Il fallimentare modello scolastico americano
Si dice spesso che la scuola italiana non funzioni e che occorra innovarla per metterla al passo con i tempi. Chi lavora nella scuola non può non concordare con la prima affermazione; la seconda appare invece sospetta di conformismo e fuori dalla realtà. Infatti negli ultimi trent’anni ogni ministro dell’istruzione ha innovato; in particolare, nel 1997 l’autonomia scolastica ha aperto gli istituti al territorio e li ha incoraggiati ad avventurarsi in ogni sorta di iniziative; nel 2015 la riforma Renzi ha reso obbligatorie sperimentazioni ardite come la scuola-lavoro oppure il CLIL (lo studio in lingua straniera di una disciplina studiata di solito in italiano), ha inoltre fatto dell’innovazione didattica la preoccupazione principale degli insegnanti e il titolo con cui accedere alla premialità, qualunque ne fosse il risultato.
Che dopo 26 anni di riforme innovative la scuola resti disfunzionale, suggerisce l’ipotesi che proprio le riforme la rendano tale. L’ipotesi è confermata da un indizio: le riforme parlano in un gergo anglosassone (inquiry learning, cooperative learning, skill, metacognitive skill, problem solving, lifelong learning da cui il nome TreeLLLe, l’associazione che ispira da decenni il ministero), consistono dunque nell’imporre in Italia e in Europa la pedagogia dominante negli Stati Uniti. Delle scuole statunitensi l’opinione pubblica sa soprattutto che vi avvengono stragi efferate di alunni e insegnanti.
Di fatto sa anche un’altra cosa. I giornali parlano spesso di «fuga dei cervelli» dall’Italia. Vista dall’altra parte dell’A-tlantico, questa fuga non può che prendere il nome di importazione dei cervelli. Dalle notizie della stampa l’opinione pubblica può giungere dunque a due conclusioni: 1) le scuole americane sono pericolose per chi le frequenta; 2) istruiscono così male che, per popolare le loro celebrate università, gli Stati Uniti devono importare studenti istruiti altrove.
Da 26 anni il nostro Ministero dell’istruzione si ispira dunque a un modello pedagogico fallimentare per promuovere innovazioni fallimentari. Il fatto è paradossale e merita approfondimento.
L’abbiamo compiuto soprattutto sui libri di Eric Donald Hirsch Jr., un filologo americano che nella seconda fase della sua carriera intellettuale si è dedicato ai problemi della scuola del suo Paese.
Sappiamo così che per tutto il XX secolo gli americani sono stati insoddisfatti della situazione delle loro scuole e che ogni circa dieci anni si sono levate voci critiche per chiedere trasformazioni radicali (Ravitch, 2016, pp. 297-298).
In particolare, nel 1983, ben prima che iniziassero le innovazioni in Italia, uscì negli Stati Uniti un rapporto dal titolo eloquente: Una nazione a rischio, nella cui introduzione si può leggere: «Se una potenza straniera nemica avesse tentato di imporre all’America i mediocri risultati educativi odierni, lo avremmo certamente considerato un atto di guerra» (Buck, 2020, p. 230).
Il rapporto fece molta impressione, tanto che per qualche anno rallentò il declino dei punteggi riportati nel SAT (la prova sostenuta dagli studenti per l’ingresso nelle università). Ma poi i punteggi ripresero a scendere. I governi vi reagirono con due programmi, No Child Left Behind e Race To The Top, che determinarono una forte pressione sugli insegnanti affinché aumentassero i punteggi delle prove degli alunni e diedero il via alla privatizzazione della scuola pubblica, ma non cambiarono l’impostazione didattica. Così gli antichi problemi non sono stati risolti e ne sono stati prodotti di nuovi e più gravi. La scuola americana, minata da un travaglio infinito, non può offrire alcun modello imitabile.
Si tratta ora di spiegare perché la nazione che esercita un’egemonia mondiale ormai secolare sia scivolata tanto in basso nel campo così strategico dell’istruzione scolastica e stia trascinando con sé tutta la scuola occidentale. In generale, quando devono operare delle scelte, i dirigenti politici si fanno consigliare da esperti. Come esperti nelle questioni scolastiche si presentano i pedagogisti. La causa del deterioramento della scuola americana va dunque cercata non in America, ma nella pedagogia europea.
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