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Prefazione
di
Enrico Berti
(a seguire l’Introduzione di Giulio A. Lucchetta)
Se un tempo la scienza e la retorica erano considerate due settori del tutto separati, anzi addirittura opposti, della cultura, le più avanzate indagini di storia della scienza hanno invece mostrato che esse non solo comunicano, ma sono a volte strettamente compenetrate, nel senso che le teorie scientifiche si sono per lo più imposte grazie ad argomentazioni di tipo retorico e le stesse scoperte della scienza sono spesso avvenute grazie all’impiego di strumenti tipicamente retorici quali l’analogia e la metafora. Ciò è stato dimostrato, per fare solo qualche nome, a proposito della scienza moderna da ricerche come quelle di M. Finocchiaro su Galilei e di Mary B. Resse sulle rivoluzioni e ricostruzioni nella filosofia della scienza, ed a proposito della scienza antica e medievale da indagini come quelle di G.E.R. Lloyd sui presocratici, di W. Fiedler su Aristotele e di P. Boyde su Dante. Anzi, all’interno della cultura antica e medievale, dove gli ambiti disciplinari non erano ancora così nettamente tracciati come lo sarebbero stati nella modernità, l’intreccio tra scienza, filosofia, teologia, retorica e persino poesia era strettissimo, tale da rendere impossibile, come ben sanno gli storici, ricostruire lo sviluppo di una disciplina indipendentemente da quello delle altre.
Nulla di strano, dunque, nel tentativo di penetrare ed illustrare un simile intreccio a proposito di Aristotele e di diversi pensatori che a lui si sono in qualche modo rifatti, i greci Plotino e Proclo, l’arabo Rāzī ed i cristiani Boezio e Dante, come si è proposto di fare in questo libro Giulio Lucchetta, mettendo a tema l’impiego scientifico dell’analogia e della metafora. Più che una trattazione sistematica sull’uso aristotelico di tali strumenti, il suo lavoro è una serie di colpi di sonda all’interno di alcuni nodi problematici, che si prestano ad esemplificare efficacemente tanto la teoria dell’analogia e della metafora formulata da Aristotele, quanto i caratteri peculiari dell’impiego, ed a volte della trasformazione, che egli ne ha fatto. In questo senso, il libro si colloca nella linea degli autori sopra citati, dei quali adopera con profitto prospettive e metodi, specialmente quando mostra come il saper scorgere somiglianze tra le cose sia prerogativa ad un tempo del grandi scienziati e dei grandi poeti. Ma la sua maggiore originalità consiste nell’aver studiato l’origine omerica delle analogie e delle metafore impiegate da Aristotele, e nella dimostrazione che, al di fuori di una comprensione approfondita di tale origine, il significato caratteristico della pratica scientifica aristotelica rischia di sfuggire completamente all’interprete odierno, così come esso è di fatto sfuggito ad alcuni suoi interpreti antichi e medioevali.
Sin dalla prima parte il lavoro mostra come alcuni degli esempi usati da Aristotele nella Retorica e nella Poetica per costruire la sua teoria della metafora, la classificazione dei vari tipi di essa e la determinazione del suo valore, a seconda dei casi, scientifico, cioè euristico (quella basata sull’analogia), o retorico (quella basata sulla somiglianza), siano tratti da Omero e debbano essere riportati al loro contesto originario da chi voglia comprenderne appieno il significato: tali sono l’esempio dell’arco, quello dello scudo e quello della coppa. Sull’uso che Aristotele fa nel De generatione animalium di una celebre analogia, quella tra la terra e l’utero, si concentra invece l’attenzione della seconda parte, dove si mostra che l’efficacia euristica, e quindi scientifica, di tale analogia dipende tutta dal contesto naturalistico e biomorfico in cui si colloca la riflessione di Aristotele, e perciò sfugge completamente ad un pensatore come l’arabo Rāzī, il quale all’opposto si muove in un contesto creazionistico e quasi meccanicistico.
Un’analoga dimostrazione assume un rilievo interessante anche dal punto di vista più specificamente filosofico nella terza parte, dove risulta che il concetto aristotelico di materia, illustrato per mezzo di numerose analogie nel libro II della Fisica, è del tutto incomprensibile a chi, come gli Arabi, ignora il rinvio al legno, e quindi alla selva, contenuto nel suo nome greco, rinvio che invece non sfugge ad un autore come Dante, ignaro di greco, ma non del contesto mitologico antico, di origine omerica. Infine la stessa razionalizzazione, e conseguente estenuazione per astrazione, operata da Aristotele della metafora del circolo (trottola celeste o fiume Oceano circondante la superficie terrestre), al fine di ricavarne la celebre dottrina del tempo o la necessità di un principio permanente, appare legittima e conseguente solo sullo sfondo della comprensione che Aristotele rivela dei miti omerici e greco-arcaici in genere nel I libro della Metafisica.
Il libro rappresenta in tal modo il punto di arrivo di tutta una serie di precedenti saggi dell’autore, aventi per tema la «fisica senza matematica» di Democrito, Aristotele e Filopono, le antiche concezioni del tempo e la critica dei medici medioevali arabi alla biologia antica. Grazie alle sue intuizioni, alla passione anche emotiva che lo anima e che si traduce in altrettante suggestioni feconde di nuovi sviluppi, ed al tipo di indagine che esso incarna, il lavoro porta contributi di sicuro valore alla conoscenza di alcuni momenti decisivi non solo per la filosofia, ma anche per la scienza e la cultura in genere dell’antichità e del medioevo, i quali risultano illuminanti per comprendere la natura degli stessi procedimenti filosofici e scientifici.
Enrico Berti
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Introduzione
di
Giulio A. Lucchetta
In questo saggio si tenterà un percorso attraverso quattro testi aristotelici unicamente alla luce di una figura retorica: la metafora. Essi verranno proposti come quattro momenti fondamentali per delineare almeno le linee essenziali di una metaforica aristotelica.
La prima opera di Aristotele presa in esame è la Retorica, dove si trova dispiegata una teoria dell’uso strettamente tecnico della metafora, vale a dire quello proprio dei retori e dei poeti; e d’obbligo si fa il richiamo al testo della Poetica e alla definizione della metafora in esso contenuta. Dall’analisi scaturiscono una distinzione tra l’ambito della somiglianza e quello dell’analogia, che al livello delle rispettive metafore potrebbero difficilmente essere disgiunti. Per caratterizzare e differenziare l’ambito specifico dell’analogia da quello, dunque, della somiglianza, cosa che mai prima di Aristotele era stata proposta, si passa ad esaminarne l’impiego in un contesto biologico, cioè nel De generatione animalium. A sua volta la metafora ottenuta da una analogia non deve smarrire i suoi legami con l’originario piano accostato per via analogica: lo illustra adeguatamente il caso di un termine metaforico atto ad indicare nella Fisica un concetto base della concezione aristotelica del divenire naturale.
La conclusione a cui si giungerà lo anticipo è che proprio garantire la rinvenibilità dell’orditura, che lega i due ambiti della realtà accostati attraverso il trasporto da uno all’altro del termine, significa di per sé permettere la completa comprensione di una metafora, piegata principalmente alla spiegazione dei fatti per cui è stata coniata. Nel caso in cui questa orditura venga smarrita, lo scioglimento della metafora e la comprensione dei suoi significati risultano cosa ardua, come è testimoniato dal parziale tentativo di interpretazione che Aristotele attua nella Metafisica.
Spesso le ragioni dell’uso di un termine fuori dal suo campo d’origine rimangono ancora radicate in quest’ultimo, e se nel testo appare pur evocato tale ambito originario attraverso la sua esplicazione analogica, questa non sembra sufficiente a giustificare la scelta di campo attuata per esemplificare l’argomento o il fatto esaminato, data la sua evidente estraneità ad esso. Enumeriamoli questi oggetti metaforici: dapprima, nel contesto della Retorica, appaiono archi, coppe e scudi; nel De generatione animalium sempre in veste di metafore si presentano il vegetale e la calamita; per la Fisica è la volta della selva e delle caverne; alla fine, nella Metafisica, si passa dalla macina del mulino alla trottola, per concludere con le acque di Oceano. Se indubbiamente estranei ai contesti in cui appaiono, al punto che il loro uso metaforico è colto immediatamente, simili oggetti, per poter assicurare una più esauriente comprensione del fenomeno osservato e descritto, devono risultare trasparenti, immediati e vivi alla memoria collettiva. Orale o scritta che sia la comunicazione, il fatto di indicare questi come esempi illuminanti rivela nello scrittore o nell’oratore la convinzione di poter contare che quanto si viene proponendo, come emblematica rappresentazione e ideale semplificazione dei processi in esame, riposi già nella mente del lettore o dell’ascoltatore, al quale basta una semplice allusione per ricorrere a ciò che da sempre ha a portata di mano al fine di ottenere una esaustiva comprensione del fenomeno e insieme della sua spiegazione. Ma l’ambito di origine, si diceva, ossia il terreno originario dove naturalmente sorgono e si alimentano quelle immagini asportate e trapiantate altrove, non risulta espresso nel testo in cui queste vengono a conoscere un nuovo loro impiego: esso rimane così relegato nel non-scritto o nel non-detto in ragione proprio dell’ovvietà del riferimento. Segno che il giardino dove tali immagini allignano è pubblico: ma ciò significa anche che, se pur non esplicitata, esiste una catena di rimandi ben ramificata atta a corredare funzionalmente quel solo termine innestato nel nuovo e insolito ambito, di modo che un’unica metafora, più che una complessa spiegazione, può indicare la soluzione al problema sollevato o può orientare già ad essa.
Se, al contrario, il giardino rimane privato, il messaggio si fa esoterico; ma questo, si sa, non è l’indirizzo dell’indagine intrapresa da Aristotele: infatti il carattere di pubblicità dei luoghi e degli oggetti metaforici impiegati dallo Stagirita è dovuto al fatto di esser tratti da testi che fanno tutt’uno con l’educazione e la tradizione di un greco in quanto tale, cioè i testi omerici ed in particolare l’Odissea. Lo scopo che mi sono prefissato, dunque, non è tanto di dimostrare, quanto di mostrare i luoghi omerici dai quali Aristotele ha tratto questi oggetti che viene esponendo e disponendo allo scopo di illustrare le proprie tesi.
Se già nel mito alcuni di tali oggetti fanno la loro apparizione è grazie alla trama dell’Odissea, che del mito è una delle concrezioni più arcaiche, che il loro intrecciarsi risulta scolpito in modo indelebile nella memoria ellenica. È così che quelle parole, che nei trattati aristotelici sono ormai divenute concetti da esempi che erano, nei poemi omerici continuano ad indicare cose. Dunque gli avvenimenti dell’epica omerica le cui trame spesso venivano ripetute o variate di poco, anche se in modo pregnante, si propongono come una ‘forma di vita’ del termine stesso atta a fissarne nella memoria culturale collettiva in assenza di attività scrittoria oltre che della stessa letteratura scritta i modi d’uso, le connessioni di significanti, gli echi e i riflessi intellettuali che Aristotele si guarda bene dal trascurare.
Eccolo, allora, quasi aggirarsi per i luoghi della Troade, teatro della guerra, tra gli eroi, o per le isole del Mediterraneo, toccate dalla navigazione di Odisseo, manifestando l’attenzione di un naturalista in un orto botanico: i testi omerici così ricchi di immagini fantastiche, e specie l’Odissea così rigogliosa di situazioni emblematicamente problematiche e di soluzioni ingegnose, si propongono all’occhio esercitato del filosofo come una inesauribile riserva di oggetti metaforici, sorprendentemente già posti tra loro in una stretta relazione significativa.
Giulio A. Lucchetta
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