|
Introduzione alla seconda edizione
Nel lontano maggio del 1998 vedeva la luce la prima edizione del mio saggio Il sogno in Platone. Fisiologia di una metafora per i tipi di Loffredo. Il volume, scritto durante gli anni del Dottorato di ricerca in Filosofia, che avevo svolto presso l’Università degli Studi di Napoli “Federico II” sotto la guida del prof. Giovanni Casertano, presentava i risultati di tre anni di lavoro. Era la mia prima pubblicazione importante. Avevo già in precedenza dato alla stampa alcuni articoli di filosofia antica, ma il saggio sul sogno in Platone aveva per me un significato particolare, non solo per la sua maggiore estensione, ma anche perché era la mia tesi di dottorato, prodotto finale di un intenso e piacevole lavoro di ricerca che era stato discusso davanti ad una commissione d’esame e mi aveva permesso il conseguimento del titolo di Dottore di ricerca. La pubblicazione del saggio, quindi, rappresentava per me un ulteriore gratificante riconoscimento del mio lavoro.
Dopo venticinque anni (quasi ventisei) dalla prima pubblicazione la casa editrice petite plaisance mi ha proposto di ripubblicare il volume, ormai non più reperibile sul mercato, ed io con immenso piacere ho accettato questa nuova sfida.
Confesso che riprendere in mano dopo tanti anni questo mio scritto mi ha procurato inizialmente un po’ di ansia per varie ragioni: in primo luogo per la difficoltà di conciliare i tempi del mio lavoro di dirigente scolastica con quelli necessari alla revisione del testo; in secondo luogo per la trepidazione che inevitabilmente si prova nel rileggere un proprio scritto a distanza di tanti anni, e infine per i dubbi sulla scelta da fare, ossia se ristampare semplicemente il testo originale, oppure farne una nuova edizione.
Ho a lungo riflettuto su quale fosse la decisione più giusta, e alla fine ho scelto la via di mezzo, ossia di conservare la struttura originaria del saggio, aggiornare un po’ la bibliografia e aggiungere qualche chiarimento ulteriore nei punti dove mi sembrava più opportuno.
Il lavoro, portato a compimento con un po’ di ritardo sulla tabella di marcia, è stato un piacevole tuffo nel passato e nella mia giovinezza, che mi ha fatto provare tanta nostalgia per quegli anni di studio appassionato e mi ha dato la possibilità di rivivere la gioia della ricerca. È stato un ritorno a Platone con uno sguardo diverso, fatto di nuove consapevolezze acquisite anche grazie all’esperienza maturata in ambiti diversi da quello della ricerca, alla quale sarò sempre debitrice dell’habitus che mi ha dato e che è diventato una cifra del mio modo di essere e di operare in ogni campo.
È stata una riscoperta di Patone e dell’intramontabile modernità del suo pensiero; la ripresa di un dialogo interrotto e di riflessioni su questioni oggi più che mai attuali che continuano ad interrogare le nostre intelligenze e coscienze alle prese con le sfide di internet, delle fake news, del metaverso, della realtà aumentata e dell’intelligenza artificiale. Il bisogno di Platone di tracciare le linee di demarcazione tra sogno e realtà è lo stesso che oggi ci spinge a interrogarci sui confini sempre più labili tra mondo virtuale e mondo reale che tendono a fondersi, a confondersi, a mescolarsi sempre più.
Nell’era della simulazione e dell’iperrealtà, per dirla con Jean Baudrillard (Simulacres et simulation 1981), la distinzione tra realtà e rappresentazioni è svanita, le narrazioni fallaci si sono sostituite alla realtà, diventando l’unico strumento di lettura e interpretazione del mondo e delle nostre vite.
Rileggere Platone mi ha fatto riscoprire la forte tensione speculativa che si coglie in molti dialoghi attraversati dalla domanda su cosa si debba intendere per realtà, su cosa significhi vivere in un mondo di ombre ignorando quale sia la verità e sul difficile percorso di “liberazione” che bisogna compiere per accorgersi dell’inganno.
Nell’era della simulazione Platone ci ricorda cosa vuol dire confondere finzione e realtà, rimanere prigionieri nella caverna delle rappresentazioni illusorie, disconnessi dalla realtà e isolati nel mondo “privato” di narrazioni ingannevoli, ciechi rispetto a tutto ciò che non rientra nel proprio campo visivo. Ci insegna, inoltre, ad armare la mente perché rimanga lucida e non si lasci irretire nella trappola delle apparenze, a sviluppare l’attitudine al dubbio e al pensiero critico, ad uscire dal mondo chiuso dei propri egoismi per allargare lo sguardo sul bene comune.
Non solo; nell’era planetaria e della mondializzazione Platone ci insegna anche il paradigma del pensiero complesso, l’unico in grado di cogliere le interconessioni che nel mondo globale legano indissolubilmente le parti tra di loro e con il tutto di cui fanno parte; l’unico in grado di affrontare, con un approccio solidale e sveglio, le sfide della policrisi che attraversa, per dirla con Morin, la comunità di destino alla quale apparteniamo.
Desidero ringraziare di cuore la casa editrice petite plaisance, Carmine Fiorillo e il prof. Luca Grecchi, per la pazienza con cui hanno atteso la revisione del testo, per l’occasione che mi hanno dato di riconnettermi con la mia passione per la filosofia e soprattutto per aver permesso al mio saggio di vivere una seconda volta.
Un rinnovato e sincero ringraziamento va al prof. Giovanni Casertano che da poco ci ha lasciato perché è grazie a lui che questo libro ha potuto vedere la luce la prima volta. La pubblicazione della seconda edizione vuole essere anche un tributo al mio maestro.
Serafina Rotondaro
Prefazione
di
Giovanni Casertano
Questo libro è un viaggio all’interno di una metafora che non è solo una metafora, di un complesso di spiegazioni fisiologiche che subito appaiono non essere soltanto tali. In realtà, nell’opera platonica, sono molti i “luoghi” che, apparentemente piani e semplici, si rivelano poi accidentati e pieni di insidie; per lo meno per chi affronti lo studio e l’interpretazione del testo platonico non presumendosi già in possesso delle soluzioni. Perché questo ha di caratteristico il dialogo, ogni dialogo, di Platone: chi legge ha già, perché se la porta più o meno consapevolmente dentro fin dai banchi della scuola, una griglia interpretativa entro la quale è fin troppo facile far rientrare il testo che ha dinanzi. E infatti il dialogo di Platone è “facile”: scritto in uno stile di limpidezza “attica”, esso si presenta sempre chiaro, anche nelle sue pagine più difficili ed impegnative, laddove dominano la rigorosità e l’astrattezza dell’argomentare. Come è stato detto, il divorzio tra filosofia e chiarezza è cominciato appunto dopo Platone. Eppure la pagina platonica non è semplice, se non per coloro che vanno in essa alla ricerca di una conferma di ciò che già sanno di Platone. Che è, quasi sempre, l’appiattimento della dottrina platonica, delle dottrine platoniche, su di uno schema più o meno tradizionale. E invece leggere un dialogo, rileggere un dialogo, con anima per così dire “vergine”, con intelligenza attenta alle mille sfumature stilistiche e drammatiche, agli svolti della narrazione e della dimostrazione, a come i più vari particolari le situazioni, i pensieri, i personaggi, i sentimenti si connettano insieme in una “struttura”, a volte lieve, a volte potente e grandiosa, ma sempre estremamente significativa, consente sempre di cogliere qualcosa di nuovo una sfumatura, un’idea, un significato, un orizzonte, una finalità.
Leggere questo libro di Serafina Rotondaro è appunto compiere insieme a lei un’operazione di questo tipo. Il sogno è infatti proprio uno di quei luoghi platonici in cui si giocano le antitesi caratteristiche della filosofia dell’Ateniese, quelle tra apparenza e realtà, tra sensibile e intellegibile, tra passione e ragione, tra falsità e verità. Che è come dire entrare nel cuore della filosofia platonica attraverso una riflessione apparentemente marginale.
Il sogno è infatti un’attività fisiologica legata ad uno dei due stati fondamentali nei quali si svolge la vita umana, il sonno. Il sogno è la vita del dormiente, che si prolunga oltre la sua veglia. Spiegare la vita è sempre stato difficile. Platone aveva dinanzi a sé le spiegazioni ioniche, eleatiche, pitagoriche, siceliote, della vita e della morte e del sonno; aveva dinanzi a sé le spiegazioni mitiche e religiose del sogno. Le sue spiegazioni si elevano di colpo al di sopra di quelle, e, mescolando fisiologia e fantasia, medicina e poesia, aprono ad una considerazione “filosofica” del sonno e del sogno. Quando le palpebre, queste protettrici della nostra vista, si chiudono nel sonno siamo nel Timeo , esse trattengono all’interno il fuoco che abbiamo dentro di noi. Questo a sua volta appiana, per così dire, i movimenti interni dell’uomo fino a generare una sorta di “tranquillità” in chi dorme. Se la tranquillità è molta, si vivrà un sonno con brevi sogni, dei quali in genere non ci si ricorda al risveglio; se è poca, si vivrà un sonno con molti sogni, spesso agitati, e di essi ci si ricorderà al risveglio. Già qui si rivela una prima ambivalenza del sonno: è uno stato di quiete, ma solo apparente, e genera una quantità più o meno grande di movimenti interni. Ma cosa sono questi «movimenti interni»? Rotondaro li interpreta, sulla base di una puntigliosa analisi testuale, svolta in contemporanea ad un confronto critico con le principali interpretazioni dei passi esaminati, come delle vere e proprie sensazioni. Le quali, dunque, non cessano di verificarsi anche nell’individuo dormiente. Ma da studiosa attenta, ella non evita di problematizzare la sua stessa soluzione: si tratta infatti di rivedere quelle pagine platoniche sulla sensazione, sul sentire dell’anima e del corpo, che sembrano a prima vista offrire delle soluzioni lineari. Cosa è infatti che sente: l’anima o il corpo? o tutti e due? ma nel sonno il corpo non prova alcuna sensazione. Allora è ammissibile un “sentire” solo dell’anima? si badi, un sentire, non un pensare o un riflettere. Si tratta, in altre parole, di riconsiderare il rapporto anima-corpo: anche esso oggetto di una facile soluzione, in genere, per i lettori di Platone. Non per Platone.
C’è un luogo, comunque, del corpo, dove sembrano somatizzarsi le facoltà psichiche e psicologizzarsi le facoltà somatiche. È il fegato. Ma qui, nel Timeo, sembra che si capovolga la direzione di un processo altrove chiaramente descritto. La sensazione è un avvertire da parte dell’anima un movimento che si è generato a partire da cause esterne nel corpo (così, per esempio, nel Filebo): è sempre, quindi, un essere coinvolti, insieme, di corpo e anima. Ma nel sonno il nostro corpo sembra non avvertire alcun movimento esterno. E quindi sembra non essere coinvolto. Dunque, non si potrebbe parlare a rigore di “sensazione”. Eppure c’è un organo corporeo che è particolarmente attivo durante il sonno, il fegato appunto, il luogo dove si genera quella sinapsi particolare che è il sogno. Il fegato è come uno specchio. Ma non è passivo come uno specchio, che rimanda l’immagine che gli è di fronte, e solo quella. Ciò che viene inviato al fegato sono i pensieri dell’uomo, provenienti dalla sua anima razionale, attiva quindi anche durante il sonno; e l’attività propria del fegato è appunto quella di “convertire” i pensieri in immagini. Ma questa soluzione platonica non è così semplice, e non significa soltanto questo. Non è così semplice, perché in effetti ad agire sul fegato non è solo l’anima razionale, ma anche quella appetitiva: in altri termini, i desideri, le pulsioni, le tensioni, che hanno un ruolo altrettanto importante nel far nascere ad opera del fegato le immagini oniriche. E non significa soltanto questo, perché le immagini oniriche sono la dimostrazione che i pensieri hanno una “forza” che non si limita alla loro razionalità discorsiva. I pensieri, in altre parole, hanno sempre un loro pathos, una loro intensità, una loro “caratterialità”, hanno in una parola una “carica emotiva” che, se non sempre è manifesta durante la veglia, quando li formuliamo o li trasmettiamo, si fa evidente quando li sogniamo. E qui avviene quel capovolgimento di cui parlavamo prima, e che la Rotondaro opportunamente sottolinea. Se la sensazione è un movimento che va dal corpo all’anima, il sogno è una sensazione (durante il sogno si sente, si soffre, si gode come durante la veglia) che si origina nell’anima. Ma sempre, da svegli o in sonno, si tratta di un coinvolgimento dell’uomo nella sua interezza.
Il sogno come sensazione. E come tutte le sensazioni, il sogno non ha in se stesso la sua spiegazione. Il mondo sensibile, quello che cogliamo con i nostri sensi, è quello che più di tutto appare imporsi a noi con la sua evidenza, con la sua forza: sento caldo, e questo fatto mi si impone con una sua “verità” che sembra non poter essere messa in discussione. Ma la sua evidenza in realtà non è tale: provo una sensazione di caldo, ma questa sensazione che è “vera” solo perché “c’è” può esser dovuta alla mia febbre, al pasto che ho consumato, al vino che ho bevuto, ad una mia situazione particolare: rimanda dunque ad un’altra verità che deve essere cercata e giustificata e che abita in qualcosa che non è la sensazione stessa. Ecco perché il sensismo protagoreo (o per meglio dire il sensismo che Platone attribuisce a Protagora nel Teeteto), come ogni sensismo, non potrà mai bastare, perlomeno a chi non si accontenta di vivere momento per momento senza mai darsi una ragione del suo vivere, una finalità per il suo vivere. In altre parole, la sensazione deve venire interpretata. Così il sogno. E qui si apre quello iato incolmabile del quale si prende coscienza nello stesso tempo che si prende coscienza della sua inevitabilità e della necessità di accettarlo come tale , che è anche la necessità di una distanza, tra vissuto e pensato, ma anche tra individuo e comunità. Al sogno, come alla sensazione, bisogna dare un significato: bisogna interpretarlo. E chi interpreta, che sia lo stesso sognatore od un’altra persona, è sempre diverso da chi ha sognato. Chi interpreta il sogno non è un indovino o un profeta: e qui Platone prende le sue nette distanze dalle forme popolari della religione e della mantica; come del resto già aveva fatto quando aveva sottolineato che il fegato-specchio che bisogna esaminare non è quello di un corpo morto (che è, come ci dice con bella metafora, “cieco”), quello esaminato appunto dai sacerdoti, ma quello di un corpo vivo, cioè nel pieno delle sue funzioni: l’analisi è fisiologica, non anatomica. Chi interpreta il sogno è un filosofo, l’unico che è in grado di stabilire il rapporto verità-falsità, che è in grado di operare una decisione di senso. Ma così facendo ed ecco lo iato chi interpreta non può non uscire fuori dal sogno, non può non trasportare il sogno fuori dal mondo privato, per collocarlo nel codice comune della veglia, e per assoggettarlo quindi ad un gioco di regole, di spiegazioni, di giustificazioni, che sono altre da quelle del sogno. La differenza tra il sogno vissuto, il sogno raccontato ed il sogno interpretato è ben chiara a Platone; come pure gli è chiaro che nell’interpretazione del sogno si perde tutto il pathos che apparteneva al sogno vissuto e che traspariva dal sogno raccontato; come infine gli è chiaro che è però solo nel sogno interpretato, dove il pathos sembra essersi definitivamente perso, che quel pathos stesso trova appunto il suo “vero” significato. Nel che è poi l’anima gorgiana di Platone, sempre presente e sempre negata.
Affermare che la verità di una sensazione, o di un sogno, quindi, non si riduce (ma forse sarebbe meglio dire: non può, non deve ridursi) alla realtà del suo vissuto, significa allora non solo definire, cercare di definire, i contorni dei due livelli della realtà e del linguaggio, ma anche spostare il fuoco dell’indagine dal privato al sociale, dall’uomo alla città. Perché c’è un uomo, nella città, che vive sempre nei suoi sogni, che dorma o che sia sveglio. È il tiranno. All’analisi della fenomenologia dell’animo tirannico è dedicato, come è noto, il IX libro della Repubblica, ed il terzo capitolo di questo libro esamina le complesse valenze di questa analisi. Che sono giocate, da un lato, sulla distinzione accennata tra la sensazione e la verità della sensazione, sempre “tradotta” dal, e “decisa” nel, discorso; e, dall’altro, sulle antitesi apparenza/realtà, illusione/verità, che sono i significati dell’altra sogno/veglia. E qui è chiaro che l’opposizione della veglia al sogno acquista tutta la sua carica metaforica che già era stata espressa dal grande di Efeso. Rotondaro ci fa vedere efficacemente la complessità di questa metafora, nel suo stabilire una differenza non solo tra la veglia e il sonno, ma anche e principalmente tra due modi di sognare nel sonno e di vivere nella veglia, tra il sogno dello stolto ed il sogno del saggio, tra la veglia dello stolto e la veglia del saggio: in una parola, tra una vita vissuta nella verità ed una vissuta nella falsità, che si sogni o che si sia svegli. Ma la distinzione non corre, comunque, soltanto sul piano della vita pubblica, nella città, ma anche su quello dello stesso uomo, di ogni singolo individuo, scisso, al suo interno (come lo è la città), tra le parti che lo costituiscono: il suo corpo e la sua anima, questa a sua volta una e molteplice allo stesso tempo. La ricerca dell’unità nella molteplicità in effetti è, si può dire, un canone ermeneutico sempre vigente in Platone, nelle sue analisi logiche come in quelle psicologiche o politiche.
Il quarto capitolo, forse il più denso di questo bel libro, tirando le somme delle analisi fin qui svolte, compie un’indagine a tutto campo della opposizione sogno/veglia che, coinvolgendo anche passi fondamentali di altri dialoghi, come il Menone e il Teeteto, per esempio, mostra, come in background, un senso fondamentale della filosofia platonica. Dove la non conciliabilità può trasformarsi in complessità, l’antitesi acquista i caratteri più sfumati del binomio. Nel Teeteto in particolare, dove si traccia una differenza tra le diverse figure di sognatori e i diversi sogni del sapere, il sogno acquista una centralità ricca di implicazioni, imperniate fondamentalmente sui binomi conoscere/sapere, somigliare/essere. Il sogno, in effetti, pur somigliando alla veglia, non è la veglia; l’opinione vera, pur sembrando sapere, non è sapere. Ma che cos’è in fondo il sapere? È, come è noto, la domanda fondamentale del dialogo; domanda senza risposta, perché possiamo dire al massimo cosa non è il sapere. Ma la risposta formalmente negativa ad una domanda non autorizza nessun lettore di Platone a chetarsi in una rinuncia: deve spingerlo anzi a continuare a scavare nel testo alla ricerca di significati. È quanto fa Rotondaro in una puntuale ed interessante indagine sulla famosa teoria/sogno del Teeteto. Si tratta di quella teoria che, nel corso della discussione della terza definizione di sapere offerta da Teeteto, che il sapere appunto è opinione vera accompagnata da lógos, afferma che gli elementi di un tutto sono inconoscibili ma percepibili, mentre il tutto, non percepibile, è conoscibile. Senza anticipare qui i risultati della Rotondaro, sottolineiamo soltanto che la sua analisi scopre come la confusione tra conoscere e sapere, che risulta dalla teoria/sogno riportata da Platone, è propria appunto di questa teoria, ma non di Platone. Il quale vuole dimostrare proprio come il possedere una logica interna non comporta automaticamente la fondatezza di una teoria, e vuole dimostrare nello stesso tempo come una teoria che sembra comprensibile è in realtà piena di enigmi.
Ma è proprio a questo punto che si dispiega la complessità del filosofare platonico, sempre intrecciante al suo interno il riferimento a più livelli di realtà e di indagine: che non possono essere separati, in chi la ripensa, pena appunto il perdere il senso stesso di quella filosofia. E infatti la coppia sogno/veglia sembra chiaramente interpretabile come una metafora dell’opposizione mondo fenomenico (e quindi conoscenza sensibile)/mondo ideale (e quindi conoscenza razionale). Sembra chiaro, da un lato, che lo scioglimento del problema apparentemente insolubile costituito dal fatto che il luogo della veglia e il luogo del sogno non sono distinguibili (nell’uno come nell’altro infatti si provano sensazioni, si immagina, si pensa, e il criterio della distinzione non sembra essere quello cartesiano della chiarezza e della evidenza, perché ci sono sogni molto più “vivi” di tanti istanti della nostra veglia), viene operato da Platone con l’attingimento ad un livello più ampio e generale, che è quello dell’orizzonte vero-falso. È un’operazione che Platone fa spesso, ed a proposito di vari problemi (pensiamo, a solo titolo di esempio, all’operazione del Filebo, in cui piaceri “veri” sono distinti da piaceri “falsi”). E dunque ci sono sensazioni vere e sensazioni false, opinioni vere ed opinioni false (o pensieri veri o falsi, ché è la stessa cosa): distinguerle ricorrendo a parametri ideali sembra facile e scontato. Eppure, se questo c’è in Platone, non c’è soltanto questo. Perché, dall’altro lato, il sogno non consente di essere relegato esclusivamente nell’orizzonte del falso: c’è innanzi tutto, come abbiamo visto, una verità del sogno, anche se essa deve venire interpretata e stabilita al di fuori del sogno stesso. Ma c’è di più: è il mondo stesso della verità ad avere i suoi sogni, e sono i suoi abitanti a sognare, forse più di tutti. Rotondaro compie una fine analisi della varia e complessa tipologia platonica dei sognatori, tra i quali ritroviamo personaggi insospettabili, come il geometra ed il filosofo. Anche il filosofo sogna, dunque. Ma nel suo sogno sembra sfumarsi, fino a perdere i caratteri di una netta distinzione, l’opposizione sogno/veglia, metafora di ben più evidenti opposizioni, come immagine/modello, filodossia/filosofia, cosa/idea.
Anche il filosofo sogna: ma il suo sogno forse non è tanto quello di dimostrare la realizzabilità del progetto politico che ha immaginato, quanto quello di dimostrarne la verità. Perché la verità, più di tutto, è imparentata con quel qualcosa di indefinibile, senza il quale non si dà però nessuna definizione. Il bene, che è al di là della realtà concreta di tutte le cose sensibili, ma che è anche al di là della realtà ideale di tutti gli intelligibili, è ciò che propriamente consente di differenziare realtà da apparenza, sogno da veglia; verità da falsità. Ciò «che rende falso il sogno è infatti proprio la sua non partecipazione al bene». Questa conclusione corretta della Rotondaro, però, da un lato, apre ad una prospettiva platonica quanto mai problematica: anche il campo della verità questo campo che sembra essere eminentemente logico non può trovare il suo fondamento ultimo in se stesso, ma è strettamente connesso ad un orizzonte “altro” (come definirlo: etico? pratico? politico?... utopistico?). Dall’altro, essa riafferma la centralità, sempre, e la superiorità della “vita” filosofica rispetto alle altre vite, di sognanti o desti che siano. Chi sogna non ha dubbi; chi è sveglio ha certezze. Il filosofo che sogna, invece, ha la certezza dei suoi sogni, e da sveglio è pieno di dubbi. Vuole decifrare la “verità” del suo sogno, darsi una ragione di quella verità, nella coscienza che la verità di cui è certo non lo acquieta nella tranquillità di un possesso, ma gli suscita continuamente dubbi. Per questo, appunto, è filosofo: la sua vita, in sogno o in veglia, è un continuo porsi dubbi e domande sulle sue verità, sul bene della città in cui vive, in cui deve vivere; è una continua, costante ricerca del senso delle cose.
Giovanni Casertano
|