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Prefazione
di Daniele Orlandi
Un archetipo in cerca d’autore
Un vecchio garage fiocamente illuminato da una lampadina. Un manichino impolverato che passa di mano in mano. Una compagnia minimale composta da due donne (regista e aiuto regista) e un attore egocentrico e di nessun talento. Un’ambizione non da poco: Sofocle, Edipo re.
Avrebbe dovuto essere una rivisitazione dell’inconsapevole parricidio ma in La carriera di Edipo, di Camilla Migliori, lo psicodramma familiare travalica i limiti del “canovaccio” sofocleo per divenire anche dramma politico. Se per famiglia s’intende ancora la cellula base della società, dunque di una polis. Consci della superfluità del riassunto in una prefazione, lasciamo la parola ad Adriana, la regista nella finzione scenica di questo Sofocle pirandellianamente rivisitato: «L’idea», spiega la donna al pragmatico dirigente, metà Innominato metà disprezzata figura paterna, «è quella di attualizzare il mito e renderlo più aderente alla realtà di oggi, più comprensibile». Questo basti ad una breve sinossi.
In una recente intervista, l’intramontabile Franca Valeri invitava a lasciare in pace i classici se non si vuole che il teatro muoia per dissanguamento d’idee. L’odiato dirigente arriverà più o meno alla stessa conclusione quando, incurante dell’idealismo commovente della giovane donna, asserirà che «il voler andare oltre a tutti i costi è solo un pretesto per sterili quanto inutili giochi mentali». Di diverso avviso sarebbe stato Italo Calvino che individuava nei classici qualcosa a che vedere con l’inconscio collettivo molto più di quanto pensiamo. Com’è fin troppo noto, un classico era per il grande scrittore «un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire». In questo senso, la messa in scena della tragedia diviene speculare, nei suoi elementi tipici, al meta-teatro immaginato da Camilla Migliori: Guido-Edipo, Adriana-Antigone, Chiara-Ismene, il manichino-Laio… ma mentre l’originale si sviluppava sotto il segno del fato, l’ananke, nella sua impossibile riproposizione l’Autrice rappresenta una guerra tra psyché e dikē, tra ribellione assetata di affrancamento dal padre costituito e dal ferreo regolamento della prassi sociale fatta sistema.
Per realizzare lo spettacolo servono conoscenze in alto loco, autorizzazioni, bustarelle, insomma «olio e non sabbia», scriveva Günter Eich, «nell’ingranaggio del mondo». Adriana, l’idealista, non ci sta. Guido, il narciso, non può comprenderla mentre la docile Chiara si assume il ruolo di mediatrice senza medium. Ma i personaggi usciti dalla penna di Camilla Migliori sfuggono al determinismo dell’arché e trasformano l’equazione hegeliana tra razionale e reale in una strenua lotta contro i diaframmi congeniti di un’inevitabile trasfigurazione con l’autorità. Qui sta l’originalità e la forza di questo piccolo gioiello letterario: non appena ci si rende conto che l’immedesimazione con i mitopoietici personaggi consente sovrapposizioni ma non saldature.
Scritta negli anni Ottanta, al termine di un’epoca storica dove il parricidio era stato anche e notevolmente uno slogan sopra lunghi tazebao per poi tornare miracoli del “riflusso” sui tavoli di conferenze unicamente come complesso più famoso della storia, quest’opera non teme il confronto col mondo attuale. Anzi, lo anticipa svelando relatori di oggi quali parricidi di ieri dietro il medesimo striscione. Ciò che il re di Tebe non aveva potuto prevedere era come il suo sconvolgente dilemma, il suo contrappasso ante litteram che da allora ci tormenta tutti, si sarebbe risolto nel denaro. Edipo ha fatto carriera e si è lasciato alle spalle le remore di una volta. Non v’è intuizione più geniale, a nostro parere, né più perfetta aderenza alla realtà. A noi resta la nostalgia che s’accompagna ad ogni tramonto, quando potevamo amare Giocasta e nello scotto pagato rivendicare una dignità.
Per tornare alla contestazione di una qualche società, al parricidio e al necessario transfert avremmo bisogno anzitutto di ciò che oggi manca: i padri. Siamo dunque condannati al suicidio. O per sempre all’acculturazione borghese?
Daniele Orlandi
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