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Quando il disegno della mia vita sarà completo, vedrò, o altri vedranno una cicogna? - K. BLIXEN
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Cat.n. 097

Costanzo Preve

Storia della dialettica.

ISBN 88-7588-083-2, 2006, pp. 192, formato 140x210 mm., € 15,00.

In copertina: Costantin Brancusi, La Sagesse de la Terre, 1908. Pietra saponaria. Bucarest, Muzeul National de Arta Romaniei.

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15,00

Dialettica e filosofiatc "Dialettica e filosofia"
nella storia bimillenariatc "nella storia bimillenaria"
del pensiero occidentale

Il lettore ha sotto gli occhi, e potrà liberamente giudicare, una sintetica storia della dialettica nel pensiero occidentale. Si tratta in realtà di una storia molto “breve”, anzi “brevissima”. Non ho però ritenuto opportuno di dilungarmi, non certo perché non ne valesse la pena, ma perché è inutile portare vasi a Samo, e cioè, detto fuor di metafora, aggiungere altri inutili quintali di carta ai quintali già esistenti dedicati alla dialettica, alle differenti definizioni che ne sono state date, ed infine alle monografie specialistiche sui vari pensatori più o meno noti che se ne sono occupati. Di questo farò cenno nella nota bibliografica generale commentata, che è anche in un certo senso un capitolo a parte. In questa premessa mi limiterò quindi ad alcune segnalazioni utili per la lettura.
In primo luogo, è chiaro che in un lavoro del genere è impossibile evitare di cadere in errori o in fraintendimenti. Non si tratta ovviamente delle interpretazioni che darò a molti pensatori, interpretazioni del tutto anomale ed atipiche ma che rientrano nella mia più completa libertà ermeneutica, quanto di errori veri e propri. Se è così, prego tutti coloro che per caso rilevassero questi errori di scrivermi e di segnalarmeli per una eventuale seconda edizione migliorata. Il mio indirizzo è: Costanzo Preve, via Piazzi 33, 10129 Torino. Nella generale dissoluzione contemporanea di ogni comunità indipendente e “gratuita” di studiosi, siamo tornati al “medioevo” degli indirizzi personali. Ma forse è meglio così.
In secondo luogo, è chiaro che non ho potuto né soprattutto voluto scrivere una storia “completa” della dialettica nel pensiero occidentale. Vi sono molti autori “saltati”, che pure sarebbero stati interessanti da analizzare. Tuttavia, non ho perseguito di proposito una pur possibile “completezza” enumerativa, preferendole un discorso più lineare e sintetico. Il mio discorso, infatti, in un certo senso “precipita” nel quindicesimo ed ultimo capitolo, in cui tento di disegnare un profilo sommario del tempo storico in cui ci è dato di vivere proprio alla luce dell’eredità dialettica del pensiero occidentale. A questo punto, anche se sono appena accennati Epicuro, gli stoici, eccetera, il danno non sarà grave. Il lettore ha a sua disposizione storie della filosofia ricchissime e dettagliate.
In terzo luogo, il lettore si troverà di fronte non solo ad alcune novità interpretative, come è normale che sia, ma anche di fronte ad alcune innovazioni filosofiche relativamente “scandalose”. Nei manuali di filosofia vengono in genere classificati come “idealisti” tre pensatori tedeschi dell’epoca romantica (Fichte, Schelling e Hegel), mentre Marx viene in genere connotato come critico dell’idealismo e quindi come materialista, più o meno dialettico (anche se pochi giungono fino al punto di connotarlo erroneamente come fondatore del “materialismo dialettico”, togliendo in questo modo l’onore della scoperta al buon Engels). Nella mia interpretazione, invece, non si parla di Schelling (non perché non lo meriti, ma perché non fa parte a mio avviso dell’idea-lismo propriamente storico e sociale), ed in compenso vengono classificati come idealisti dialettici Fichte, Hegel e Marx. Questo può stupire o scandalizzare a piacere, o anche solo sollevare un sorrisino di compatimento o suscitare una frettolosa alzata di spalle. Non intendo convincere nessuno, ma solo portare socraticamente (ed aristotelicamente) alcuni ragionamenti “probabili” a supporto di questa interpretazione.
In quarto luogo, infine, suggerisco al lettore di collocare questa mia breve storia della dialettica nel contesto più ampio ed articolato dei miei lavori più recenti, che ricorderò nella nota bibliografica generale. Se infatti sono andato un po’ “di fretta” su alcuni decisivi argomenti, ciò è dovuto al fatto che mi sono soffermato più ampiamente su di essi in altre sedi. Così facendo, credo che questo mio lavoro ci abbia guadagnato in chiarezza e snellezza.
Viviamo in un’epoca storica apparentemente adialettica, o se si vuole poco dialettica. Ciò è già avvenuto altre volte in passato, e questo deve servirci da sia pur povera consolazione. Il tempo “generazionale” della nostra vita è breve, e non coincide praticamente mai con i tempi storici più lunghi dei movimenti storici e sociali decisivi. Forse, come dice un proverbio cinese, è un bene non dover vivere in un pe-riodo storico “interessante”. Coloro che si trovarono ad avere vent’anni nel 1914 o nel 1939, vissero indubbiamente in un’epoca storica più interessante della stagnazione morale ed antropologica in cui siamo (apparentemente) immersi, ma ne pagarono anche prezzi per noi quasi incredibili.
E allora si potrebbe dire come nel film Quarto Potere a proposito della stampa: è la dialettica, bellezza!

tc "del pensiero occidentale"

La filosofia è un’attività sociale, e come tutte le altre attività sociali emerge direttamente dal lavoro e dal linguaggio umani, lavoro e linguaggio che hanno una peculiare caratteristica “generica” rispetto al lavoro di molti animali (castori, api, termiti, eccetera). A suo tempo Karl Marx rilevò acutamente questa differenza essenziale fra il comportamento animale ed il comportamento umano, osservando che mentre l’architetto deve anticipare nel suo pensiero il progetto della costruzione che si accinge a fare, l’ape invece non costruisce l’alveare sulla base di una progettazione libera preventiva, ma sulla base di un suo corredo genetico integralmente programmato. Da questa osservazione di Marx è passato un secolo e mezzo di studi etologici comparativi sul comportamento animale ed umano, ma non mi sembra che vi sia stato aggiunto nulla di rilevante.
In quanto architetti del peculiare e differenziato legame sociale che costruiscono, gli uomini filosofeggiano, mentre le api non lo fanno. Si potrebbe però obiettare che gli uomini non hanno sempre filosofeggiato, mentre invece hanno sempre dovuto mangiare, bere e difendersi dal freddo e dal caldo. Le società (impropriamente) dette “primitive” hanno costruito indubbiamente attività in vario modo simboliche (miti, totemismo, magia, eccetera), ma non risulta che abbiano anche aperto uno specifico spazio “filosofico” nelle loro comunità.
L’uomo dunque indubbiamente filosofeggia “per natura”, perché questo deriva appunto dalla sua specifica natura di architetto e non di ape, ma a questa potenziale natura deve anche aggiungersi “in atto” uno spazio sociale particolare, integralmente storico, in cui questa potenzialità naturale possa esplicarsi. Il lettore si accorgerà a questo punto che sono stato costretto ad impiegare una categoria filosofica che storicamente risale ad Aristotele, quella del passaggio dalla potenza all’atto.
Se la filosofia è una attività storica e sociale, anche le categorie verbali e concettuali che utilizza saranno di conseguenza storiche e sociali. E sarebbe infatti ben strano che, se la filosofia è un’attività storica e sociale, le categorie verbali e concettuali che usa non lo fossero, e fossero invece per così dire “cadute dal cielo”.
Eppure, è proprio questa la finzione insostenibile con cui sono costruite più del novanta per cento delle storie occidentali della filosofia. A un certo punto, in modo misterioso, qualcuno comincia a porsi lo strano problema se il mondo in cui viviamo sia derivato dall’acqua, dal fuoco o dall’aria oppure se ci sia qualcosa di stabilmente ed eternamente vero o se invece tutto sia relativo e convenzionale. Come è possibile una simile assurdità?
È possibile, è possibile. Ed è possibile, appunto, perché anche questa assurdità ha una specifica origine sociale, e cioè quella che potremo chiamare l’ideologia della destoricizzazione volontaria (o, più esattamente, in un primo tempo inconsapevole, e poi consapevole).
Nella misura in cui il soggetto pensante tende a pensare ed a concepire il mondo sociale in cui vive come una sorta di eternità permanente i cui valori riproduttivi sono insuperabili, e poco importa che siano schiavistici, feudali, capitalistico-liberali oppure infine staliniano-comunisti, eccetera, è inevitabile che si accompagni a questo modo di vedere anche una parallela destoricizzazione concettuale, in cui la genesi storica dei concetti è cancellata ed al suo posto si afferma una sorta di “validità” astratta.
Il primo grande filosofo che è caduto in questo (comprensibile) errore è stato forse Aristotele (e vedremo nel capitolo quarto che è proprio per questa ragione che in lui la dialettica è sottovalutata).
Per fare un esempio più moderno, la grande storia della filosofia di Nicola Abbagnano, che è pure ricchissima di profondità e di erudizione, è integralmente costruita su questa rimozione della genesi storica e sociale dei concetti. E questo non è un caso, perché tipico del cosiddetto “liberalismo laico” è l’assolutizzarsi come forma matura della razionalità in sé.

Ma torniamo al carattere integralmente sociale dell’attività filosofica. Questo carattere integralmente sociale permane anche e soprattutto quando il filosofo vive integralmente isolato e medita in solitudine.
Eraclito di Efeso, ad un certo punto della sua vita, era talmente schifato dal comportamento dei suoi concittadini che andò a vivere isolato fra le pietre di un tempio, e la sola attività “sociale”che continuò a svolgere fu il giocare a dadi con i ragazzini. Eppure, se ne converrà facilmente, anche questa scelta di sdegnosa solitudine era integralmente “sociale”, perché aveva come genesi della scelta di esodo, secessione ed isolamento lo schifo che gli facevano i suoi cittadini corrotti e maneggioni.
Anche Robinson Crusoè filosofeggia nella sua isola solitaria senza poter parlare con nessuno, ma tutti i suoi pensieri derivano da un monologo interiore che è in realtà un dialogo silenzioso o con sé stesso sdoppiato o con un interlocutore evocato nella sua fantasia sulla base della sua precedente educazione, quella cioè che aveva preceduto il naufragio.
La filosofia come attività sociale si serve dunque di parole e di concetti che hanno anch’essi un’integrale genesi sociale, di cui è utile fare sempre la “deduzione storica”. Noi esprimiamo infatti i nostri concetti astratti in parole, esattamente come esprimiamo in parole gli oggetti materiali e gli eventi che ci riguardano o di cui siamo venuti a conoscenza. Ho letto da qualche parte che gli esquimesi del Canada hanno trentanove parole per indicare la neve, e non alludo ad aggettivi legati ad un unico sostantivo (del tipo neve fresca, neve bagnata, neve ghiacciata), ma proprio a trentanove sostantivi diversi. E questo non deve stupire, perché nella vita materiale degli esquimesi, e quindi nella loro riproduzione individuale e sociale, la neve ha un’importanza centrale e bisogna sempre trattarla in modo differenziato, laddove immagino che fra i pigmei della foresta equatoriale del Congo, dove non nevica mai, non ci sia nessun termine per indicare la neve, ed i bambini pigmei dicano neige o snow sulla base della loro precedente colonizzazione europea, francese o inglese.
Sarebbe allora strano che il linguaggio filosofico e le categorie che esso usa non seguisse lo stesso principio della neve degli esquimesi o della foresta equatoriale dei pigmei. Le due lingue filosofiche principali della tradizione occidentale sono state il greco antico prima ed il tedesco poi, e sarebbe assurdo slegare la genesi di questo lessico dalle condizioni storiche e sociali in cui è nato ed in cui è stato poi adottato. Eppure è ciò che si fa continuamente.
Il termine greco logos, il termine indiano dharma, il termine tedesco Entfremdung (alienazione), eccetera, non possono certamente essere tradotti nella lingua degli esquimesi e dei pigmei perché non corrispondono a nessuna esperienza collettiva ed individuale di questi popoli. Nello stesso tempo, tutti questi termini sono in via di principio traducibili con lunghissime perifrasi esplicative, e nello stesso tempo anche dopo queste lunghissime perifrasi esplicative essi non risultano affatto sovrapponibili a termini “locali”.
Il lettore deve allora prestare un’attenzione particolare a questo insieme di problemi: i concetti derivano da parole, le parole nascono da precise situazioni naturali e sociali (la neve, la ragione, la democrazia, eccetera), le parole ed i concetti sono in linea di massima traducibili, ma nello stesso tempo non sono sovrapponibili.
E questa non-sovrapponibilità è appunto il sintomo della loro preventiva genesi storica e sociale. I due poli opposti che ci interessano (e la dialettica è appunto sempre fatta di poli opposti in correlazione obbligata) sono allora un polo positivo (la traducibilità) ed un polo negativo (la non-sovrapponibilità).
Per capire meglio quanto ho sinora detto possiamo fare un sommario esame comparativo fra la filosofia greca antica e la filosofia cinese antica. Questo esame comparativo è particolarmente utile perché, allo stato attuale delle fonti, è possibile escludere con decisione ogni rapporto fra le due civiltà, che ignoravano integralmente l’esistenza l’una dell’altra. Mentre è possibile documentare legami generalmente indiretti fra il pensiero greco e quello egizio, anatolico, assiro-babilonese, persiano, eccetera, un rapporto fra il pensiero greco e quello cinese può essere tranquillamente escluso. Se allora ci mettiamo nell’ottica di un loro sistematico esame comparativo (ottica in cui lo scrivente si è messo, sia pure in modo necessariamente dilettantistico per quanto riguarda il lato “cinese”) risultano molte cose interessanti, che per brevità compendierò qui in due sole grandi classi.
In primo luogo, emergono concetti molto simili, ed a prima vista addirittura eguali, come ad esempio quello di struttura permanente della riproduzione complessiva della natura e della società e della corrispondente collocazione umana in essa (il logos in greco ed il tao in cinese) e quello di contraddizione dialettica immanente nell’apparente unità degli eventi e dei concetti (il polemos di Eraclito e la scuola dello yin-yang della dialettica cinese antica). Da questo fatto si può dedurre, o io almeno deduco, che gli uomini associati in comunità, posti di fronte a situazioni comparabili di crisi dei significati etici della loro riproduzione abituale, reagiscono elaborando sistemi concettuali largamente simili, o almeno comparabili e traducibili. Deduco inoltre da questo fatto una seconda conseguenza, ancora più importante della prima, e cioè quella della sostanziale unità razionale ed antropologica del genere umano.
In secondo luogo, tuttavia, i sistemi concettuali greco e cinese non sono per nulla sovrapponibili, e questa non-sovrapponibilità non può essere seriamente spiegata se non con la differente genesi storica e sociale dei concetti stessi. In altre parole, il logos greco ed il tao cinese non ricoprono lo stesso spazio semantico.
Dal termine logos emerge con il tempo una sempre maggiore differenziazione fra il macrocosmo naturale ed il microcosmo sociale, con la conseguente differenziazione fra soggetto ed oggetto, o più esattamente fra soggetto conoscente ed oggetto conosciuto. In questo spazio concettualmente divaricato può sorgere da un lato l’idea monoteistica e poi teistica della differenziazione fra un Dio creatore ed un mondo creato, e dall’altro l’idea di una storia umana che si differenzia da quella ciclico-naturale per essere invece lineare, orientata e “progressista”.
Dal termine tao emerge invece una visione del mondo in cui natura e società sono maggiormente fuse insieme in una logica riproduttiva comune, ed in cui non è possibile alcuna “fessurazione” dalla quale possa emergere una divinità monoteistica pensata in modo antropomorfo come creatrice e progettista del mondo stesso.
Secondo il sinologo di Lipsia, Moritz, che a suo tempo mi ha iniziato alla filosofia cinese, questo è dovuto anche e soprattutto a ragioni di genesi materiale e geografica. In Cina il peso dominante dell’agricoltura nella riproduzione sociale, unito alla necessità periodica di lavori collettivi di tipo idraulico, ha portato ad una minore differenziazione fra la riproduzione naturale e quella sociale, mentre in Grecia, data la natura del territorio e l’importanza decisiva della navigazione e del commercio marittimo, il mondo sociale (e quindi storico) ha potuto differenziarsi maggiormente da quello naturale.
Sarebbe allora assurdo pensare che le categorie filosofiche astratte siano “piovute dal cielo”, e non abbiano nessun rapporto genetico con le condizioni sociali circostanti.
Con questo non voglio affatto sostenere un rigido determinismo di tipo geografico-economico nella genesi complessiva dell’attività filosofica. La scuola del maestro Mo era cinese, eppure sosteneva l’esistenza di una divinità monoteistica di tipo personale, mentre Baruch Spinoza era europeo al cento per cento, eppure la sua concezione panteistica ed immanentistica del mondo, depurata da ogni illusione monoteistica di tipo personalistico, era per molti aspetti simile alla sapienza filosofica orientale.
In altri termini, l’uomo come ente naturale generico è prima di tutto un ente libero, e su questo punto tornerò molto spesso, in particolare nel capitolo undicesimo dedicato a Karl Marx.
Torniamo invece ora al discorso principale che intendo condurre in questa introduzione. E chiediamoci subito: è possibile proporre una solida definizione univoca e concordata di quali siano l’oggetto ed il metodo della filosofia, oppure si tratta di una illusione impossibile?
La risposta non può essere che no. Si tratta di un’illusione impossibile. È certamente possibile proporre una definizione personale di filosofia e poi – in base a questa definizione assunta come postulato iniziale – scrivere mille pagine rigorose e senza contraddizioni logiche (ad esempio, Spinoza lo ha fatto). È invece impossibile raggiungere un’unanimità sociale talmente perfetta da permettere l’enucleazione concordata volontaria di una definizione unica di filosofia, sia per quanto riguarda l’oggetto che per quanto riguarda il metodo.
A volte nella storia si costituiscono dittature talmente pervasive e permanenti da imporre per un certo periodo di tempo un’unificazione forzata e statualmente imposta dell’oggetto e del metodo della filosofia (e ciò è per esempio avvenuto nella teologia cristiana e musulmana medioevale, cui era imposta la premessa dell’esistenza di Dio, o nello stalinismo sovietico, in cui l’oggetto ed il metodo della filosofia erano forzosamente identificati con una particolare interpretazione obbligata dell’ideologia di partito marxista-leninista). Questo, però, non può durare per sempre, a causa appunto del carattere generico ed aperto dell’ente naturale umano (Grattungswesen). È allora tipico e specifico della filosofia, o più esattamente della pratica filosofica, il non poter mai giungere ad una unificazione concordata dell’oggetto e del metodo. E questo, lungi dall’essere una debolezza della filosofia, è proprio la sua forza.
Le scienze naturali moderne (astronomia, fisica, chimica, biologia , eccetera) hanno appunto come caratteristica quella di aver saputo conseguire un’unificazione mondiale concordata sia dell’oggetto che del metodo. Questo è avvenuto, però, sulla base della riduzione del problema filosofico della verità ai due problemi distinti e non coincidenti della certezza e dell’esattezza, più esattamente della certezza fisica e dell’esattezza matematica.
Esiste ovviamente (e non potrebbe essere diversamente) anche una scuola filosofica che identifica l’oggetto ed il metodo della verità con l’oggetto ed il metodo della certezza e dell’esattezza, e si chiama positivismo, così come sono esistite ed esistono scuole filosofiche che negano la pertinenza della stessa idea di verità e la considerano un’illusoria proie-zione religiosa, o più esattamente un’inutile duplicazione razionalistica della religione. Questa “pluralità” è allora del tutto normale.
Tutti capiscono che è un bene, e non certo un male, che la filosofia non possa raggiungere un’unificazione “scientifica”concordata del suo metodo e del suo oggetto. Se questo fosse possibile, ma per fortuna non lo è, l’umanità diventerebbe uno squallido e noioso gregge robotizzato. Ci sono oggi in movimento gigantesche forze storiche che tendono proprio a questo, a trasformare cioè l’intera umanità in uno squallido e noioso gregge robotizzato di consumatori distinti solo per livelli di reddito e quindi di capacità di acquisto, in modo che la diversità umana diventi solo un caso particolare della merceologia.
Per sua natura, la filosofia non può essere “organizzata”, e quindi non può essere neppure “normalizzata”. Possono però essere organizzate e normalizzate, almeno per un certo periodo, le sue pratiche ufficiali e “politicamente corrette” di tipo accademico ed editoriale. E questo è appunto ciò che avviene oggi. Ma esiste un fattore di lungo periodo che ostacola la realizzazione di questo progetto normalizzatore da incubo, ed è appunto la dialettica. E questo consente appunto la trattazione congiunta della filosofia e della dialettica, secondo il titolo di questa introduzione.
A questo punto, qualche lettore vorrebbe forse una prima buona elencazione dei diversi significati storici e teorici dei due termini “filosofia” e “dialettica”. Nulla di più facile, soprattutto per chi è in possesso di alcuni buoni dizionari filosofici, e non solo in lingua italiana. Non mi sembra proprio il caso. Si tratterebbe di una erudizione falsamente rassicurante, e già Platone metteva giustamente in guardia dalle definizioni scritte ed “immobili” che non possono rispondere.
A mio avviso un saggio filosofico non deve avere la struttura narrativa di un documento burocratico, che nel titolo enuncia già tutto quello che verrà detto dopo, ma del romanzo poliziesco, in cui il lettore all’inizio non sa ancora “come andrà a finire”, ed anzi si arrabbierebbe molto con coloro che glielo dicessero rovinandogli così il piacere della lettura.
È invece sensato che io dia subito le mie personali definizioni provvisorie, e revocabili in qualsiasi momento previo convincimento della loro erroneità e della loro insostenibilità, di filosofia e di dialettica, sia per quanto riguarda l’oggetto che per quanto riguarda il metodo. Non sarebbe neppure necessario farlo, perché dovrebbero risultare indirettamente dalla lettura dei capitoli. Ma lo faccio egualmente in nome del detto per cui la sola “oggettività” possibile in filosofia, in assenza delle procedure di verificabilità e di falsificabilità proprie delle scienze naturali moderne, è l’esplicitazione chiara delle proprie premesse.
Per quanto riguarda la filosofia, essa ha per me come oggetto la conoscenza veritativa dei problemi irrisolvibili della condizione umana, ed il suo metodo è quello dialogico, fondato sullo scambio di vedute sistematico, critico e sempre più approfondito.
Il lettore può stupirsi di una apparente contraddizione logica, che evidentemente è voluta: come è possibile che si possa avere una conoscenza veritativa, se si ammette che si tratta di problemi in via di principio insolubili? Ma la contraddizione a mio avviso è solo apparente, e fondata su di un equivoco linguistico e concettuale: i problemi in via di principio solubili (dando qui per scontato che comunque questa solubilità è sempre temporanea e soggetta a revisioni epistemologiche radicali) lo sono in base a categorie come la certezza, l’esattezza o la convenzione costituzionale, legale, giuridica e giudiziaria. La verità invece ha come oggetto ciò che è insolubile in via di principio, ma che egualmente fa da orizzonte e da prospettiva per l’agire umano. Ed allora il metodo non può che essere il dialogo, inteso però come dialogo libero, effettuato con amicizia e benevolenza ed infine interminabile (più esattamente, il cui termine è dato solo dalla mortalità umana individuale, che appunto “interrompe” il dialogo, e non può certamente risolverlo).
Per quanto riguarda la dialettica, la definisco come la logica di questa irrisolvibilità. La dialettica, appunto, “scioglie” sempre ogni irrigidimento storico e sociale che si presenta come definitivo, e che ovviamente non lo è. Se questo è il suo oggetto, il suo metodo è l’ontologia, ove per “metodo ontologico” si intenda la corretta individuazione delle categorie specifiche di ogni campo del cosiddetto ”essere”, sia naturale che sociale.
Abbiamo allora, lo ricordo ancora una volta, quattro categorie distinte che, tenute opportunamente a mente, possono aiutare il lettore a districarsi in questo percorso che gli propongo: la filosofia ha come oggetto la conoscenza veritativa di problemi in via di principio irrisolvibili, ed ha come metodo il dialogo, mentre la dialettica è la logica di questa irrisolvibilità, ed ha come metodo l’ontologia, e cioè il chiarimento delle categorie specifiche di ogni “regione” dell’essere che si ha di fronte.
Il discorso sarebbe ancora lungo, ma mi sono ripromesso di cercare di essere molto breve e sintetico in questa storia della dialettica. Quanto ho infatti per ora enunciato in forma necessariamente apodittica dovrà essere chiarito e motivato in modo non certo conclusivo, ma almeno sufficiente per un primo approccio analitico. Ed è quello che cercherò di fare nei quindici capitoli che seguiranno.



Ci rivolgiamo a lettori che vogliano imparare qualcosa di nuovo, che dunque vogliano pure pensare da sé (K. Marx). – Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada (Eraclito). – ... se uno ha veramente a cuore la sapienza, non la ricerchi in vani giri, come di chi volesse raccogliere le foglie cadute da una pianta e già disperse dal vento, sperando di rimetterle sul ramo. La sapienza è una pianta che rinasce solo dalla radice, una e molteplice. Chi vuol vederla frondeggiare alla luce discenda nel profondo, là dove opera il dio, segua il germoglio nel suo cammino verticale e avrà del retto desiderio il retto adempimento: dovunque egli sia non gli occorre altro viaggio (M. Guidacci).

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