Premessa
Hjalmar Bergman trascorse gli anni più importanti della sua formazione viaggiando, e Firenze fu la sua sede preferita. Nella storia della letteratura svedese non vi è stato nessun altro scrittore oltre a Bergman ad aver avuto un rapporto privilegiato con l’Italia, sia da un punto di vista letterario che personale. Per questo motivo il convegno annuale della società letteraria ”Hjalmar Bergman Samfundet” fu organizzato nel 1994 a Firenze; gli studiosi bergmaniani vi si riunirono per discutere i vari aspetti del legame dello scrittore con la storia culturale della città: alcuni interventi, come prevedibile, si incentrarono per lo più sul romanzo Savonarola. En munkhistoria. (“Savonarola; storia di un frate”) (1909), stampato come n° 10 nella serie degli scritti della Società.
I quattro saggi che seguono sono in parte approfondimenti di alcune osservazioni presentate al convegno in merito agli studi delle fonti eseguiti da Bergman; inoltre, il mio studio si incentrerà anche su opere appartenenti ad altri generi, quali: le novelle storiche brevi Guido och Gismondo (1907), Buondelmonte de’ Buondelmonti. Florentinsk kärlekssaga (“Buondelmonte de’ Buondelmonti. Storia amorosa fiorentina”, 1909), En process (“Un processo”, 1911) e la tragedia Parisina (1915), opere nelle quali Bergman trattò di motivi amorosi simili tra loro, desunti da scritti storici e dalla letteratura italiana più antica.
Le numerose traduzioni in una ventina di lingue, tra le quali francese, tedesco, russo, olandese e ceco dimostrano che da molto tempo l’arte letteraria di Bergman è apprezzata anche da una cerchia di lettori non-nordici. Tra le varie edizioni spicca il romanzo Markurells i Wadköping (1919), che pare essere sia in Svezia che negli altri paesi il preferito in assoluto, e di cui esiste anche una traduzione italiana, “I Markurells” (1982); quest’ultima tuttavia è l’eccezione che conferma la regola, ovverosia che la produzione letteraria di Bergman è quasi del tutto sconosciuta al pubblico italiano. Quando, nel 1961, l’allora sindaco di Firenze Giorgio La Pira, nella prolusione in occasione di una cerimonia commemorativa a Palazzo Vecchio, onorò questo scrittore svedese, mise in evidenza Savonarola e Machiavelli in quanto modelli dominanti, come «elementi strutturali dell’intera creazione artistica del Bergman, [che] fanno parte essenziale del ‘contesto’ della sua arte e della sua vita». Tali affermazioni potrebbero sembrare una sopravvalutazione dell’aspetto culturale italiano nella scrittura bergmaniana, ma, seppur in modo paradossale, La Pira sottolineava così il lato della produzione letteraria di Hjalmar Bergman meno conosciuto ai suoi lettori; il romanzo su Savonarola, le novelle storiche ed in generale il fatto che Bergman spesso usasse tematiche italiane, resta comunque un aspetto inesplorato.
Dopo essermi occupata del primissimo Bergman posso affermare con certezza che la sua natura poliedrica si è cristallizzata sotto la diretta influenza della cultura italiana, ma che quest’ultima è diventata semplicemente la forma della sua arte, come viene confermato dalla maggioranza delle tematiche (che possiamo definire a buon diritto specificamente bergmaniane), e come esemplificano i personaggi chiave, dotati di grande forza di volontà, che appaiono spesso nel fittizio universo dello scrittore, da Savonarola in poi.
Personaggi chiave dal punto di vista psicologico sono i personaggi centrali più forti, ma allo stesso tempo eccentrici, come il volgare arrivista Signor Markurell di I Markurells, come la dispotica nonna di Farmor och vår herre (“Nonna e nostro Signore”, 1921) e il non meno pateticamente ambizioso Signor von Hancken dell’omonimo romanzo (1920). Sono stati tutti dotati di tratti donchisciotteschi nella loro rispettiva funzione di eroe tragico della trama: non si arrendono alle leggi dell’esistenza; nonostante le aspirazioni di vita di loro tutti (dei Markurell, della nonna e di von Hancken) non siano altrettanto nobili quanto quelle di Savonarola, i protagonisti dei romanzi bergmaniani sono accomunati dal tema della lotta tra l’individuo e la collettività, una guerra persa in partenza. E la sconfitta dell’individuo viene sempre preannunciata all’improvviso, ed è perciò sempre più umiliante.
Dopo il romanzo su Savonarola Bergman da un punto di vista artistico senz’altro ”tornò a casa”, nella zona di Bergslagen, dove era cresciuto, ma il suo raccontare continuò a nutrirsi delle esperienze pluriennali tratte dalla realtà quotidiana italiana, caratterizzata da complicati intrighi familiari. Dopo il successo di pubblico del romanzo Hans nåds testamente (“Il testamento di Sua Eccellenza”, 1910), scritto durante un lungo soggiorno a Roma, lo scrittore si volse esclusivamente al grottesco insito nei lati oscuri dell’essere umano ed emergente in peculiari cronache familiari.
Può darsi che la caratterizzazione di La Pira delle opere di Bergman sia in fondo motivata, nel senso che il rapporto con l’Italia, sul piano artistico, fu per lo scrittore un’esperienza di vita; questa constatazione è stato il punto di partenza per la mia rilettura di alcune opere giovanili di Bergman, che presenterò qui di seguito con l’obiettivo principale di indagare come lo scrittore abbia trattato i testi italiani. Tuttavia, per motivi di spazio, devo limitarmi alle fonti più antiche e spero pertanto che altri studiosi vengano stimolati a prendere le mosse da dove io mi fermo ed eventualmente a studiare le influenze di opere di scrittori italiani più moderni.
Dato che questi studi sono stati eseguiti nel corso di una decina d’anni, e si sono arricchiti via via di nuove osservazioni di carattere psicologico o critico sulle fonti, si troveranno ogni tanto delle ripetizioni, tra cui citazioni di lettere. Il lettore dovrà essere indulgente.
Desidero ringraziare Elena Artale per la sua lettura critica e omogeniezzante della versione italiana del complesso di testi di presente volume.
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Introduzione
Hjalmar Bergman e la storia della letteratura 1
La fama internazionale della storia letteraria svedese si basa, in linea di massima, sulle produzioni letterarie di August Strindberg e di Selma Lagerlöf: il primo in quanto figura di spicco del teatro moderno, la seconda famosa per il pioneristico tentativo di riabilitare la fantasia e le leggende popolari nella narrativa artistica. In modo del tutto diverso ambedue si sono distinti, andando contro gli ideali del naturalismo, e nel contempo relegando nell’ombra le prestazioni del giovane Bergman per quanto concerne lo sviluppo del romanzo moderno svedese e le conquiste della drammaturgia cinematografica e teatrale.
È del tutto lecito chiedersi il motivo per cui ciò sia accaduto: la risposta più evidente sta nelle capacità eccellenti sia di Strindberg che di Lagerlöf di pubblicizzare il proprio operato. Sotto questo profilo August Strindberg è ben conosciuto per le sue prese di posizione controverse in ogni questione politica, culturale e sociale, che causarono dispute anche violente (ricordiamo «Giftas-debatten» 1887 e «Strindbergsfejden» 1909, che mobilitarono l’opinione pubblica svedese attorno al cambio di secolo). Così come è altrettanto risaputo il fatto che Selma Lagerlöf curasse personalmente la divulgazione delle proprie opere, tenendo serate letterarie in cui recitava i propri testi ad alta voce nelle biblioteche di tutti i paesi nordici, e in seguito adoperando il nuovo mezzo di comunicazione dell’epoca, la radio.
Hjalmar Bergman, a differenza di Strindberg, che volentieri rivestiva il ruolo di personalità eccentrica della cultura, preferiva offrire un immagine più contenuta di sé in circostanze ufficiali; inoltre, è lecito pensare che Hjalmar Bergman avesse difficoltà a liberarsi del disprezzo per il ruolo dell’artista tipico del suo ambiente di provenienza, la borghesia (problematica che si rivela nella sua pienezza soltanto nella sua ultima opera, il meta-romanzo Clownen Jac (“Jac il clown”, 1930), vale a dire nel regolamento dei conti tra un artista e l’alienazione frustrante, durata una vita). Inoltre, non era proprio di Bergman formulare in modo programmatico il suo concetto moderno di letteratura, come fece lo scrittore altrettanto cosmopolita Pär Lagerkvist, in quanto mai Bergman si sarebbe considerato un rappresentante delle correnti moderniste. Si potrebbe ipotizzare che fu questa inibizione della propria personalità a portare inizialmente il genio creativo di Bergman a seguire le scie di altri, e a renderlo pertanto “un virtuoso del pastiche”, come vedremo esemplificato dalla sua prima produzione letteraria di carattere storico, di cui tratterò in seguito; tuttavia il pezzo di bravura di Bergman in campo di imitazione stilistica rimane indiscutibilmente Herr von Hancken (“Signor von Hancken”, 1920) che a sua volta divenne un modello da imitare per le generazioni di scrittori a lui successive.
Non di meno il talento peculiare di Bergman non lasciava trasparire i modelli, e con il tempo diede forma ad una produzione letteraria colorita e con una potenza di fantasia singolare, che accanto a quella di Selma Lagerlöf non ha equivalenti nella letteratura svedese; comunque sia, ormai da parecchio tempo si ha consapevolezza dei tratti geniali ed innovativi delle sue opere. Non bisogna dimenticare che i lettori bergmaniani di oggi, a differenza di quelli scettici della sua epoca, hanno la possibilità di applicare una prospettiva storico-letteraria alle sue opere e di constatare che Bergman attraverso il suo obiettivo fotografico rivolto verso “l’interno” ha creato un nuovo genere di romanzo, fino ad allora senza precedenti in Svezia, interpretato dai contemporanei come singolare, patologico, e addirittura contro natura. La maggiore voce della critica storico-letteraria odierna, rappresentata da Sven Delblanc, hanno comunque riabilitato l’opera di Hjalmar Bergman, paragonando il suo contributo rivoluzionario a quello di August Strindberg. Delblanc sostiene che se «Strindberg creò un linguaggio» allora «Bergman creò il romanzo svedese».2
In generale, pare che l’arte narrativa di Hjalmar Bergman sia stata definita come una combinazione fatta al contempo di anacronistico determinismo (in un periodo caratterizzato dalla fiducia nell’individuo), e di una tecnica narrativa innovativa, consistente nello svelare i lati più oscuri dell’anima attraverso minime e graduali insinuazioni; pertanto, anche se Bergman presentava soluzioni narrative nuove, nelle sue opere aleggia comunque un’atmosfera rassegnata, derivante dalla visione alienata della volontà umana, e contrassegno della generazione di scrittori a lui precedente, espressa ad esempio in Drömspel (“Un sogno”, 1901) di August Strindberg, nella novellistica di Per Hallström e nel Doktor Glas (“Dottor Glas”, 1905) di Hjalmar Söderberg. Si ricordi inoltre che lo stesso pessimismo schopenhaueriano e la decadenza ad esso connessa giunse in Svezia con qualche ritardo rispetto al continente europeo.
L’epica bergmaniana dimostra come personaggi con caratteri forti soccombano ai capricciosi capovolgimenti dell’esistenza; ma ciò che è specifico del modo di raccontare di Bergman è l’acutezza psicologica rivelata dallo scrittore quando passa dagli strati esteriori dell’uomo per arrivare a osservare la sua nudezza psichica, la sua insufficienza a difendersi e l’umiliazione davanti alla catastrofe imprevedibile che tutt’a un tratto annulla le condizioni dell’esistenza. In questo senso l’arte di Bergman significò una rottura tematica con la prosa realistica svedese a lui contemporanea, che comportava l’idealizzazione del protagonista. È lecito dire allora che l’epica bergmaniana, priva di illusioni, abbia anticipato l’espressionismo di stampo kafkiano che soltanto nel primo dopoguerra avrebbe avuto successo con Ormen (“Il serpente”, 1945) e De dömdas ö (“L’isola dei condannati”, 1946) di Stig Dagerman (1923-1954).
Il pessimismo di fondo in quasi tutte le opere tende a consolidare il tratto tragico ed è evidente che lo scrittore si identifica o almeno dimostra una forte empatia per il protagonista ”tragico”, un dato di fatto questo che tuttavia insufficiente ad instaurare un’equivalenza tra vita e creazione artistica (a differenza di Strindberg!), tranne in un importante caso, ovverosia nel Jac il clown. In questo metaracconto il tratto distintivo dello stile caldo, comico e pieno di empatia di Bergman si è consumato; un linguaggio sconnesso e aspro è tutto ciò che rimane nel protagonista del romanzo, Jac Tracbac, alias Jonathan Borck, alias Hjalmar Bergman, all’estero lodato, ma in patria offeso, insultato e disonorato. Lo possiamo riconoscere nel figliol prodigo che ritorna, ma senza rimorso, nel romanzo Nonna e nostro Signore, e nel ultimo romanzo Jac il clown quando egli intona l’apologia dell’artista davanti al pubblico pieno di aspettative:
Un clown deve essere coraggioso, se non altro perché è solo, contro o con onestamente è del tutto indifferente [...] E voi? Ahimé, figli miei, forse non capite quanto siete soli, ma io vi dico che bisogna essere coraggiosi.3
Hjalmar Bergman probabilmente non era «coraggioso». Nello stesso momento in cui egli trovò il coraggio per una resa dei conti con il proprio ruolo problematico di artista vennero anche meno le premesse che erano alla base della sua epica: il realismo acuto ma sensuale, il rappresentare la comicità delle situazioni, le descrizioni bizzarre dei personaggi; in una parola il modo di raccontare, genuino e svedese, che fece di lui un maestro di acutezza psicologica nella descrizione delle complicate parentele della provincia e di una società decadente.
La vita
Hjalmar Bergman nacque il 19 settembre 1883 nella cittadina Örebro in un ambiente agiato, esempio dell’alta borghesia svedese di allora. Il padre, Claes Bergman, era contabile in una banca e la madre, Fredrique Bergman, nata Elgérus, era figlia di miliardari; a fine secolo la cittadina Örebro contava 10.000 abitanti e si trovava in piena industrializzazione, fatto che provocò la chiusura delle fonderie e di altre strutture ”preindustriali”.4 La decadenza di una zona così semplice e genuina come Bergslagen, la caccia alla felicità degli ex-padroni di fonderie e dei proprietari terrieri attraverso affari a rischio e speculazioni in borsa, e l’effetto sulla borghesia cittadina dello sconvolgimento dell’ordine sociale hanno, come si può notare, un ruolo importante nel romanzo di successo I Markurells.
Hjalmar era il più giovane dei fratelli Bergman; sua unica compagnia furono le sorelle maggiori Ester ed Elna. Essendo di una grassezza esagerata veniva preso in giro dai suoi coetanei, i compagni di scuola. Durante tutta la vita lo scrittore si sentì, nei confronti dell’autoritario padre, come il figlio fallito. In una lettera alla moglie del 1917 egli svela:
E cosa ero io in realtà? Un bambino goffo, grasso ed impacciato. Gli adulti mi deridevano ed i bambini mi perseguitavano. Hai idea di quante umiliazioni ho dovuto sopportare durante i primi dieci anni di vita? Il mio cuore non aveva una corazza. Uno sguardo, una risata penetravano diritti nella carne viva. Allora ho dovuto imparare l’arte di parare i colpi. Mai incontrare una persona, grande o piccola, senza pensare già alla difesa… Sono diventato così abile in quest’arte […]. Ho racchiuso così bene il mio mondo, così bene che ho chiuso fuori me stesso.
E certamente era dotato nell’arte di dare forma al suo mondo immaginario, e durante gli anni del suo sviluppo la famiglia si accorse del suo straordinario talento. Ma, considerando ciò che Hjalmar Bergman descrive nelle succitate parole (ossia come l’universo immaginario divenne una camicia di forza), la sua produzione letteraria deve anche essere vista in relazione alla sua natura nevrotica, formatasi nei primi anni di vita. Fantasticare e dare una forma letteraria alle sue osservazioni acute divenne per Bergman un modo per riappropriarsi della vita stessa.
Dopo un anno di studi universitari ad Uppsala, nell’autunno del 1901 Bergman prese la via di Firenze dove sarebbe dovuto rimanere sei mesi per studiare la lingua, l’arte e la letteratura. Il padre si occupò di allogiare Hjalmar in Via Dei Serragli 162 a Firenze, presso il professor Nicati e la sua famiglia, conoscenti dei Bergman. Una targa commemorativa posta sul palazzo nel 1961, in occasione della celebrazione dei trent’anni dalla morte di Hjalmar Bergman, ci ricorda la permanenza di studio del giovane scrittore a Firenze.
Ancora una volta, attraverso i contatti personali del padre, Hjalmar è stato aiutato ad affacciarsi alla vita, verso esperienze determinanti, come quando, in occasione di una visita alla famiglia Lindberg, incontrò la sua futura moglie Stina: si sposarono nel 1908 ed ella diventò la sua amica intima, per Hjalmar lei rappresentò l’indispensabile «scudo verso l’esterno». Per tanti anni vissero una vita a due ma, a causa del temperamento irrequieto di Hjalmar, passarono in viaggio la maggior parte del loro matrimonio; la moglie diventò il parapetto verso l’esterno, e la paura di perderla si manifestò in una gelosia maniacale fino al punto di diventare, come vedremo, motivo centrale tra gli altri nel dramma Parisina. Tuttavia, sotto la superficie di stati paranoici, ibernava una natura omosessuale che Bergman a causa della morale del tempo non ebbe il coraggio di manifestare se non alla fine degli anni ’20; allora, anche il suo matrimonio si avviò verso la dissoluzione. Dopo un lungo periodo di comportamenti autodistruttivi, di rapporti omosessuali problematici, ed un crescente abuso di alcool e droghe, Bergman muore, a Berlino, il primo gennaio del 1931, completamente consumato dall’alcool. Aveva 47 anni.
La produzione letteraria
Secondo la divisione in periodi della storia letteraria svedese, la produzione di Hjalmar Bergman appartiene a quella ‘degli scrittori degli anni ’10’,5 ma essa occupa comunque una posizione a sé. Sotto vari aspetti tale corrente fa da ponte tra il simbolismo pieno, fiabesco e antirealistico degli anni ’90 ed il nuovo orientamento del XX, secolo sotto la stella della psicoanalisi e del realismo borghese, mentre l’opera di Bergman resta salda nella dimensione onirica di fine secolo. I due fattori dominanti, la potenza fantastica e l’arte brillante della parola, soprattutto nel primo periodo (quello ruotante attorno alla realizzazione di un’opera giovanile come il dramma biblico Maria madre di Gesù (1905), appartengono anch’essi agli anni ’90 della Lagerlöf, e si sarebbero successivamente fusi da un lato con il racconto realistico, dall’altro con il surreale e demoniacale carattere ‘notturno’ dell’anima. Il romanzo umoristico-grottesco Il testamento di Sua Eccellenza (1910) ambientato a Bergslagen, la provincia di provenienza di Bergman, ne è una prima prova.
A differenza però che per l’amico e coetaneo Ludvig Nordström (1882-1942), anch’egli uno dei narratori di spicco dell’ambiente provinciale svedese a cavallo tra i due secoli, per Bergman la descrizione della società fu il mezzo, mai il fine. Così si spiega la grottesca sensazione di irrealtà generata dall’idillio provinciale e che in linea di massima segna la maggioranza dei romanzi e della produzione teatrale di Hjalmar Bergman: una gran parte della produzione letteraria bergmaniana è stata ispirata da esperienze d’infanzia che lasciano tracce di un realismo convincente, una divergenza marcata dal simbolismo di fine secolo.
Tramite il padre ed il nonno dei quali quest’ultimo ha prestato alcuni tratti alla figura del vescovo in Il testamento di Sua Eccellenza Bergman fece la conoscenza di persone eminenti in campo economico; e la cittadina di Örebro, dove egli era cresciuto, fece da modello per Wadköping, quella che divenne la provincia letteraria di Bergman in, tra l’altro, I Markurells (1919). Tipicamente bergmaniane sono quelle dall’autore stesso battezzate come «krumelurerna»,6 ossia caricature umane, presentate in modo quasi grottesco, che dal romanzo Il testamento di Sua Eccellenza in poi fecero da elementi portanti nella narrativa bergmaniana.
In Komedier i Bergslagen (“Commedie nel Bergslagen”, 1914) lo scrittore trasferisce l’azione del racconto dalla cittadina alla campagna, per dar forma alle controversie tra due antiche famiglie della zona di Bergslagen e alla loro graduale decadenza morale (tema in cui sarebbe poi diventato un maestro). Così come la narrazione personale in En döds memoarer (“Le memorie di un morto”, 1918), con rilevanti tratti autobiografici, è una cronaca familiare di tenebrosa psicologia nella quale il protagonista Jan Arnberg ha scelto, per raccontare la propria storia personale ed avere la distanza necessaria dall’esistenza, di descriverla come allude il titolo del romanzo dal punto di vista di un morto vivente.
Così si avvicinò il momento del grande successo di pubblico con il capolavoro I Markurells, che venne adattato dallo stesso scrittore come soggetto sia per il teatro che per il cinema.
Il protagonista Harald Hilding Markurell dai capelli rosso demonio proprietario di una trattoria, ha un unico scopo nella vita, quello di aiutare il figlio Johan (l’unico essere umano verso il quale egli provi amore) a raggiungere una posizione al vertice della società. Egli è pronto a fare qualunque cosa, e durante l’esame di maturità del figlio, prima del giudizio finale, Markurell riesce a corrompere il collegio dei docenti offrendo loro un bel pranzo. Ma il cinico padre non fa a tempo a godere della vittoria perché la sua esistenza cade a pezzi quando viene a sapere che non è il padre biologico di Johan.
In superficie il romanzo dà l’impressione di essere un racconto burlesco, e così venne anche percepito dal grande pubblico a causa delle descrizioni di sapore rusticano; ma, quando meno ce lo aspetteremmo, Bergman fa scatenare i poteri degli abissi, affinché si ribellino alla logica della trama esteriore: la vera trama ha luogo in una dimensione irrazionale piuttosto che essere comandata dalle premesse fuggevoli della realtà.
I protagonisti di Bergman sono tipi solitari, spesso dotati di grande forza di volontà, che sfidano i confini di ciò che nella società è lecito per abitudine, come il fanatico frate Savonarola, e come il signor Markurell e le figure materne in Mor i Sutre (“La matrona di Sutre”, 1917), che non sono da meno. Un approfondimento delle figure femminili e dei loro ritratti psicologici è ravvisabile in Nonna e nostro Signore, dove la dispotica protagonista, ovverosia la nonna paterna, con pugno di ferro ha costruito la sua esistenza da capo famiglia. Ma quando il nipote illegitimo Nathan, l’unico a non accettare di sottomettersi al suo potere, ritorna sui suoi passi come il figliol prodigo, la costringe ad inginocchiarsi come simbolo di pentimento: all’anziana signora sembra un destino immeritato; per il lettore lei è una metafora dell’assurdità della vita, di tutto ciò che non si lascia racchiudere in una logica etica.
Hjalmar Bergman fu sempre attivo come drammaturgo, sin dagli esordi della sua attività; si nutrì all’inizio dello spirito di Maeterlinck e di Ibsen, come dimostrano i primi drammi, ma presto proseguì la sua strada con il dramma fatale Parisina, la cui realistica tecnica narrativa apriva la via al successo di pubblico ottenuto successivamente con la commedia Swedenhielms (1925). Ancora più importante come esempio di sperimentazione teatrale furono Marionettspel (“Spettacolo di marionette”, 1917), e più tardi Spelhuset (“La casa da gioco”, 1923) con influenze espressionistiche che comportavano un modo del tutto nuovo di fare teatro, e che richiamano alla mente la tecnica ‘onirica’ di Strindberg, che il pubblico dell’epoca tuttavia non dimostrava di apprezzare.
La tarda creazione artistica di Bergman comprese anche il cinema: egli fu infatti pioniere svedese nel mondo cinematografico e portò a termine la non indifferente cifra di 40 sceneggiature. Eppure il contatto con il mondo del teatro e del cinema costituì per Bergman un ulteriore passo verso la distruzione, verso l’abuso di droghe.
Le permanenze in Italia
Il 3 ottobre del 1901 Hjalmar Bergman arriva col treno a Firenze, all’età di 18 anni. In affitto con pensione completa dal prof. ;Nicati e famiglia, in Via dei Serragli 162, prese anche lezioni d’italiano dallo stesso professore. Era stato deciso dalla famiglia in Svezia che il figlio avrebbe dovuto dedicarsi agli studi d’arte.
Hjalmar è un instancabile visitatore di chiese e di musei, e con sensibilità innata instaura rapporti personali con le opere; predilige in modo particolare la pittura rinascimentale. Considerando la giovane età di Bergman, il tono arrogante ed i sentimenti forti nei commenti epistolari sembrano degli ingredienti del tutto naturali.
Durante una visita alla chiesa di Ognissanti, a due passi da casa, l’attenzione dello scrittore è catturata dal motivo di un affresco che rappresentava la famiglia Vespucci che riceveva la grazia dalla Madonna (si veda: Appendice iconografica); proprio questo gesto potrebbe essere stato decisivo per la messa in scena di Guidantonio Vespucci nel ruolo dell’io narrante in Savonarola e in generale per il suo interesse per personaggi ed ambienti rinascimentali: Sandro Botticelli, Baccio della Porta, Savonarola, il mecenate. Lorenzo de’ Medici e la sua corte di poeti come Angelo Poliziano, il neoplatonico Pico della Mirandola e note famiglie nobili; avrebbero tutti lasciato traccia nella produzione letteraria di Bergman. Durante la sua prima permanenza Hjalmar Bergman incamerò sequenze di immagini dalle visite ai musei e alle chiese, e impressioni dalle letture allora fatte, tali da lasciar tracce nella sua produzione letteraria.
Le lettere che egli scrisse a casa ci fanno intuire che avventura vertiginosa e solitaria dovette essere per un giovane amante della cultura immergersi in un autentico ambiente rinascimentale. Con la sua ben sviluppata capacità immaginativa l’autore rivisse gli avvenimenti storici nel corso delle sue innumerevoli passeggiate; durante quella stessa permanenza egli acquistò un certo numero di libri standard di base, in italiano: «70 volumi» di «35 autori» (lettera, Firenze, 18/12/1901) che egli aveva cercato nell’ambito della letteratura italiana. Bergman studiava attentamente, raccontava delle sue letture nelle lettere a casa, e si impegnava a «leggere Dante in lingua originale», confrontava storici come Machiavelli, Guicciardini e Villari e si pavoneggiava delle conoscenze acquisite e citava versi introduttivi della Divina Commedia.
Sempre durante quella permanenza Bergman iniziò a lavorare ad un progetto ambizioso su frate Savonarola, raccogliendo materiali e studi delle fonti che lo riportarono agli archivi fiorentini durante l’inverno del 1905, la tarda primavera del 1906 e la primavera del 1907, prima di ultimare il romanzo Savonarola: storia di un frate, nel 1908. Egli non dedicò altrettanto tempo a nessun altro progetto letterario e, a proposito di questo, si esprime in modo entusiastico poco dopo l’arrivo a Firenze, dicendo che gli era stato letteralmente «ipnotizzato» (lettera, Firenze, 4/11/1901). In verità, lo studio e la scrittura furono il suo modo di dare un significato ufficiale alla permanenza in Italia, e di raccogliere le forze dell’intelletto attorno ad un compito creativo. Che la permanenza a Firenze avesse un significato più profondo, che andava oltre gli studi d’arte concordati con la famiglia, Bergman lo sapeva fin dall’inizio:
Ho già quasi raggiunto con questo viaggio il mio scopo (nella sua interezza), almeno per quanto riguarda l’arte. Sono venuto per vedere l’arte, non in quanto artista, neanche in quanto critico d’arte o futuro critico d’arte (anche se nell’ultimo caso ho raggiunto degli obiettivi!). Sono venuto in quanto filosofo, per trovare una parte mancante del mio sistema, e credo di averla trovata.
[lettera, Firenze, 26/1/1902]
Hjalmar Bergman avrebbe ricercato l’Italia molte altre volte. Una volta sposato si stabilisce con la moglie nell’elegante quartiere Parioli a Roma, e a tale sistemazione segue un periodo insolitamente lungo di armonia, durante il quale egli scrive Il testamento di Sua Eccellenza, inframezzandolo con la stesura della raccolta di novelle Amourer (1910) in cui emergono motivi italiani assai evidenti.
Lo scrittore visita Firenze per l’ultima volta nella sua vita una vita che allora gli era diventata odiosa nell’inverno del 1929; risiede con la moglie Stina nel popolare quartiere Borgo San Frediano 8, vicino Via dei Serragli, come nel suo primo soggiorno, ma i tempi duri e la miseria avevano cambiato l’atmosfera affascinante e rinascimentale di fine secolo, e la città arida era diventata specchio della sua decomposizione fisica e psicologica, ormai al culmine. Fu un periodo insopportabile per i due coniugi, in particolare per Stina, che disperatamente cercava di sollevare il marito dal protratto abuso di alcool, ma anche per lo scrittore stesso, che aveva fatto quest’ultimo disperato tentativo di trovare rifugio a Firenze, contro l’inverno (e contro la morte). Ma a Firenze l’inverno del 1929 fu il più freddo inverno che si ricordasse a memoria d’uomo, e rese più intensa l’angoscia della sua morte. Dal letto egli guardava il paesaggio attorno al fiume Arno che si irrigidiva e ‘moriva’, e che nel momento della massima sofferenza divenne immagine della propria lotta contro la morte: «ghiaccio e correnti che si combattono […] l’ultimo respiro di un morente».
La catastrofe era già realtà quando lo scrittore fu riportato a casa in treno, ma nonostante tutto Hjalmar Bergman si sarebbe rialzato per il suo canto del cigno in Jac il Clown.
Yria Haglund
Note
1 La biografia tuttora più completa sul primo Hjalmar Bergman è lo studio del 1942, eseguito da Erik Hjalmar Linder, Hjalmar Bergmans ungdom; un’importante fonte di informazioni è pure lo studio in tre parti che illustra il rapporto tra arte e vita dello scrittore: Sju världars herre (1962), Kärlek och fadershus farväl (1973) och Se fantasten (1983). Questi studi sono i miei punti di partenza.
2 Strindberg skapade ett språk, [medan] Bergman skapade den svenska romanen», Den svenska litteraturen, 1989, vol. V, p. 189.
3 En clown måste vara modig, om inte annat så därför att han står ensam mot eller med det är uppriktigt just detsamma [...] Och ni själva? Ack, mina barn, ni förstår kanske inte hur ensamma ni är men jag säger er att man måste vara modig: Clownen Jac.
4 ‘Bruk’ in svedese, ovvero zone ”industriali”, dove di solito si raffinava materie prima, ferro, legno e vetro, vicini ai fiumi o ai laghi.
5 Tradotto letteralmente dallo svedese ”tiotalisterna”.
6 ”Krumelurer” significa lettteralmente ‘ghirigori’ e/o ‘persone originali.