema del riso rimane uno dei grandi assenti nella filosofia (e nelle altre discipline accademiche, per inciso). È vero che esistono saggi sull’argomento, ma costituiscono un’infima minoranza, quasi un divertissement che alcuni autori si concedono di tanto in tanto, tra un saggio profondo e un trattato rigoroso.
E il motivo è semplice: al potere non piace il riso …
… ma pare che neppure piaccia alla filosofia.
Se c’è un tema che questa ha trascurato o, nel migliore dei casi, trattato in modo tangenziale, è proprio quello del riso. Non che i filosofi non se ne siano occupati, ma quando l’hanno fatto, lo hanno considerato un argomento minore, secondario, forse indegno dei loro sforzi teorici.
Così, per ragioni mai chiarite, il riso è stato quasi sempre malvisto, ritenuto inferiore, persino degradante per l’essere umano (nonostante tutti, all’unanimità, lo considerino l’unico animale che ride il che avrebbe dovuto far riflettere, almeno, sulla sua reale importanza … o su quella che dovrebbe avere).
C’è chi è arrivato a proibirlo, come Basilio di Cesarea2, lo stesso san Benedetto nella sua famosa Regola (Cap. IV: Gli strumenti delle buone opere; § 53: Non proferire parole vane o che provocano riso; e § 54: Non amare il riso smodato o scomposto), o il conte di Chesterfield, singolare statista britannico del Settecento, che nelle Lettere al figlio scriveva:
Non c’è nulla di così ridicolo, né che dimostri peggiore educazione, del ridere a crepapelle. Il vero talento e il buon senso non fanno mai ridere nessuno, perché sono superiori a questa dimostrazione; tuttavia, rallegrano l’animo e diffondono gioia sul volto. Ma esistono buffonerie volgari e sciocchi incidenti che suscitano sempre risate, ed è a questi che le persone sensate e ben educate devono mostrarsi superiori. [...] Basta un minimo di riflessione per contenere facilmente il riso; ma poiché generalmente lo si associa all’idea di allegria, non si presta abbastanza attenzione alla sua assurdità3.
E aggiungeva:
La plebe, che quasi sempre si diverte con sciocchezze, è la sola ad esprimere la propria allegria con fragorose risate, poiché dalla creazione del mondo a oggi, né il vero ingegno né il buon senso hanno mai suscitato risate. Così, un uomo di talento e di classe sorriderà spesso, ma di rado lo si udirà ridere a crepapelle4.
Approfitto per sottolineare che le parole di Lord Chesterfield sono più interessanti di quanto la sua tirata contro il riso possa sembrare. Infatti, nelle sue parole scopriamo echi della frase di Fo con cui iniziavamo questo scritto («Al potere non piace il riso»); allo stesso modo in cui anticipiamo molto di ciò che Michail Bachtin esplorerà nella sua opera monumentale La cultura popolare nel Medioevo e nel Rinascimento. Il contesto di François Rabelais (specie nella prima parte, dove analizza acutamente l’uso del riso popolare contro le classi dominanti); e, infine, potremmo quasi parafrasare Marx commentando il nobile inglese: «Nelle sue parole si osserva la lotta di classe». Torneremo su questo.
È chiaro: alla filosofia non piace il riso.
No. Il riso non è mai stato particolarmente ben visto negli ambienti filosofici, soprattutto nell’Antichità e nel Medioevo. Soltanto a partire dal Rinascimento l’interesse per esso inizierà ad aumentare gradualmente. L’opera celebre di Erasmo, Elogio della Pazzia, ne è un ottimo esempio, così come quella già citata di Joubert, pubblicata appena 60 anni dopo. Ma sarà a partire dal XIX secolo, e soprattutto nel corso del XX, che il riso comincerà a diventare oggetto di ricerca, sebbene non tanto negli ambiti filosofici (che hanno continuato a occuparsi di temi più seri, come l’ermeneutica, l’Essere, il Nulla o le proposizioni che rappresentano il mondo), quanto in altri campi di studio, principalmente la psicologia e la sociologia.
Tuttavia, questo fatto non smette di essere curioso. Specialmente se pensiamo a quanto il filosofo e l’umorista, il giullare, il comico abbiano in comune. Simon Critchley lo esprime perfettamente, con una punta di piacevole ironia:
La filosofia è un’occupazione strana, e alcuni filosofi sono persone strane. I filosofi ti chiedono di guardare il mondo in modo obliquo, di mettere in discussione le tue abitudini, i tuoi presupposti di base, i tuoi pregiudizi e le tue aspettative. Il filosofo ti invita a essere scettico su tutto ciò che dai per scontato, come la realtà delle cose nel mondo o se le persone intorno a te siano davvero umane o, in realtà, robot. In questo senso, il filosofo ha, credo, una somiglianza familiare con il comico, che allo stesso modo ci chiede di guardare il mondo con diffidenza, di immaginare un universo alla rovescia dove cavalli e cani parlano e oggetti inanimati diventano miracolosamente animati. Sia il filosofo che il comico ti chiedono di osservare il mondo da una prospettiva marziana, come se fossi appena atterrato su questo pianeta5.
In effetti, sia il filosofo che il comico (anche se qui preferiremmo dire “il giullare” o persino “il buffone”) rivolgono al mondo uno sguardo “diverso”; uno sguardo che cerca di mettere tutto in discussione, di dubitare di tutto; uno sguardo diffidente, sospettoso, che sembra chiaramente consapevole che il mondo non è come lo vediamo, come ci viene presentato, come appare … Il filosofo e il comico, in definitiva, ci mettono in guardia e capovolgono la realtà, cercando, in un certo senso, l’essenza autentica delle cose. La grande differenza (forse l’unica?) è che il filosofo prende sé stesso e il suo compito molto sul serio (forse troppo), mentre il comico non prende sul serio nemmeno sé stesso.
Lo stesso Aristotele, citando Gorgia, lo chiarì bene più di duemila anni fa:
Quanto al ricorso al riso, poiché esso sembra utile nelle controversie e Gorgia affermava, a ragione, che bisogna confutare la serietà degli avversari con il riso e il loro riso con la serietà , nella Poetica abbiamo detto quante siano le forme del comico, alcune delle quali sono adatte a un uomo libero, altre no: perciò si userà quella appropriata al proprio carattere6.
Se ci è permesso, quasi diremmo che il conte di Chesterfield non fa altro che parafrasare Aristotele (ma in peggio). Il riso, e questo si sa dalla notte dei tempi (se mi si passa un’immagine così banale), è un’arma di combattimento temibile.
Forse è per questo che al potere (e alla filosofia) non piace il riso.
E Jorge de Burgos verrebbe molto a proposito qui, dopo quella citazione di Aristotele. Nell’opera di Umberto Eco, il monaco cieco aveva capito perfettamente la forza che il riso porta dentro e per questo aveva trasformato in una trappola mortale la parte della Poetica in cui Aristotele parlava in termini ponderativi di esso. Sì, sì, proprio quella che abbiamo appena citato nel paragrafo precedente. Se mi si permette il facile paragone, Jorge de Burgos (che qui sarebbe il potere costituito) usa la sua posizione di potere per combattere il riso perché ne conosce la capacità distruttiva. E non è qualcosa che si possa lasciare nelle mani del popolo (o della plebe), affinché non si avveri ciò che appariva scritto su quel muro italiano: «Una risata vi seppellirà» che, nelle parole dello stesso Fo, era «un invito a togliere di mezzo, mediante il riso, una triste classe politica7. Il potere metterà sempre in atto ogni mezzo per esorcizzare (e sopprimere) tutto ciò che rappresenta una minaccia.
Risulta chiaro, definitivamente: al potere non piace il riso.
Ridiamo, dunque, del potere. Ma per farlo bisogna sapere cosa diavolo sia questo riso, da dove viene, in cosa consista, quali tipi ci siano, quale sia la sua origine evolutiva, come si scateni e, soprattutto, come si utilizzi. Propongo, dunque, in questo scritto, un approccio al riso da diverse prospettive, cercando di evitare che ci succeda come ai saggi ciechi della famosa parabola dell’elefante, che desiderosi di sapere com’era questo animale, si avvicinarono a uno per toccarlo. Il primo, emozionato, si avvicinò ma inciampò in un ramo e urtò contro il suo corpo, così concluse che un elefante era come un muro di fango seccato al sole. Il secondo, più cauto, stese le mani e toccò le zanne, affermando senza mezzi termini che un elefante era come una lancia. Il terzo si avvicinò di più, e l’elefante, curioso, gli avvolse la proboscide attorno alla vita. Il cieco la afferrò e, dopo averla palpata, non esitò a definire l’elefante come un lungo e rugoso serpente. Il quarto si avvicinò da dietro e ricevette un colpo dalla coda. La afferrò con rara abilità, la palpò con cura e disse soddisfatto che un elefante era come una vecchia corda. Il quinto incontrò uno degli orecchi dell’animale e, quasi sorpreso, comunicò agli altri che l’elefante era piuttosto come un grande ventaglio. Infine, il sesto saggio incontrò una delle zampe e, afferrandola con le braccia, indicò agli altri che si sbagliavano:
un elefante era come il tronco di una grande palma. Confido che, alla fine di questo lavoro, la mia impressione sul riso sia molto diversa da quella di questi poveri ciechi ... principalmente perché, dopo esserci avvicinati al riso, dovremo vedercela con la Filosofia e, se ci fossero le forze, con il potere.
1 J. Cortázar, Fine del mondo fine, tratto dalle sue Storie di cronopios e di famas, Einaudi, Torino [1971] 2014). In esso, il mondo soccombe alla smisurata produzione di libri e scritti: invadono i mari, trasformano le navi in isole, e lì i presidenti si rifugiano per organizzare feste e inviarsi «messaggi da isola a isola, da presidente a presidente, e da capitano a capitano».
2 Come riportato nelle note del curatore all’opera di Laurent Joubert, Trattato sul riso (1578), rieditato da Carocci, Roma 2001: «Verso la metà del IV secolo, Basilio di Cesarea affermava: “È assolutamente vietato ridere, in qualsiasi circostanza”».
3 Ph. D. Stanhope , IV conte di Chesterfield, L’arte della buona educazione. Lettere al figlio, Rizzoli, Milano 2010, pp. 112, 113.
4 Ibidem, p. 114.
5 S. Critchley, Did You Hear The One About The Philosopher Writing A Book On Humour?, «The Richmond Journal of Philosophy», Cambridge University Press, 2002.
6 Aristotele, Retorica, 1419 b.
7 D. Fo - G. Manin, Il mondo secondo Fo, Ugo Guanda Ed., Parma 2008, pp. 81-82.
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