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Il Gabbiano è per l’immaginario della nostra scrittrice l’uccello dei mari che nella sua seconda giovinezza le rivelò l’incontro col mare, nella concretezza della realtà come nella luce della poesia poco importa che cosa ne abbiano fatto oggi i mutamenti globali. Ancora sfiora le onde e pesca con garbo, e con garbo si posa su moli e scogliere, come vola a ali tese nei cieli, e non lo appesantiscono, come invece l’albatro, le vaste ali sulla sabbia. Così, con impeto e grazia, si alza a volo Giovanna a contemplare quel che sta in alto, o si china a raccogliere le piccole creature della terra. Ed ecco fiorirle i densi pensieri e le rapide vibranti epifanie della prima parte o le immagini della seconda, vaste o brevi, di scrittori, alcuni appena scoperti, come il Walter Rossi di Cassarmonica, al momento in cui qui ne scrisse, e «colti a volo» nella loro non ingannevole grandezza, altri a lungo compagni di strenua eppure felice lotta con la parola, come Francesco Giuntini, cui è dedicato il cuore del libro.
Il libro è nitidamente scandito in due parti: una formata di aforismi i paragrafi privilegiati di senso e forza d’evocazione che sono emersi a una rilettura di lettere o saggi come le punte di un iceberg l’altra di note di lettura, per lo più pubblicate via via quando un libro le arriva al cuore, tutta una vita di ‘recensioni’ che condensano o analizzano l’autore che le si è rivelato. Le due parti del libro non sono così diverse come apparirebbe dalla struttura, e non solo perché alcuni passi della prima parte specialmente tra i Ritratti si avvicinano anche nella forma a certe brevi recensioni, ma perché in ogni pagina, dal principio alla fine, la scrittrice risponde, segretamente, ad una profonda aspirazione. Interpretandolo si confronta con l’autore che legge, non quale si vede ma quale è tutta tesa ad essere. Così traccia, non senza umiltà, una specie di autoritratto. Di che specie di autoritratto si tratti devo subito chiarire, infatti l’‘autobiografia’ è quel che Giovanna più rifiuta, perché tende a considerarne l’aspetto deteriore, il crogiolarsi nel proprio transitorio, proprio quello a cui mai indulgerebbe per sé e che a volte le accade di deprecare in ciò che legge (non qui, dove sceglie di parlare solo dei libri che ama). «Non c’è mai abbandono apparente, confessione d’affetti diretta» dirà di Isella; e delle poesie di Dino D’Erice: «Raramente accade di leggere un testo, che parla in prima persona, non soltanto senza avvertire il disturbo, il vischioso insinuarsi dell’indiscrezione, quel malessere quasi, che coglie il lettore aggredito dall’inutile presenza dell’esplicita ‘autobiografia’».
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