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Quando il disegno della mia vita sarà completo, vedrò, o altri vedranno una cicogna? - K. BLIXEN
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Cat.n. 202

Katherine Mansfield

Poesie e prose liriche. Introduzione, cura e traduzione di Maura Del Serra. Testo originale a fronte

ISBN 978-88-7588-117-7, 2013, pp. 288, formato 140x210 mm., Euro 20 – Collana “filo di perle” [8]

In copertina: Berthe Morisot, La glace, 1876, Madrid, Museo del Prado.

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20,00

 

 Né «poeta occasionale» come riduttivamente la definiva Vincent O’ Sullivan, né certo poeta in primis, nella folgorante e tenace intensità creativa della sua breve pa­rabola vitale Katherine Mansfield sentì e praticò la poesia come intimo, sperimentale, spesso discontinuo ma necessario laboratorio di coagulazione alchemica dei temi dispiegati e maturati in scolpita soluzione espressiva nelle sette raccolte dei suoi racconti: dagli acri bozzetti satirici di esordio, In A German Pension (1912) al postumo, rarefatto e dolente Something Childish but Very Natural (1924), che portarono a rapida, ineguagliata perfezione il genere della short story nell’ambito del modernismo europeo. Come una «lezione di canto» – per citare uno dei suoi titoli narrativi più noti – che la Mansfield si sia assiduamente autoimpartita col supporto esplicito delle voci dei “maestri” nella vicina stanza della memoria, la sua poesia introduce, accompagna e si fonde, senza mai annullarsi, con gli “improvvisi”, i “preludi”, gli “scherzi”, le “suites” ed i “quartetti” cameristici dei racconti stessi (la similitudine è d’obbligo, non decorativa né sentimentale ma strutturale per Katherine, musicista per vocazione adolescenziale e per passione amorosa).

Un discanto, quindi, quantitativamente minoritario ma sottilmente fecondo, articolato e scandito nei Leitmotive e nelle forme metriche – per lo più tradizionali o rivisitate con relativa libertà ritmico-sintattica – del suo piccolo Bildungsroman lirico-meditativo (così spesso parallelo o coessenziale alle lettere e al Diario): vi appare, sotto specie più direttamente autobiografica, a tinte elegiaco-ironiche e fiabesche, il gusto teatrale della proiezione multipla e mimetica del proprio io nei personaggi e nei “tipi” della vivace comédie humaine novecentesca che popola i suoi racconti, pervasi da quell’esigenza di oggettività cristallina e di pathos tendenzialmente im­personaIe che Katherine definì, nella maturità, come «velocità, economia, chiarezza», dettata dalla sua «religione del lavoro» e dal «coraggio di confrontarsi con qua­lunque cosa»: un coraggio animato a sua volta da una volontà testimoniale assoluta, sintetizzata nell’immagine vangoghiana della propria arte come un «inchiodare l’orecchio sulla porta, per sentire la voce di chi è fuori».

Il ventennio abbracciato dalla sua officina poetica – di cui questa edizione italiana si propone di offrire un panorama il più possibile esaustivo, se non certo ne varie­tur – prende le mosse da un mannello assai giovanile, poi escluso dalle edizioni dei racconti, di “vignette”, “schizzi”, “studi” in prosa liricizzata, per lo più ambientati in interni notturni, in sognanti «serre calde» domestiche od ospitali, animate dal fuoco del caminetto, e contrapposte ad esterni invernali inclementi ed ostili, isolani o londinesi che siano, spesso contemplati dalla finestra-osservatorio (I Look Through the Window, Through the Autumn Afternoon, The Winter Fire, The Firelight). Sono esercizi scopertamente tributari della koinè decadente europea di fine ’800 – l’eredità del poème en prose baudelairiano, l’adorato Wilde, il prediletto Cechov, Hardy, Ibsen, D’Annunzio, Verlaine, De La Mare, Symons, Dowson ... – e dei suoi grandi antecedenti barocchi e romantici inglesi, che si confermeranno come fonti costanti di Katherine: Shelley, Keats, Wordsworth, Coleridge, Lamb, De Quincey, gli elisabettiani e «il suo Shakespeare» fittamente annotato: quelli che lei definiva tout court «i Poeti» sui quali «c’è una luce», ovvero «il nostro gruppo particolare», aggiungendo con sicurezza elettiva: «Questa è la gente con cui voglio vivere, questi sono gli uomini che sento nostri fratelli», destinati a presidiare Heron, il suo regno-rifugio fantastico (lettera del 5 marzo 1918 al marito John Middleton Murry).

Dai suoi «fari» romantico-decadenti, e dalla loro pervasiva eredità simbolista e crepuscolare, la Mansfield mutua e fa subito proprio il vasto filone tematico delle poesie per e sull’infanzia (A Day in Bed, The Candle Fairy, The Sea Child, The Opal Dream Cave, The Town Between the Hills), in cui profonde e complesse componenti autobiografiche inglobano la nostalgia del primigenio paradiso perduto neozelandese e la presenza altrettanto primigenia dell’Ombra perturbante, del minaccioso e perenne «fantasma che la atteriva», insidiandole la percezione arguta e gioiosa dell’armonia vitale, intima e cosmica, orchestrata dalle presenze e dalle voci della fiorente natura vegetale ed animale. Il tema infantile, ancora in sintonia con l’eredità romantica, assume così ben presto – come già in Italia nella poesia del Pascoli – la valenza di doppio del motivo funebre-spettrale, sia in relazione alla ferita mai chiusa della mancata maternità (Do you see him?, There was a Child Once) sia a quella successiva, altrettanto immedicata, della tragica morte in guerra del «fratellino» Leslie, già protagonista di teneri idilli memoriali (When I Was a Bird, Little Brother’s Secret, Little Brother’s Story, The Grandmother), co-protagonista della recherche di Prelude, e celebrato nel nitido epicedio, dal simbolismo sacrificale e quasi cristologico, di To L.H.B. (1894-1915): l’elaborazione di quest’ultimo lutto fu così dolorosamente acuta da suscitare la dichiarata gelosia di John, che un quarantennio dopo confes­sava, nella nota ad una delle lettere inviategli nel dicembre 1915 da Katherine: «Pensavo stupidamente che il fratello morto avesse preso nel suo cuore il posto che mi apparteneva».

La plurima costellazione tematica degli affetti si irradia in queste liriche, toccando via via tutti i nodi autobiografici della Mansfield: dalle languide morbidezze Liberty degli schizzi omoerotici (Westminster Cathedral, Leves Amores, Through All the Autumn Afternoon, Summer in Winter) al rapporto ambivalente di odio-amore e di insofferenza-riconoscenza verso la fedele Ida Baker (The Secret, The Meeting), fino alle avventure dell’eros eterosessuale, anch’esso vissuto come “nido” infantile teneramente gaio e protettivo, ma sempre insidiato dalle ombre dell’angoscia e della perdita (Floryan Nachdenchlich, The Arabian Shawl, l’emblematica Sleeping Together, dove il Perturbante si coagula nel tema – ricorrente anche nei racconti – del gregge che passa fuori nel gelo nebbioso, esterno all’hortus conclusus dell’intimità amorosa, e che subito diviene «flock of thoughts with their sheperd Fear» (gregge di pensieri col pastore Spavento).

Tra l’iniziale idillio estatico, vissuto in una «felicità atterrita», e il successivo disinganno amaramente supplice, si inscrive anche la parabola ricca e tormentata della passione accentrante vissuta con John, in un complesso rapporto di fedeltà infedele che un trentennio dopo sarà definito di coppia aperta – non raro nell’intellighen­cija europea degli ultimi tre secoli, ma unico in Katherine per l’affettuoso, lucido, ironico ed autoironico pathos della sua voce che scandisce il lungo epistolario col compagno, e le poche poesie parallele che condensano in lampi memoriali le fasi sostanzianti della loro vicenda (Villa Pauline, Sanary, gli scherzi giocosi di Deaf House Agent, Twenty to Twelve, Says our Old Clock, Tea, Chemist and Marmalade, le drammatiche The New Husband, He Wrote, Et après) e che corrispondono a grandi, dolceamari racconti come The Man Without a Temperament, Je ne parle pas français, Honeymoon, Poison).

Ad un tempo fonte e foce del sorrowing love per il compagno così spesso impari o lontano, è l’inquieta, solo in parte forzata erranza solitaria della coloniale Kathe­rine – che oggi definiremmo forse una migrante etnico-culturale – attraverso paesi, riviere, patrie e città elettive, “nidi” più o meno accoglienti, seduzioni sensuali e intellettuali, in un vagabondaggio senza alcuna esaltazione viatoria od ulissiaca, in cerca di una sicurezza-salvezza (safety) sempre più consapevolmente sfuggente. Vi corrispondono poesie come Loneliness, Arrival, Verses Writ in a Foreign Bed, Dame seule, parallele – così come la giovanile The Trio nel suo acceso realismo sociale – ai tanti racconti popolati da anti-eroi e da eroine single, deiette, emarginate o represse in ruoli da emancipata “casa di bambola”.

Ed è la malattia, foriera dell’ultimo viaggio e del soggiorno “iniziatico” nella comunità di Gurdijev a Fontainebleu, a sigillare le rime sparse di Katherine con i versi estremi, che dal grottesco della satira anti-medica ed esorcistica di Tedious Brief Adventure of K.M. tornano ciclicamente a fissarsi sul simbolo dell’artista-uccello ormai ferito a morte, erede domestico dell’albatros di Coleridge e del gabbiano di Cechov, e quindi incurabile da parte delle sollecitudini borghesi, ottusamente materiali e pietistiche (Winter Bird e The Wounded Bird, parallele all’ultimo racconto compiuto, The Canary, dove alla topica morte del cigno romantico subentra quella del piccolo pennuto, unico domestico conforto ed interlocutore dell’umile protagonista, come già il pappagallo nel celebre racconto di Flaubert Un coeur simple).

La Mansfield, che con pungente wit giudicava molta poe-sia a lei contemporanea «delle pompe funebri sempre così costose», incarna infine sia la sua primaria, ricordata aspirazione artistica alla «velocità, economia, chiarezza» – invidiatale con ammirazione dalla Woolf insieme all’onestà – che quella psicologica ad «essere VERA» nel segno notturno del grande e temuto Protettore, la Morte (maschile in inglese e nell’amato tedesco) che giunge a coincidere, come nei mistici, col compagno fuggitivo e perenne.

M. D. S.



Ci rivolgiamo a lettori che vogliano imparare qualcosa di nuovo, che dunque vogliano pure pensare da sé (K. Marx). – Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada (Eraclito). – ... se uno ha veramente a cuore la sapienza, non la ricerchi in vani giri, come di chi volesse raccogliere le foglie cadute da una pianta e già disperse dal vento, sperando di rimetterle sul ramo. La sapienza è una pianta che rinasce solo dalla radice, una e molteplice. Chi vuol vederla frondeggiare alla luce discenda nel profondo, là dove opera il dio, segua il germoglio nel suo cammino verticale e avrà del retto desiderio il retto adempimento: dovunque egli sia non gli occorre altro viaggio (M. Guidacci).

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