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Premessa
Sempre più numerosi sono i segni allarmanti del tentativo di importare nella didattica universitaria in Italia le idee, gli slogan e le pratiche del moderno pedagogismo, nella versione che domina ormai la disciplina, nota anche come pedagogia progressiva (ai tempi di Gramsci, che mise in guardia dal suo inganno, prevedendo che avrebbe portato da una società divisa in classi a una divisa in caste, era chiamata didattica attiva). Il tentativo desta allarme perché, se riuscisse, gli esiti dell’ingresso nelle aule universitarie del moderno pedagogismo sarebbero esiziali per la salvaguardia del residuo di funzionalità che ancora vi si conserva, proprio come esso è stato funesto per la funzionalità della scuola primaria e secondaria negli Stati Uniti, e ovunque sia stato introdotto, Italia inclusa.
In queste pagine descriveremo le idee fondanti, gli slogan, e le pratiche del moderno pedagogismo, per saperlo ravvisare nei segni, che saranno anche indicati, che preludono alla sua introduzione nell’insegnamento universitario, nella speranza che, riconoscendolo, se ne possa scongiurare l’ingresso.
Ma intanto dedisero lasciare la parola a Gregorio e a Fernanda Mazzoli.
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Introduzione
Il cavallo morto
di Gregorio Luri
«I bambini vogliono che gli insegnanti siano gli adulti nella stanza».
Pamela Snow
Convinzioni di lusso
Il 18 luglio del 2025 ho pubblicato in un diario catalano un articolo dal titolo Il Cavallo morto, dove difendevo ciò che può sembrare ovvio, e che però è imprescindibile difendere nel mondo educativo: ove si voglia cavalcare un cavallo morto siamo condannati al fallimento se insistiamo nel cambiare la sella. Sebbene l’unica cosa sensata da fare sia cambiare cavallo, le nostre discussioni educative si concentreranno molto probabilmente su come fornire al cavallo morto ferri di cavallo più innovativi.
I nostri responsabili dell’istruzione sembrano più interessati a camuffare la mediocrità che a promuovere aspettative elevate, per paura di creare lamentele nel fare paragoni. Sono preda di una ideologia pedagogica che fa credere loro che se qualcosa è bello o innovativo è inevitabilmente valido e che se abbiamo buone intenzioni i fatti seguiranno docilmente.
Possiamo essere sicuri che l’efficienza dei nostri insegnanti, dopo tanti corsi, riforme e normative, sia oggi superiore a quella di 25 anni or sono? Sembra invece che le mode e il politicamente corretto abbiamo molto più peso nella loro formazione che la conoscenza rigorosa della loro professione.
Non importa se disponiamo di un numero sempre crescente di studi che mostrano che l’insegnamento esplicito è il più efficiente ed equo. Molto tempo fa abbiamo deciso che il professore di cui abbiamo bisogno per affrontare le sfide del futuro si deve limitare ad accompagnare il discente mentre costruisce autonomamente le proprie conoscenze. In nessun modo deve essere un professore che trasmette conoscenze, perché tutto quello che c’è da sapere si trova già in rete.
L’insegnamento esplicito è semplice: Il professore che deve rendere comprensibile un concetto nuovo lo decompone nei suoi elementi costitutivi per condurre gli alunni, passo dopo passo, da ciò che è noto (le conoscenze già acquisite) a ciò che è ignoto (le nuove conoscenze), soppesando a ogni passo il carico cognitivo adeguato (la difficoltà auspicabile) per ciascun discente. Ma il mondo educativo è una enclave romantica sedotta da miti popolari sulla facilità dell’apprendimento. Ci sono ancora scuole che credono che imparare a leggere e a scrivere, come imparare a parlare, sia un processo naturale che il bambino, prima o poi, acquisirà da solo. Questo è, puramente e semplicemente, pensiero magico.
Agli insegnanti viene ricordato senza sosta che ogni discente impara in modo diverso e che, di conseguenza, è necessario prestare attenzione al suo specifico stile di apprendimento; tuttavia, i modelli cognitivi di base sono molto simili nella stragrande maggioranza delle persone. Le somiglianze sono molto più grandi delle differenze.
Abbiamo elevato a dogma pedagogico l’ipotesi che la motivazione sia il motore dell’apprendimento, ignorando che la motivazione più grande si trova proprio nell’apprendimento riuscito. Diffidiamo della conoscenza fattuale e, in generale, dell’alfabetizzazione disciplinare, mentre crediamo ingenuamente nelle competenze generali, come se si potesse essere competenti in uno sport senza saper praticare uno sport specifico. Abbiamo santificato la spontaneità e denigrato la memoria. Sosteniamo il pensiero critico, ma in pratica merita questo aggettivo solo ciò che coincide con il nostro pensiero. Rifiutiamo gli esami con l’argomentazione angelica che nessuno studente è un numero, ma non applichiamo questo ragionamento quando prendiamo il termometro per controllare se abbiamo la febbre. I compiti sono percepiti come lavoro forzato, ma i bambini che sono già ricchi culturalmente non smettono mai di ampliare le loro conoscenze, poiché è loro sufficiente assimilare una lingua a loro già familiare.
Rob Henderson ha definito «convinzioni di lusso» quelle che i ricchi possono permettersi, ma che hanno un prezzo molto alto per i poveri.
Qualche giorno dopo
Tre giorni dopo ho ricevuto un messaggio di posta elettronica da una persona a me sconosciuta che iniziava così: «Pregiatissimo professor Luri, ho letto con molto interesse il Suo articolo che mostra che i guasti provocati dal pedagogismo sono gli stessi in tutti i paesi. Sono un matematico e di recente ho tradotto in italiano, in collaborazione con Paolo Di Remigio, il libro di E.D. Hirsch, Jr. dal titolo The Schools We Need and Why We Don’t Have Them».
Il messaggio era firmato da Fausto Di Biase, del Dipartimento di Economia della Università degli Studi “G. d’Annunzio”.
Il libro di Hirsch a cui si riferiva è stato pubblicato in spagnolo nel 2012 con una prefazione del mio ammirato Francisco López Rupérez, e lo considero, pieno di sottolineature e note a margine, uno dei libri più rilevanti dal punto di vista pedagogico del primo quarto del XXI secolo. Pochi giorni dopo ricevetti a casa la traduzione italiana: Le scuole di cui abbiamo bisogno e perché non le abbiamo.
Nella presentazione del libro, Di Biase e Di Remigio hanno colto nel segno riguardo all’attuale situazione pedagogica:
Le incaute riforme scolastiche che hanno traviato la scuola europea e quella italiana si ispirano a modelli statunitensi. Di qui l’urgenza di studiarli accuratamente. Indispensabile a tale scopo è questo libro di E.D. Hirsch, Jr., che documenta lo sfacelo della scuola americana e lo spiega con il potere che vi esercita la pedagogia progressista. Sensibile al naturalismo romantico e a una concezione formalistica delle abilità, questa pedagogia soggiace ai tabù rousseauiani sulla scrittura e sulla trasmissione delle conoscenze teoriche, impedisce dunque alla scuola di insegnarle in modo diretto e la riduce a un ambiente di apprendimento, nel quale gli alunni acquisirebbero le abilità formali per evoluzione interna risvegliata dalle attività spontanee. Di fatto essi sono abbandonati all’ignoranza. Poiché la mancanza di istruzione colpisce con più forza i figli delle famiglie svantaggiate, la scuola che rinuncia alla conoscenza per il timore ugualitario di differenziare gli alunni, non solo, come capì Gramsci, esaspera il divario di classe, ma fa mancare la cultura comune necessaria alla mediazione dei contrasti politici, così che la società perde la capacità di dialogo e si disgrega.
Qualche giorno dopo Di Biase mi scrisse di nuovo per dirmi che stava traducendo uno dei miei libri in italiano. È molto confortante vedere che non siamo soli nel difendere il valore della conoscenza e della cultura comune e, soprattutto, che non ci sottrarremo alla nostra responsabilità morale per l’educazione rigorosa delle nuove generazioni, soprattutto delle più umili.
Da questo scambio iniziale di messaggi, il nostro rapporto è cresciuto e ora prende forma esplicita in questo libro. Allo stesso tempo abbiamo ampliato la cerchia delle nostre relazioni, includendo anche persone importanti come Nuno Crato.
Fausto Di Biase mi ha invitato anche a un congresso pedagogico a Vicenza, al quale per vari motivi non ho potuto partecipare, ma volendo essere presente ho optato per un formato virtuale e ho inviato un video in cui dicevo quanto segue:
Vi saluto dalla Spagna, sperando di costruire ponti tra coloro che credono fermamente che il modo migliore per seguire il mandato socratico di prendersi cura della propria anima sia quello di fornirle esperienze di conoscenza rigorosa, ordine e bellezza. Come disse Calderón de la Barca, “Chi si danna di sapere assassino è di se stesso”. Sono sempre più convinto che abbiamo il dovere morale di chiarire le nostre idee e di dare parole al mondo, e che questo dovere è una missione morale.
Lasciatemi raccontarvi una breve storia.
C’era una volta un ragazzo sognatore che frequentava una lezione di matematica. All’improvviso un cardellino atterrò sul davanzale della finestra alla sua destra e cominciò a cantare. L’insegnante, impassibile, continuò a riempire la lavagna di numeri e lettere, sordo alla bellezza dei trilli dell’uccellino. Il ragazzo, tuttavia, si commosse. Come si potrebbe non prestare più attenzione al cardellino che al professore che continuava con la fredda aridità delle sue equazioni? Il cuore del ragazzo, che scorreva oltre il banco, lasciò l’aula e si posò accanto all’uccellino, sintonizzando il suo battito cardiaco sul suo canto. Per qualche minuto fu intensamente felice. La sua attenzione era rivolta al davanzale della finestra, dalla parte della vita, non alla lavagna, dove c’erano solo lettere e numeri da imparare a memoria per poi riproporli in un esame.
Da questa storia si possono trarre alcune conclusioni interessanti sulla nostra situazione pedagogica:
1. Ci sono pedagoghi modernissimi che non solo sono insensibili alla bellezza della matematica, ma non hanno vergogna ad ammetterlo. Non sono turbati dalla loro ignoranza matematica.
2. Poiché la loro sensibilità matematica è limitata, non capiscono che esistono insegnanti di matematica capaci di mostrare la bellezza della loro materia e di entrare in sintonia con la sensibilità matematica dei loro studenti.
3. Sembrano credere che, come dice Homer Simpson, se qualcosa è difficile, non vale la pena farla.
4. È facile che non comprendano lo sforzo compiuto da Mozart per incorporare il canto di un cardellino che aveva sentito per caso in un mercato nel terzo movimento di uno dei suoi concerti per pianoforte. E cos’è la musica se non matematica in movimento?
5. Credono che sia più educativo ascoltare il canto di un pettirosso che le spiegazioni di un insegnante, senza accettare che c’è un tempo per ogni cosa e che le persone educate sanno quando guardare fuori dalla finestra e quando guardare la lavagna.
6. Non temono che il bambino non superi il prossimo esame di matematica senza aver superato quello di ornitologia. Non sembrano apprezzare l’importanza dell’autodisciplina e del controllo dell’attenzione.
8. Non sanno che nella società del capitalismo cognitivo la conoscenza è il petrolio del futuro.
9. Tendono a credere che imparare sia facile perché, si dice, tutti i bambini pongono domande e sono potenziali filosofi e scienziati. La verità è che, se si tratta di imparare qualcosa, lo si può fare come si vuole, mentre se si tratta di acquisire conoscenze rilevanti e sistematiche, bisogna impegnarsi. La conoscenza non si organizza da sola.
Pensare a cose banali è facile, ma pensare in modo rigoroso è difficile. Il pensiero rigoroso, a differenza della semplice opinione, è il frutto di uno sforzo costante e di un contatto frequente con persone che ragionano bene. Nel corso della storia, milioni di persone hanno visto cadere delle mele dagli alberi, ma per vedere nella loro caduta, come fece Newton, i contorni di una legge scientifica, è necessario avere un occhio scientificamente allenato.
Abbiamo tutti visto bambini giocare con la palla, ma solo Nicola Cusano trovò nei bambini che giocavano in una piazza di Orvieto, nel 1463, l’ispirazione per scrivere De Ludo Globi.
Ricordo spesso le parole di Alessandro Baricco alla Leopolda di Firenze nel 2011: «Dove abbiamo sbagliato?». La volontà di impegnarsi in difesa degli svantaggiati è un ottimo punto di partenza, ma gli svantaggiati non si difendono alimentando la mediocrità o la paura del rischio.
Non possiamo accettare a braccia conserte che la differenza tra eccellenza e mediocrità si stia assottigliando, che la legittima aspirazione alle pari opportunità si stia confondendo con l’appiattimento culturale, che la conoscenza sia diventata un termine scomodo per la pedagogia egemonica.
Abbiamo abbandonato, senza discussione, termini così centrali nella tradizione pedagogica europea come quelli di volontà, abitudine, talento, virtù, sforzo, eccellenza, merito, responsabilità, ambizione, emulazione, trasmissione, condotta esemplare, doveri, disciplina, memoria, verità, silenzio, costanza, calligrafia, calcolo mentale, pazienza, gratitudine, serenità, erudizione, enciclopedia, eloquenza, retorica, prosodia, rispetto, sobrietà, maniere, carattere, eccetera.
Il filosofo neoplatonico Proclo racconta che quando Euclide presentò i suoi Elementi a Tolomeo I, che rappresenta no una delle grandi costruzioni intellettuali dell’umanità, il re d’Egitto gli chiese se non ci fosse un modo più semplice per imparare la geometria rispetto a quel percorso accidentato. Euclide rispose: «Non c’è un cammino reale per la geometria». Considerate questo: un uomo saggio di umili origini dice al successore dei faraoni egizi che «se vuole imparare la geometria, deve seguire lo stesso arduo cammino degli altri mortali«. Ma proprio per questo motivo la geometria è alla nostra portata, alla portata di noi, gente del popolo.
Oggi più di un pedagogo ci assicura che è preferibile che un bambino sia più sensibile al canto di un cardellino che agli Elementi di Euclide, perché gli Elementi hanno poco valore competenziale per uno scolaro. Bisognerebbe raccontare a questi pedagoghi, con calma, la reazione di Euclide quando uno dei suoi studenti gli chiese:
A che mi serve sapere questo?
Euclide chiamò uno schiavo e gli disse:
Dategli mezza dracma, perché ha bisogno di trarre un profitto materiale da tutto ciò che impara.
Proprio perché la geometria è una forma di conoscenza non soggetta ad alcuna necessità esterna, ci fornisce esperienze pure di ordine e rigore. E questo, come sapeva Platone, è il modo migliore per prendersi cura della nostra anima.
Se vogliamo offrire opportunità ai poveri, forniamo loro una buona educazione matematica con i mezzi più accessibili possibili, ma senza abbassarne gli standard o il rigore. Evitiamo di progettare programmi di studio scadenti per i poveri. Gli Elementi non sono facili. Ma c’è qualcosa di veramente grande che ci viene dato senza sforzo?
Quando, guidati da convinzioni di lusso, offriamo agli studenti poveri un programma di studi che tiene conto di ciò che è loro familiare o interessante, anziché di ciò che è impegnativo, li stiamo condannando alla povertà. Non dobbiamo essere condiscendenti verso l’ignoranza. Se non ci sono libri in casa, bisognerà riempire le scuole di libri e se il vocabolario familiare è molto limitato, le aule dovranno essere riempite di parole, perché più povera è la nostra lingua, più povero è il nostro pensiero. Non possiamo formulare ipotesi senza padroneggiare il condizionale. Bisogna sforzarsi di scrivere bene proprio perché è difficile e perché eliminare le sfumature della nostra lingua equivale a condannarsi a essere stranieri nella propria lingua.
Dobbiamo aprire le finestre delle scuole verso orizzonti che trascendano gli ambienti familiari. La scuola non dovrebbe essere un’estensione della casa familiare, ma il luogo in cui troviamo ciò che ci manca a casa. La sua missione è quella di aiutarci a trascendere gli orizzonti del nostro mondo familiare per facilitare le nostre interazioni con gli altri in contesti culturali progressivamente più ampi e sofisticati, senza vergognarci di noi stessi per la nostra mancanza di risorse. La scuola non ha lo scopo di tenerci legati a ciò che è familiare, ma di aprire strade per esplorare l’ignoto. Se non incoraggiamo i bambini poveri ad andare oltre i loro soliti orizzonti, chi lo farà?
Comprendere è rivoluzionario
Nell’undicesima tesi su Feuerbach, Karl Marx afferma con enfasi che i filosofi, fino a lui, non avevano fatto altro che interpretare il mondo, quando l’urgenza era cambiarlo. Ma se nel corso della storia tanti grandi pensatori hanno dedicato sforzi titanici all’interpretazione del mondo, senza riuscirci pienamente, la conclusione che sembra logica è che il mondo non è facilmente comprensibile e il tentativo di cambiare ciò che non è stato compreso non è esente da gravi rischi.
È molto probabile che il mondo, nel suo insieme, sfugga alla nostra comprensione e che possiamo coglierne intellettualmente solo dei frammenti. Tuttavia, è sempre allettante confondere la nostra immagine del mondo con la realtà. Ciò è particolarmente importante oggi, perché il mondo è pieno di teorici del collasso che predicano imminenti tragedie collettive e di profeti di sventura che ci avvertono che dietro ogni innovazione potrebbe nascondersi una potenziale catastrofe.
Sebbene il sociologo tedesco Ulrich Beck ci abbia avvertito che siamo come crisalidi nel bozzolo della storia e che non abbiamo l’esperienza necessaria per interpretare i nostri disagi, ci sono molti intellettuali convinti di aver capito il mondo e di avere quindi il diritto di trattare il resto di noi con una certa condiscendenza. Se qualcuno dice loro che sta bene, invece di crederci e gioire con loro, cercano di convincerli che in realtà non stanno bene e che la loro consapevolezza del benessere è una coscienza alienata che ha bisogno di un intellettuale critico per risvegliarla alla realtà. Sono stati molti gli intellettuali, da Marx a Bourdieu, che si sono sforzati di essere i maestri della società e hanno visto nella scuola il principale strumento ideologico per realizzare il loro ideale, ritenendosi autorizzati a spingerci verso di esso con le buone o con le cattive. Per raggiungere questo obiettivo, niente è più utile che convincere i giovani che la società ci deve sempre qualcosa o, se preferite, che la società è un albergo in cui tutti abbiamo il diritto di essere ben serviti perché, in fin dei conti, il cittadino è un cliente. Ma in questo modo si costruisce solo una concezione clientelare di una cittadinanza educata al continuo trasferimento di responsabilità. È stato Andreas Schleicher, la forza trainante del PISA, a dichiarare, in alcune dichiarazioni al Financial Times (5-12-2023), che «nei paesi ricchi, gli studenti sono diventati consumatori e gli insegnanti sono diventati fornitori di servizi».
Una grande pedagoga americana, Diane Ravitch, ha sostenuto nel suo fondamentale libro Left Back: A Century of Battles Over School Reform che, mentre la sinistra si presenta spesso come un alleato naturale della cultura, il progressismo educativo negli Stati Uniti, dall’inizio del XX secolo, è stato caratterizzato dai seguenti aspetti:
1. Deciso rifiuto di ciò che è accademico, denigrato come accademismo.
2. I grandi nemici del progressismo pedagogico sono stati il libro di testo, l’insegnante come trasmettitore, la cattedra, la pedana, la disciplina, i compiti e, soprattutto, la memoria.
3. Gli studenti imparano in modi diversi. Una scuola che offre lo stesso programma a tutti gli studenti è antidemocratica e aristocratica.
4. La scuola dovrebbe riflettere la vita reale. Le barriere che separano la scuola dalla società devono essere eliminate.
5. Le materie non dovrebbero essere al centro delle attività scolastiche, ma piuttosto gli interessi del bambino. L’educazione dovrebbe essere intesa come una continua ricostruzione dell’esperienza. Comprendere qualcosa significa applicarla alla vita reale. La scuola dovrebbe concentrarsi sui problemi e sui processi, non sulle materie accademiche.
Mentre negli Stati Uniti trionfava l’istruzione progressista, la Francia stava costruendo il suo sistema scolastico repubblicano basato su principi opposti. Per i suoi creatori, la scuola doveva essere un rifugio dove il mondo non aveva posto, in modo che i bambini potessero essere trattati esclusivamente in base alle loro capacità, senza riguardo per il loro retroterra. Il curriculum comune per tutti i bambini francesi era un impegno per una cultura condivisa.
Ho in mio possesso il quaderno di scuola di un ragazzo francese di undici anni, risalente all’anno scolastico 1959-1960. La prima pagina è intitolata alla seguente dichiarazione di principi: «La scuola sviluppa la nostra intelligenza, plasma la nostra coscienza e il nostro carattere e ci rende uomini buoni». All’interno, trovo alcune perle che non posso resistere a trascrivere:
«Lavoro, impegno, disciplina. Queste sono le virtù del bravo studente».
«Ogni giorno devi sforzarti di essere un po’ meglio del giorno prima. Coraggio».
«La scuola è una seconda famiglia e gli scolari dovrebbero essere come fratelli e sorelle».
«Vai dove vuoi, lì troverai la tua coscienza».
«Le buone azioni non sempre vengono ricompensate. Dobbiamo fare il bene per il bene in sé, non per la ricompensa».
«Tutto nella vita è soggetto a doveri. Essere fedeli a essi: qui sta l’onore. Mancar loro di rispetto: qui sta la vergogna».
«È un dovere comune superare la paura e imparare il coraggio».
Ma il modello che alla fine ha trionfato in Europa, soprattutto a partire dal 1968, è stato quello americano. Oggi le cose sono cambiate così tanto che ciò che si chiede alla scuola è soprattutto preservare il benessere del bambino e garantirne la stabilità socio-emotiva. Ma affinché entrambe queste cose siano possibili, la scuola stessa deve essere considerata spontaneamente preziosa. Non è così che la percepiamo. Il nostro sconcerto è così grande che la sottoponiamo a ogni genere di critica. Tutto ciò che la riguarda è oggetto di costante discussione: obiettivi, metodi, valutazioni, ecc. Ma non possiamo cercare di svalutare la scuola e rafforzare il senso di appartenenza del bambino alla propria scuola.
All’inizio dell’anno scolastico, un insegnante delle superiori mi ha inviato un messaggio di posta elettronica in cui diceva quanto segue:
Puoi trascorrere l’estate leggendo articoli sulla tua specializzazione, approfondendo le ultime ricerche nel tuo campo, organizzandone i contenuti, selezionando letture pertinenti al programma […]. E poi arriva il consulente scolastico e il gioco è fatto.
Si riferiva alle istruzioni che la direzione scolastica aveva dato agli insegnanti all’inizio del corso. L’obiettivo principale del nuovo corso era far sentire gli studenti bene accolti, con la consapevolezza che per “accogliere” ciò che conta non è ciò che viene insegnato, ma il tipo di persona che bisogna essere per poter insegnare: bisogna accogliere gli studenti con gioia, farli sentire a loro agio, fargli capire che sono persone importanti; offrir loro un sostegno sincero e stimolante, mantenere un atteggiamento amorevole e aperto e, infine, mettersi nei loro panni.
Questo è un buon esempio della crescente psicologizzazione emotivistica dell’istruzione a tutti i livelli. La marmellata sentimentale macchia tutto. La psicologizzazione dell’educazione è il male di cui si crede cura.
Péguy difese il ruolo dell’insegnante con queste parole veementi: «Egli è il rappresentante unico e inestimabile dei poeti e degli artisti, dei filosofi e di tutti gli uomini che hanno fatto l’umanità e la sostengono». Il nobile impegno che ha assunto è quello di «garantire la rappresentanza della cultura». Quanti insegnanti si vedono in questo modo oggi?
Cosa bisogna capire
Abbiamo perso la fiducia nella scuola? No, assolutamente no; ma abbiamo perso la fiducia nella scuola. Quella determinazione con cui i nostri nonni andavano a scuola, convinti che ciò offrisse loro possibilità di progresso intellettuale, sociale, economico e morale… si è raffreddata, e sebbene tutte le statistiche ci dicano che la disoccupazione colpisce soprattutto la popolazione senza titoli accademici, si parla all’infinito di «ossessione per la laurea» e non c’è ambiente scolastico che non sia soggetto a critiche. Non ci soffermeremo a dare risalto agli scontenti, ma è essenziale essere consapevoli della realtà che dobbiamo affrontare.
A mio avviso, ciò che la realtà educativa ci chiede è di trasformare i problemi in sfide e di rispondere ad esse con il massimo rigore possibile.
In primo luogo, l’insoddisfazione degli insegnanti
L’UNESCO ha recentemente lanciato l’allarme: la professione docente sta attraversando una «crisi senza precedenti», con un tasso di abbandono scolastico in aumento dal 4,6% del 2015 al 9% del 2022. E continua a crescere.
Diciamocelo, oggi è difficile convincere un matematico che sarà più felice insegnando matematica alle scuole superiori che lavorando in un’azienda privata. Dobbiamo anche riconoscere che una persona dotata anche di un minimo di senso del ridicolo soffrirebbe terribilmente in questi corsi di formazione per insegnanti che sembrano progettati dai nemici del mondo degli adulti: «Abitare il nostro corpo con amore», «Orientare le sussistenze», «Costellazioni familiari», «Corso elementare di consapevolezza e autocompassione», ecc.
Qualche anno fa ho chiesto a un politico di Singapore qual era la chiave del successo del suo Paese nel PISA: «È molto semplice», rispose, «tutti sanno perché fanno quello che fanno». Non è il nostro caso. Molti insegnanti sono disorientati e non hanno ben compreso lo scopo di gran parte del loro lavoro. L’unica cosa chiara è l’onere burocratico. Difficile non essere disorientati se hanno bisogno di essere interpreti di dottorato per comprendere, ad esempio, la competenza specifica numero 10 della materia matematica delle scuole superiori: «Sviluppare competenze sociali riconoscendo e rispettando le emozioni e le esperienze degli altri, partecipando attivamente e in modo riflessivo a progetti in squadre eterogenee con ruoli assegnati, per costruire un’identità positiva come studente di matematica, promuovere il benessere personale e di gruppo e creare relazioni sane».
Sta diventando sempre più difficile trovare sostituti, soprattutto in matematica, e poiché dobbiamo ricoprire le posizioni, non possiamo essere troppo esigenti nel processo di assunzione.
Famiglie e istruzione nell’ombra
Le famiglie che se lo possono permettere dedicano ogni anno sempre più risorse finanziarie al completamento dell’istruzione scolastica dei propri figli, perché vedono che ottengono voti sempre più alti che non sembrano corrispondere alle loro mediocri conoscenze. Nelle lingue straniere e nella matematica la domanda è alta. Ma se è necessario pagare a parte la istruzione di qualità che la scuola non riesce più a dare, l’equità è promessa da marinaio.
Nelle librerie, una delle sezioni in più rapida crescita è quella dedicata alla genitorialità. Vedo qui un monumento all’insicurezza dei genitori. In risposta alla loro preoccupazione, potrebbero supporre che in una famiglia, come nella società, affinché le cose funzionino, qualcuno debba rassegnarsi a comportarsi da adulto, ma molte famiglie del la classe media hanno deciso che i loro figli devono essere felici a qualsiasi costo e li proteggono in modo abusivo, impedendo loro di entrare in contatto diretto con il mondo così com’è. L’iperprotezione è diventata la forma più sofisticata di abuso.
Deriva terapéutica
La scuola rischia di trasformarsi in un’istituzione terapeutica. Quel venerabile motto della scuola repubblicana francese: «Trasformare il figlio in cittadino», è stato dimenticato. Oggi la priorità è il benessere emotivo dello studente, visto più come un paziente che come un agente responsabile. Il vocabolario psicologico sta sostituendo il vocabolario accademico. Il ragazzo cattivo non è più cattivo, ma soffre di un disturbo non specificato. Abbiamo eliminato l’Huckleberry Finn di Mark Twain.
Nell’attuale dibattito su schermi e infanzia, non vedo formulata la domanda essenziale: A quale esigenza gli schermi sono una risposta? La mia tesi è che siano una risposta alla noia causata dall’assenza di aspettative di gioco reale, intenso, vitale e rischioso. Gli schermi ci distraggono dalle micro-noie quotidiane. Se sono diventati protagonisti delle nostre vite è perché in precedenza le avevamo svuotate soprattutto nel caso dei bambini di esperienze dirette, emozionanti, in prima persona, di contatti avventurosi con il mondo reale. Si potrebbe sostenere che la loro vittoria sia triste, ma in un’epoca in cui l’attesa è bandita, tutto ciò che diverte è prezioso.
Non dovrebbe esserci niente di più normale di un bambino pieno di energia, esploratore, curioso, desideroso di superare costantemente se stesso, che prova un’attrazione irresistibile per il mondo e per il rischio. In definitiva, i bambini dovrebbero essere al sicuro quanto necessario, ma non il più possibile. Il nostro obiettivo dovrebbe essere quello di rafforzare la loro capacità di assumersi rischi proprio perché il rischio, nella vita, è reale. L’iperprotezione è una forma di maltrattamento, perché non considera i bambini degni di scoprire il mondo (in un processo di progressiva autonomia).
Sottolineo l’importanza del gioco libero e rischioso perché dimostra chiaramente il valore delle sfide desiderabili e la differenza tra una lode meritata e un premio di consolazione. Per essere efficace, la lode deve essere sincera, specifica e meritata. Non tutto ciò che fa male è espressione di un trauma psicologico. La frustrazione che tutti proviamo di tanto in tanto dimostra semplicemente che siamo vivi.
Dobbiamo resistere al predominio del discorso terapeutico che vede i bambini come fragili, feriti e bisognosi di cure e protezione. Non tutte le difficoltà sono dannose, non tutte le confusioni sono intrinsecamente negative e non tutte le frustrazioni lasciano una ferita indelebile su un bambino. Non è saggio proteggere i bambini dalle incertezze della complessità quando dovremmo insegnare loro come gestirla. Ciononostante, l’idea che il benessere emotivo, l’alfabetizzazione emotiva o la competenza emotiva siano gli obiettivi più importanti del sistema educativo sta guadagnando terreno. Ho il sospetto e lo dico senza mezzi termini che l’educazione emotiva spesso funzioni proprio come la malattia che pretende di curare. Continuiamo ad aprire finestre sul mondo interiore del bambino, quando ciò di cui probabilmente ha più bisogno è molta più attività fisica, molto più gioco libero e avventuroso, molti più amici, molte più avventure, andare a letto molto più stanco fisicamente, non solo psicologicamente esausto, con gli occhi rossi per l’eccessivo tempo trascorso davanti allo schermo. Non dubito delle buone intenzioni degli educatori socio-emotivi. Dubito che quello che potremmo chiama re il “curriculum del sé” (il personale e l’immediatamente rilevante) sia più utile per lo sviluppo di una persona di un buon curriculum accademico (impersonale, formale e astratto) e di un’attenta attenzione al sonno e all’attività fisica. La formazione accademica può fornirci esperienze di ordine, rigore e bellezza che rappresentano un modo efficace per prenderci cura di noi stessi.
L’educazione terapeutica non libera i giovani dai problemi quotidiani, banali o gravi che siano, ma li immerge in un curriculum introspettivo, trasformando la scuola nella passerella dell’ultima moda politica.
Non dobbiamo patologizzare la normalità, con le sue sfumature emotive, le sue emozioni intense, i suoi sentimenti di tristezza e di gioia, i suoi stati d’animo che vengono a trovarci quando vogliono... Non dobbiamo dimenticare, soprattutto, che ciò che è importante, ciò che dovrebbe guidare l’educazione emotiva in ogni caso, è il tipo di persona che vogliamo essere, e per questo abbiamo bisogno di regolatori non emotivi delle emozioni.
La difesa della cultura comune
Per cultura comune intendo una storia condivisa, un vocabolario comprensibile a tutti, un corpus di conoscenze accessibile, riferimenti culturali; una certa intuizione collettiva basata su reazioni spontanee a esperienze condivise (Michael Tomasello parla di «intenzionalità condivisa»); un senso di appartenenza; una vocazione a trasmettere il meglio del nostro patrimonio alle nuove generazioni... In definitiva, la cultura condivisa è ciò che permette a una società che ha fatto del pluralismo un valore costituzionale supremo di rimanere unita nella sua ricca diversità.
Ma oggi sta perdendo terreno nelle scuole perché è erosa sia dalla crescente psicologizzazione degli studenti sia dall’indebolimento della memoria collettiva sotto l’assurda idea che tutto sia su internet. Tuttavia, sembra ovvio che le scuole abbiano il dovere di restituire alla società, sotto forma di capitale culturale, le enormi quantità di risorse che ne ricevono. Non è il governo a mantenere le scuole, ma le tasse dei cittadini che lavorano sodo.
Certamente, la cultura comune non è statica. Si evolve a ritmi diversi (si pensi ai vocabolari delle diverse generazioni), ma proprio per questo educare al senso civico rende possibile il motto «e pluribus unum», unità nella diversità.
Si dice spesso che viviamo nella società dell’informazione. Io preferisco parlare di capitalismo cognitivo, che è il capitalismo realmente esistente. Il capitalismo si è trasformato da materiale a cognitivo, e la creazione di valore si è spostata dai muscoli al cervello. La conoscenza è il petrolio del futuro.
Ma con il progredire di questa mutazione, è emersa una élite cognitiva sempre più potente, con la tendenza a isolarsi.
Il modo per impedire che si solidifichi in una casta sociale è rafforzare e valorizzare la cultura condivisa, che è ciò che consente una comunicazione efficiente tra esperti in diversi campi e tra questi esperti e i profani. La cultura condivisa è come la lingua franca di una comunità.
Nuove tecnologie
Le tecnologie erano, essenzialmente, protesi antropologiche che amplificano ciò che siamo; ad esempio, hanno amplificato la nostra capacità visiva attraverso occhiali, telescopi e microscopi. Ma oggi, ciò che caratterizza la tecnologia non è tanto la sua dimensione protesica, quanto la velocità vertiginosa con cui amplifica ciò che siamo in direzioni inaspettate solo cinque anni fa.
L’effetto paradossale è che ciò che è buono è poco commerciabile perché perdura e ci rende incapaci di abbracciare ciò che è possibile.
Siamo esseri che consumano rapidamente il loro presente. Lo facciamo con tale voracità che il presente autentico è ormai potenzialità.
Eppure ... non siamo felici. Ovunque guardiamo troviamo evidenti progressi parziali (pensiamo alla medicina, alla farmacia, alla fisica, all’ingegneria ...), ma la loro somma non equivale al Progresso con la P maiuscola, al progresso ottimistico. La novità è diventata malinconica e siamo perseguitati dal sospetto che dietro ogni innovazione possa nascondersi una catastrofe. Le nostre innovazioni ci trascinano verso il futuro con una tale velocità che non abbiamo il tempo di abituare il nostro sguardo a ciò che ci aspetta.
Le ripercussioni di questa situazione nelle scuole sono significative. Le grandi aziende tecnologiche vedono il futuro con il colore dei loro piani strategici, il che è comprensibile, poiché sono responsabili nei confronti dei loro azionisti. Ciò che è meno comprensibile è che la pedagogia adotti queste visioni come interpretazioni oggettive del futuro. È facile vedere che queste stesse grandi aziende sono quelle che insistono sul fatto che, ad esempio, la memorizzazione ha perso la sua rilevanza pedagogica poiché tutto è su Internet.
A mio avviso, è proprio questa la tragedia: su Internet c’è tutto: il bene e il male, la verità e le bugie, il sublime e il ridicolo, la biologia e la pornografia, l’amicizia e l’abuso, l’ingenuità e la perversione ... Possiamo trovare istruzioni per scrivere un sonetto con la stessa facilità con cui si costruisce una bomba. Tutto è su internet, davvero tutto ... tranne il giudizio per trasformare le informazioni in conoscenza affidabile e preziosa. Il mio giudizio o risiede dentro di me, o non si trova da nessuna parte.
Da qui il rischio di trasferire i nostri processi mentali umani alle macchine (IA). Ci sono ricercatori convinti che questo trasferimento sia responsabile del famoso Effetto Flynn (il calo del QI nei paesi sviluppati, soprattutto nell’Europa settentrionale, a partire dalla fine del secolo scorso). L’esaurimento della memoria procedurale indebolirebbe il ragionamento, ostacolerebbe l’apprendimento, diminuirebbe l’efficienza e stimolerebbe la pigrizia cognitiva (soprattutto nella riduzione dell’autoregolazione, dell’autocorrezione e della riflessione ponderata).
È vero che astrofisici e medici stanno utilizzando l’intelligenza artificiale con risultati spettacolari. Ma questi risultati evidenziano cosa si può ottenere combinando la capacità dell’esperto di porre domande con la tecnologia.
Ciò che è in gioco è l’ambizione che proiettiamo su noi stessi. Se le tecnologie sono protesi antropologiche che amplificano ciò che siamo, non dovremmo preoccuparci di chi siamo?
Voglio immaginare una scuola che sia una vera palestra intellettuale, che incoraggi gli studenti ad affrontare i problemi prima di chiedere aiuto, che ampli la loro comprensione del mondo, non solo la velocità delle loro azioni; che incoraggi domande coraggiose, che non si lasci sedurre dal pensiero-sentimento del politicamente corretto, che li aiuti a dare parole al mondo; che non creda che se siamo vegetariani non saremo mai attaccati da un predatore. Voglio una scuola che ci insegni a usare il GPS, ma che stimoli anche il nostro desiderio di goderci il paesaggio.
Vorrei aggiungere una considerazione sul rapporto tra bambini e adolescenti e gli schermi. Non sono a conoscenza di un singolo studio che dimostri che i dispositivi digitali riducano la capacità di attenzione degli studenti. Tuttavia, credo agli insegnanti che si lamentano quasi all’unanimità che sta diventando sempre più difficile far concentrare i propri studenti sui compiti, e ciò suggerisce che non com prendiamo veramente le vere cause di molti dei comportamenti scolastici che tanto ci preoccupano. Gli studenti hanno perso la loro capacità di attenzione o hanno deciso di smettere di prestare attenzione perché, qualunque cosa facciano, riceveranno una pacca sulla spalla per aver fatto progressi soddisfacenti? Qual è il problema: l’attenzione o gli stimoli? Preferiscono le ricompense a breve termine a quelle a lungo termine?
Epistemologia o Pedagogia
Paul A. Kirschner sostiene, e io sono d’accordo con lui, che la radice di gran parte della nostra frustrazione educativa risiede nella confusione, diffusa tra gli insegnanti e alimentata nelle facoltà di pedagogia, tra epistemologia e didattica.
Per semplificare, possiamo dire che l’epistemologia è lo studio e la chiarificazione della vera conoscenza, mentre la didattica è l’arte di rendere comprensibile allo studente quella parte della vera conoscenza che gli è accessibile alla sua età, sulla base delle sue conoscenze pregresse e delle sue condizioni di apprendimento.
Le cose cominciarono a farsi confuse quando Jean Piaget difese la tesi della «epistemologia genetica», cioè l’idea di un processo di sviluppo della verità nel bambino, partendo dal presupposto che, come diceva Leopold von Ranke della storia, ogni età ha il suo rapporto con Dio, cioè con la verità.
Secondo Piaget, un bambino di sei anni non sbaglia quando comprende le cose in base a ciò che il suo stadio di sviluppo gli consente. La verità, quindi, è la parte della realtà che si adatta al quadro cognitivo di una persona in un dato momento del suo sviluppo. La verità di un discente può differire da quella di un esperto, ma è comunque verità, perché la verità, in ultima analisi, è un costrutto personale.
Da queste premesse, alcuni pedagogisti costruttivisti hanno concluso che ciò che è importante a scuola non è la conoscenza in sé, ma lo sviluppo dei quadri cognitivi dello studente (competenze generali). La conoscenza avrebbe valore solo nella misura in cui stimola questo sviluppo. Ciò porta a un grave fraintendimento del ruolo delle discipline tradizionali e, in generale, di qualsiasi educazione esterna che forzi lo sviluppo naturale del bambino imponendo modalità di comportamento estranee alla sua presunta progressione naturale.
Tralasciamo l’ovvio fatto che non esiste educazione senza influenze esterne, a cominciare dal linguaggio stesso. Ciò che chiamiamo apprendimento non è altro che l’interiorizzazione di conoscenze, credenze, pratiche e valori ricevuti da e con gli altri. Nelle società primitive, questo processo avveniva attraverso l’imitazione, e nelle società moderne e complesse, a causa della crescente complessità di ciò che deve essere trasmesso, la scuola è abituata a colmare le lacune nell’imitazione attraverso un insegnamento strutturato.
Concentriamoci sul linguaggio. Bambini di famiglie diverse non sentono lo stesso numero di parole, né le parole che sentono hanno lo stesso peso semantico. Un bambino che cresce in un ambiente linguisticamente povero è probabile che impari a comunicare con un linguaggio concettualmente limitato, strettamente legato alla sua esperienza di ciò che nomina.
Come diceva Vygotskij, così spesso citato ma così raramente letto, non è possibile accedere alle «forme superiori di pensiero» con un vocabolario limitato. Un vocabolario limitato non è solo una questione di scarsità di parole; è anche una questione di vocabolario connotativo limitato. Due bambini provenienti da contesti culturali diversi possono avere punti di riferimento diversi quando sentono la parola “fiume”. Uno darà per scontato che questo “fiume” possa essere solo quello del suo villaggio, quello di cui ha fatto esperienza. L’altro, invece, potrebbe avere un concetto più astratto, come una corrente fluviale permanente che nasce in un luogo e sfocia in un altro. Nessuno dei due bambini ha avuto un’esperienza diretta di questo secondo “fiume”, ma proprio per questo motivo, ci aiuta a capirci quando parliamo di fiumi.
Ebbene, una delle funzioni essenziali della scuola è aiutare il bambino ad passare da un fiume all’altro; dal «fiume» che connota il proprio fiume, al «fiume» che denota ciò che tutti i fiumi hanno in comune. Questo secondo fiume illumina l’esperienza, ma non può essere costruito esclusivamente a partire dall’esperienza del bambino. Questa differenza, che può sembrare banale, ha enormi ripercussioni pedagogiche perché ogni disciplina accademica si articola con l’ausilio di uno specifico linguaggio denotativo.
Vygotskij ha sempre sospettato che i fatti (la materia della conoscenza) non possano essere raggruppati in un modo qualsiasi, ma solo in determinati modi: quelli che consentono loro di incastrarsi tra loro formando strutture che, a loro volta, possono essere integrate in teorie coerenti: cioè in discipline. Ogni disciplina, in sostanza, non è altro che un linguaggio e una sintassi della realtà vista da una particolare prospettiva, perché la realtà ci è accessibile solo in questo modo, prospetticamente. Pertanto, è improbabile che possiamo addentrarci nell’ambito di una disciplina senza una certa padronanza del suo vocabolario. Per lo stesso motivo, è improbabile che possiamo sviluppare un pensiero teorico complesso senza un confronto frequente con diverse discipline. Per raggiungere il suo massimo potenziale, il pensiero deve acquisire familiarità con quella che potremmo chiamare alfabetizzazione disciplinare.
Esiste un’enorme differenza tra i concetti teorici della scienza (e, in generale, tra il linguaggio denotativo) e i concetti quotidiani dell’esperienza personale (di solito di tipo connotativo). Non c’è dubbio che le esperienze quotidiane dei bambini siano importanti. Possiamo e dovremmo trarne abbondanti risorse educative, ma non dovrebbero essere il fulcro ultimo del curriculum, perché non fanno parte di alcun sistema. Per questo stesso motivo, come sostiene Paul A. Kirschner, l’epistemologia della pratica in un ambito scientifico non è una buona pedagogia per l’apprendimento scolastico in quel campo.
Il fatto che vogliamo ampliare i limiti cognitivi di quell’apprendista, il bambino, a quelli dell’adulto esperto non significa che dobbiamo trattare il bambino come un esperto, ma piuttosto che dobbiamo metterlo in situazioni che, essendo coerenti con il suo sviluppo cognitivo, gli permettano di sapere di più, di nominare le cose in modo più preciso, di affrontare ogni problema nel modo più appropriato e di farlo sempre più velocemente.
L’esperto è, soprattutto, un esperto nell’inserire i fatti in strutture complesse. Cosa fa un maestro di scacchi se non vedere le possibilità di sviluppo futuro di ogni pezzo e selezionare quelli potenzialmente più vantaggiosi? Vede gli stessi pezzi dell’apprendista, ma li comprende in modo molto diverso perché sa come usarli in contesti più ampi. Il cuoco esperto vede la stessa cipolla del cuoco alle prime armi, ma la vede in modo diverso perché capisce meglio cosa può farci. Il medico esperto vede gli stessi sintomi in un paziente di quello inesperto, ma solo il primo è in grado di formulare una diagnosi.
Gli esperti considerano i fatti come pezzi di un puzzle che si inseriscono in ipotesi ragionevoli e sono in grado di scartare rapidamente le ipotesi meno in linea con i fatti.
Facciamo un esempio molto semplice.
Se l’insegnante scrive «3X=21» alla lavagna, lo studente deve capire cosa significano la «X» e il «=». L’esperto pensa immediatamente al numero “7”. La differenza non è quantitativa, ma qualitativa. Lo studente deve utilizzare una parte significativa della sua memoria di lavoro per comprendere questi simboli. L’esperto comprende il linguaggio della sua disciplina. Ha acquisito una conoscenza approfondita che gli consente di concentrarsi rapidamente sulla risposta, mentre lo studente fatica a decifrare la domanda.
Gli esperti riescono a cogliere a colpo d’occhio cosa è rilevante e cosa è irrilevante, sebbene quest’ultimo sia più visibile. Possiedono le informazioni contestuali necessarie (che possiamo chiamare “contesto di applicabilità”) per collocare un testo nel suo contesto e, in caso di difficoltà, ne comprendono l’esatta natura e sanno dove rivolgersi per chiedere aiuto.
Se comprendiamo la differenza qualitativa tra chi apprende e chi è esperto, comprenderemo anche i rischi insiti in qualsiasi progetto pedagogico il cui obiettivo è incoraggiare gli studenti a costruire il proprio significato a partire dalle proprie esperienze.
È ovvio che dobbiamo incoraggiare lo spirito di ricerca degli studenti, ma non dobbiamo aspettarci che comprendano le leggi di Newton vedendo cadere una mela o che capiscano la dinamica delle sfere celesti guardando i bambini giocare a calcio (che è ciò che spinse Niccolò Cusano a scrivere De ludo globi).
Uno studente della scuola primaria o secondaria non è uno scienziato, non è un esperto; gli mancano i contesti in cui integrare in modo esplicativo un esperimento.
Pertanto, la pedagogia non può essere confusa con l’epistemologia. La concezione epistemologica della scienza come indagine è una cosa, e l’insegnamento della scienza come indagine è un’altra.
Si dice spesso che ogni bambino sia un potenziale scienziato. Un bambino è potenzialmente molte cose. Potenzialmente è uno scienziato tanto quanto è un ignorante. Perché un bambino diventi uno scienziato, deve essere guidato attraverso il processo di apprendimento nel suo percorso verso la conoscenza specialistica.
Un bambino è ben lungi dall’essere uno scienziato obiettivo e imparziale perché i suoi contesti non sono né l’uno né l’altro.
La base epistemologica delle scienze naturali non può essere confusa con la base pedagogica dell’insegnamento delle scienze naturali.
Gli studenti non fanno scienza. Imparano la scienza mentre acquisiscono un vocabolario curriculare. Gli scienziati cercano di andare oltre i confini ereditati dalla loro disciplina; gli studenti cercano di apprenderne le basi. Possiamo dire di più: la maggior parte di ciò che uno scienziato sa della sua disciplina gli è stato insegnato. Non l’ha sperimentato personalmente. È conoscenza trasmessa, non costruita.
A titolo di conclusione
Il 20 agosto 2025, l’OCSE ha pubblicato quello che ha definito «Le chiavi per un insegnamento di qualità». Devo avvertirvi che non nutro esattamente una grande fiducia nelle istituzioni educative internazionali. Andreas Schleicher, direttore dei test PISA, che per decenni ha insistito sul fatto che, qualunque fossero i nostri problemi, la soluzione fosse in Finlandia, a quanto pare ha cambiato idea.
Nel 2018, ci aveva assicurato che la Finlandia era sinonimo di eccellenza nell’istruzione, mentre il 5 dicembre 2023, dopo i disastrosi risultati PISA della Finlandia, dichiarò al Financial Times: «Quando [il PISA] è apparso per la prima volta, pensavamo che la Finlandia fosse la ricetta per il successo, ma 20 anni dopo non sappiamo se sia stata parte della soluzione o parte del problema».
Aggiungo e non come un semplice aneddoto che ho partecipato alla conferenza stampa di un ministro dell’istruzione che era stato un alto funzionario dell’UNESCO per l’America Centrale e i Caraibi. Il ministro non ha avuto remore ad affermare con enfasi che «il contenuto non è più importante. Perché studiare, ad esempio, i pianeti, se cambiano ogni anno? Ciò che dobbiamo studiare è l’influenza dei pianeti sulle nostre vite!» Qualche giorno dopo, l’ho incontrata nel suo ufficio. Le ho chiesto se dovessi congratularmi con lei, dato che il suo Paese era considerato dall’OCSE uno dei più equi al mondo. «Ma abbiamo risultati estremamente bassi!», ha risposto. «Sì, sono estremamente bassi, ma costanti». Ed era vero. Il 75% degli studenti di quel Paese rientra nelle due fasce più basse dei risultati PISA.
Passiamo alle «Chiavi per un insegnamento di qualità» dell’OCSE (la cui sintassi contorta è di esclusiva responsabilità dell’OCSE).
La prima è «garantire il coinvolgimento cognitivo», che implica la creazione di «condizioni affinché gli studenti compiano sforzi sufficienti e costanti per persistere nella comprensione di un’idea complessa o nella risoluzione di problemi impegnativi e non strutturati». Affinché questa chiave sia efficace, gli insegnanti devono impegnarsi a raggiungere «livelli di sfida adeguati», incorporando «contesti significativi e collegamenti con il mondo reale», facilitando «opportunità per gli studenti di sperimentare in prima persona» e fornendo molteplici approcci e rappresentazioni che favoriscano la «metacognizione».
Si legge pazientemente questa prosa ponderosa e, proprio quando si pensa di essere diventati immuni allo shock, ci viene assicurato, senza batter ciglio, che «l’impegno cognitivo può sembrare enigmatico, poiché è difficile da osservare».
La seconda chiave è «sviluppare contenuti disciplinari di qualità», ma si fa notare che questo compito non è facile, a causa «della complessità di sviluppare contenuti disciplinari di qualità». La terza è «fornire supporto socio-emotivo», ma anche questa chiave è caratterizzata dalla sua «complessità».
Continuiamo.
La quarta è «incoraggiare l’interazione in classe» attraverso «domande e risposte», ma dobbiamo tenere presente «la complessità» della sfida.
La quinta e ultima è «utilizzare la valutazione formativa e il feedback». Ciò implica considerare la valutazione come un «processo continuo in cui gli insegnanti valutano e guidano attentamente i progressi degli studenti», adattandosi al loro modo di pensare. Ancora una volta, ci viene detto che si tratta di un «compito complesso», soprattutto «in classi numerose e diversificate».
Seguire questi fattori chiave, nonostante la loro enigmatica complessità, sarebbe la strada giusta per procedere «verso un insegnamento maggiormente basato sull’evidenza», poiché «le pratiche esaminate hanno dimostrato un impatto causale sui risultati cognitivi e non cognitivi degli studenti». Tuttavia, l’OCSE ritiene che siano necessarie ulteriori» ricerche aggiuntive», poiché «la qualità dell’insegnamento non dipende esclusivamente dall’insegnante. Fattori come le dimensioni delle classi, la progettazione del curriculum e il clima scolastico generale svolgono un ruolo cruciale nel determinare quali tipi di pratiche gli insegnanti possono implementare in classe».
Nel suo insieme, questo testo illustra perfettamente la confusione tra pedagogia ed epistemologia. O, in parole povere, un perfetto esempio di confusione. Riuscite a immaginare un giornale che sceglie i cinque migliori ristoranti di Madrid e, dopo averne piazzato uno al primo posto, aggiunge che la sua qualità è difficile da valutare? E poi sostiene che, data la complessità dei piatti, gli chef devono essere di alta qualità?
L’omissione più significativa, a mio avviso, è la mancanza di riconoscimento del valore dell’istituzione educativa stessa. Sembra che l’immagine che studenti, famiglie e insegnanti hanno della loro scuola non sia considerata un indicatore chiave di qualità. Né sembra che gli studenti siano responsabili del proprio progresso accademico, né che ci si aspetti che si impegnino a interagire con i propri insegnanti. L’alfabetizzazione disciplinare non viene nemmeno menzionata.
Il riferimento all’impegno degli studenti e alla «qualità dei contenuti disciplinari» è ben accetto. A mio avviso, non esiste un sostituto tecnologico per il duro lavoro, e sembra sempre più chiaro che l’approccio basato sulle competenze è ormai esaurito e che dobbiamo tornare a dare centralità al curriculum.
La realtà è davvero complessa e gli amministratori scolastici non sembrano particolarmente astuti, ma non abbiamo diritto al pessimismo. Dobbiamo sviluppare una cultura pedagogica di pratiche riflessive che ci permetta di imparare dalla nostra esperienza, sia dai successi che dai fallimenti. Questo è, in verità, ciò che conta. Dobbiamo affinare la nostra capacità di identificare i problemi nelle nostre scuole e cercare soluzioni perché, come ha affermato di recente Pamela Snow, «i bambini hanno bisogno di insegnanti che si comportino come adulti in classe».
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Isagoge
Considerazioni semiserie su Erode e noi
di Fernanda Mazzoli
Dall'ironico distanziamento, al distaccato tedio, all'incontenibile sdegno
Scorro velocemente e distrattamente la bacheca elettronica della scuola in cui lavoro, dove, giorno dopo giorno, si sono accumulate comunicazioni di ogni sorta, mesti grani impastati di burocrazia e di pedagoghese che scandiscono il rosario della vita professionale del docente in quanto ha di più limitante e piatto.
Posso farlo solo a condizione di proiettarmi all’indomani, quando in una classe leggerò lo scintillante monologo del Cid di Corneille e in un’altra cercherò di spiegare perché Charles Baudelaire si sentiva come un albatro catturato da rozzi marinai.
Inoltre, non ho voglia di farmi il sangue amaro, leggendo i nomi dati a tante iniziative progetti, corsi di formazione, conferenze patrocinati da altrettanti esperti ed enti accreditati, i quali rivaleggiano nel deturpare la lingua di William Shakespeare e di William Blake, ibridandola sul gergo del management.
Mi limito ad un’occhiata ai titoli, l’esperienza mi ha insegnato che, se aprissi il documento, non ci sarebbe più scampo: da un ironico distanziamento, da un distaccato tedio piomberei in uno stato di incontenibile sdegno, di rabbiosa collera che mi porterebbe ancora una volta a constatare la mia impotenza e a rovinarmi la giornata.
E così oltrepasso in fretta i diversi scogli che si frappongono fra il rosario e il romanzo di Ivan Aleksandrovič Gončarov che ho in programma per il pomeriggio (perché oltre ad essere allergica al versante burocratico-manageriale del mio lavoro lo sono anche alla russofobia e ritengo la letteratura russa una delle più alte manifestazioni dello spirito umano), annoto due date di riunioni e chiudo il computer.
Eppure, un’eco fastidiosa e persistente, quasi un rimorso turba la ritrovata pace pomeridiana e invece di seguire Ivan Oblomov nelle sue meditazioni rivado mentalmente ad una comunicazione il cui titolo mi ha colpita così sgradevolmente che ho preferito non approfondire e passare subito alla successiva.
Una nuova fabbrica di servitù
Si tratta di un corso di formazione alla realtà virtuale e alla realtà aumentata per la scuola dell’infanzia e primaria, all’interno di un PNRR dedicato alla riduzione dei divari di apprendimento per studenti con disabilità. In fondo, non dovrebbe interessarmi, è un corso facoltativo e poi non ho niente a che fare con quegli ordini di scuola.
Non è certo la prima proposta formativa volta ad illustrare le potenzialità dell’«IA» nell’attività didattica, ce ne sono per tutte le età e tutti i gusti; il punto è che la dicitura scuola dell’infanzia e primaria si è associata istintivamente nel mio cervello ad un’altra espressione emersa improvvisamente da una lettura fatta diversi anni orsono: massacro degli innocenti.
Ad utilizzarla, per denunciare l’impatto dell’uso del digitale selvaggio sullo sviluppo dei bambini è stato, nel 2016, il pedagogista belga Alain Goussot, docente di pedagogia speciale presso l’Università di Bologna, in un intervento capace, malgrado la sua concisione, di cogliere in profondità quelle trasformazioni strutturali organizzative, ideologiche e didattiche che stanno facendo della scuola (hanno largamente già fatto) una nuova fabbrica di servitù, come recita duramente il titolo dello scritto.1
Di Erodi, cui abbiamo consegnato le nuove generazioni, in giro ce ne sono parecchi; avrei in mente anche qualche nome, ma in questi tempi di pesanti censure e di ancor più pesanti querele con richieste milionarie di risarcimenti per danno d’immagine preferisco ripiegare sull’avidità onnivora del modo di produzione capitalistico che immola corpi e anime sull’altare della conquista incessante di nuove frontiere, fino a fare di ogni aspetto del vivere un mercato sussunto alle leggi del profitto.
Se poi si riflette sull’osservazione di Harry Braveman che è stato un militante socialista statunitense, nonché il direttore della Monthly Review Press che la scuola, prima ancora di essere luogo di apprendimento, è luogo in cui si maturano abitudini,2 cioè si introietta un certo modello comportamentale, si plasma una determinata forma mentis, è evidente che l’ingresso dell’«IA» nelle scuole dell’infanzia ed elementari mira a porre le condizioni per nuove coordinate mentali che, proprio per essere state introdotte sin dai primissimi anni di vita del bambino, non solo finiranno per foggiarne lo sviluppo cognitivo (e anche fisico, né le due dimensioni possono essere artificialmente separate), ma per naturalizzarsi, facendo parte da subito del suo ambiente di vita.
La nuova strage degli innocenti
Erode il Grande per quanto noto intestatario della politica della strage degli innocenti che tanta fortuna ha riscosso in terra di Palestina sino ai giorni nostri era, al confronto, un principiante: disponeva di modesti dispositivi tecnologici e mandava in giro una soldataglia presumibilmente male addestrata, al punto da farsi sfuggire la povera famigliola di Nazareth.
I suoi moderni emuli detengono una potenza di fuoco incomparabilmente più micidiale, capace di colpire in un clic ogni angolo del pianeta, tanto che non c’è più nessun Egitto nel quale cercare riparo.
E inoltre: c’è da fare i conti con il raffinamento dei costumi che rifugge da spettacoli sanguinari, soprattutto sotto casa o nel proprio giardino, e con il trionfo della ragione strumentale che bada a mantenere un buon equilibrio fra spese e guadagni, a tutto vantaggio di questi ultimi.
Così, ben lungi dall’eliminare gli infanti con un colpo netto di spada (che a ben vedere è una condotta antieconomica che distrugge in un colpo solo potenziali e bulimici consumatori e futura manodopera) agli stessi si promette una porzione doppia di realtà, una realtà infinitamente più divertente, colorata, emozionante, appassionante e facile di quella che vivono nelle loro case con babbo preoccupato per il mutuo da pagare e mamma stressata perché costretta ad essere multitasking, ovvero più prosaicamente a combinare nel giro di 24 ore tanti impegni, fuori e a casa, quanti troverebbero posto a stento in due settimane, con conseguente crollo nervoso di entrambi, liti, scenate e, all’angolo, separazioni.
Per non parlare delle maestre che, a scuola, pretendono ancora di insegnare a tracciare segni astrusi con una penna su un foglio di quaderno e pure di apportare delle correzioni in caso di errori, con grave colpo inferto all’autostima del piccolo che poco a poco urta contro la frustrante consapevolezza di non essere al centro dell’universo mondo e di non essere perfetto.
Quale sollievo e compensazione abbandonare la noiosa ed esigente realtà quotidiana per volare verso le illimitate possibilità offerte dal virtuale e dalla didattica più innova tiva che in esso ha scoperto inedite risorse per spianare le vie erte e sassose dell’apprendimento.
Poco importa, poi, se, considerata la tenera età dei discenti, si rischia, fra l’altro, di creare enorme confusione tra realtà e finzione, tra realtà reale e “realtà” aumentata, confusione spesso alla base di cronache agghiaccianti che hanno per protagonisti adolescenti che sembrano in effetti usciti da un altro mondo dove tutto è un gioco, un’enorme bolla virtuale in cui sentimenti, esperienze, relazioni si sono liquefatti in un narcisismo prossimo al delirio.
Si sa che i passaggi epocali qualche cadavere sul terreno lo lasciano sempre e i costi da pagare non sono poi in definitiva così alti, se si considera il roseo futuro progettato per i nostri figli e nipoti dai filantropi del capitalismo digitale: l’equivalente dematerializzato di generose iniezioni di soma, la droga della felicità, già prevista in uno slancio visionario da Aldous Huxley,3 che assicura euforia, ma anche riposo, vacanze mentali e viaggi fantastici.
Inuovi sofisticati sgherri della strage informatica
A provvedere alla promozione pubblicitaria della sostanza è già operante un agguerrito esercito di esperti sovente di estrazione accademica, mentre per la distribuzione sono mobilitati solerti funzionari statali: uno schieramento di saperi e competenze (o, meglio, di know how per coerenza linguistica e culturale) che nessun antico re di Giudea poteva nemmeno immaginare, tanto da essere costretto a mezzi sbrigativi e crudeli che ne hanno consegnato il nome alla damnatio me Che si sparga sangue o si prosciughino intelletti4 e cuori, un massacro necessita poi di un buon numero di comparse che diano una mano svogliatamente o che chiudano occhi, bocca e orecchi per non sentire, non vedere e non parlare.
La dismissione educativa di scuola e famiglia
Per esempio, a scuola nei Collegi docenti o in altri incontri collegiali, quando vengono approvate a maggioranza iniziative formative e didattiche per insegnanti e per studenti basate sull’«IA» e la realtà aumentata: per rassegnazione, per opportunismo, per giovanilismo, perché così va il mondo, perché ci sono criticità, ma anche vantaggi, perché ci si nasconde dietro il ditino dell’uso etico e responsabile, perché si ha una paura folle di passare per retrogradi, perché questo è il futuro e chi siamo noi per tirarci indietro e via giustificando ed accettando.
E poi, a casa, quando abbandoniamo i nostri figli alla tentacolare baby sitter digitale, per stanchezza, per superficialità, per comodità, perché così fan tutti, per paura che vengano esclusi dal gruppo (dove a relazionarsi non sono più persone, ma dispositivi) e finiscano nella terra di nessuno degli asociali.
Se la dimensione virtuale ha così attecchito fra i ragazzi non è solo per la pressione enorme esercitata da coloro che ne traggono stratosferici vantaggi economici e sociali, ma per la drammatica dismissione educativa di scuola e famiglia che, invece di opporre una linea di resistenza, fatta di valori e pratiche diverse, si sono vilmente accodate.
La paura di “restare indietro” ha alimentato una rincorsa alle nuove tecnologie che ha lasciato senza fiato scuola e famiglia e senza difesa studenti e figli, consegnandoli nelle braccia degli Erodi tecnocratici.
Mangiamo insieme il pane della vita
Educare i giovani alla bellezza e alla grandezza della vita che è anche fatica, contraddizione, perdita e sottile equilibrio sul filo dell’ignoto è coltivare il terreno per un ritorno al reale e all’umano che è una delle priorità odierne, presupposto ineludibile anche per una progettualità sociale alternativa.
Liberare i più giovani dalla gigantesca trappola virtuale in cui rischia di estinguersi l’impulso a scoprire il mondo e ad abitarlo con consapevolezza e responsabilità non passa necessariamente né per il luddismo, né per il proibizionismo.
La recente disposizione ministeriale di divieto dell’uso dei telefonini in classe, pur condivisibile in linea generale, non affronta minimamente il problema alla radice, perché non si accompagna affatto ad una messa in discussione della digitalizzazione dell’apprendimento, ma va di pari passo con l’introduzione massiccia e sostanziale nella didattica fino alla sua ridefinizione delle nuove tecnologie, compresa l’intelligenza artificiale.
Invece di mettere in mano a un bambino uno smartphone, caso mai compiacendosi di quanto è svelto a premere i tasti, prenderlo per mano e accompagnarlo a vedere un bosco in autunno, fargli adottare un albero e seguirne le trasformazioni stagione dopo stagione, leggere insieme ad alta voce un libro, raccontargli storie che dispieghino davanti a lui il potere creativo della parola e della voce umane, affidargli una piantina da far crescere e un animale da osservare e curare: tanti piccoli semi per lo sbocciare di un orizzonte di senso di fronte al quale potrebbero cadere nel vuoto i richiami delle sirene virtuali.
Mani e voci che accompagnano il primo sguardo sul mondo, quello vero, che si fanno compagne, vale a dire mangiano insieme il pane della vita. Può essere poco, confrontato alla potenza degli Erodi del nuovo millennio, ma sufficiente per tenere viva una fiammella ostinata e fiduciosa.
1 https://comune-info.net/la-scuola-nuova-fabbrica-di-servitu/
2 H. Braveman, Lavoro e capitale monopolistico. La degradazione del lavoro nel XX secolo, Einaudi, Torino 1978.
3 A. Huxley, Il mondo nuovo. Ritorno al mondo nuovo, Mondadori, Milano 2017.
4 Il neurobiologo Lamberto Maffei (Elogio della lentezza, il Mulino, Bologna 2014) rimarca il rischio che le frenetiche e dispersive sollecitazioni offerte dai dispositivi digitali, in opposizione ai tempi lenti dell’apprendimento, comportino un ritorno indietro nel tempo, a un cervello portato ad utilizzare le funzioni più primitive, quelle che consentono le risposte rapide.
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