Juri Saitta
Prefazione
Scorrendo le pagine della monografia di Valentino Saccà su Tsai Ming-liang si nota subito quanto l’autore sia stato capace di cogliere due aspetti fondamentali della filmografia del regista taiwanese: lo sguardo nuovo e comunque diverso rispetto al cinema mainstream e i continui rimandi ad opere e autori precedenti.
Infatti, se da un lato Tsai sfida continuamente lo spettatore proponendo una poetica antispettacolare composta da una narrazione minimale e da una regia caratterizzata soprattutto da lunghe inquadrature fisse, tanti silenzi e la quasi totale assenza di musica extradiegetica, dall’altro si rifà costantemente alla storia della settima arte, ispirandosi sia a cinematografie culturalmente e geograficamente a lui vicine, come Edward Yang e il suo Taipei Story, sia alle più svariate filmografie occidentali, dai grandi autori europei come Michelangelo Antonioni e Robert Bresson ai classici del cinema hollywoodiano.
Come nota Saccà, questo risulta evidente fin dal suo esordio, I ribelli del Dio Neon, opera in cui la storia di un ragazzo solitario e di due giovani teppisti nella Taipei dei primi anni Novanta coniuga i temi della ribellione e dello spaesamento giovanili presenti nei film con Marlon Brando (Il selvaggio) e James Dean (Gioventù bruciata) allo sguardo sulla città alienante tipico della poetica di Antonioni e Yang.
Tutti elementi che si manifesteranno con ancora più forza nelle sue opere successive, come per esempio The Hole, Che ora è laggiù? e Goodbye, Dragon Inn, pellicole in cui lo stile radicale dell’autore si fonde con riferimenti e riflessioni cinematografiche.
In The Hole lo stile rigoroso con cui la macchina da presa, quasi sempre fissa, osserva la solitudine dei due protagonisti è occasionalmente intervallato da alcuni momenti onirici in cui prendono vita dei numeri musicali chiaramente ispirati al cinema classico hollywoodiano, in quella che è una scelta stilistica che l’autore riprenderà anche nel 2005 con Il gusto dell’anguria.
Qui, dunque, cinema moderno e cinema classico, cinema che sfida lo spettatore e cinema d’intrattenimento si coniugano per rendere ancora più evidente la situazione alienante dei personaggi, aprire qualche parentesi di (illusoria?) speranza e porre una riflessione sottesa sulla doppia funzione di svelamento e di fuga dalla realtà presente nella settima arte.
Ancora più esplicitamente meta-cinematografico risulta Goodbye, Dragon Inn, opera in gran parte ambientata in una sala praticamente vuota in cui viene proiettato Dragon Inn, kolossal wuxia del 1967. In questo caso, la poetica dell’autore si fa ancora più ardua ed estrema, vicina per certi aspetti al cinema sperimentale e alla video-arte, in quanto la vicenda narrativa è ridotta ai minimi termini, concentrata soprattutto sulle piccole azioni degli spettatori e della cassiera, ed è inoltre seguita da quello stesso stile di regia austero e anti-spettacolare che ha caratterizzato anche le opere precedenti.
Inoltre, i temi della decadenza e dell’alienazione tipici di Tsai sono in tal caso uniti a una più esplicita meditazione sulla fine del cinema stesso o, almeno, di un certo tipo di cinema, quello monumentale e d’intrattenimento, attento a catturare le grandi masse degli spettatori, qui totalmente assenti.
La solitudine, il lutto e lo spaesamento urbano sono centrali anche in Che ora è laggiù?, opera ambientata tra Taiwan e Parigi in cui i riferimenti alla cultura e alla spiritualità tipicamente orientali (altro elemento ricorrente della filmografia di Tsai) si uniscono all’omaggio a François Truffaut e a I 400 colpi, pellicola citata tramite alcuni frammenti e la breve apparizione del suo protagonista Jean-Pierre Léaud.
E anche se il costante connubio tra cultura orientale e cultura occidentale non è certo una novità nella storia del cinema (si pensi solo a Edward Yang e ai riferimenti statunitensi in Taipei Story o agli adattamenti shakespeariani di Akira Kurosawa), Tsai Ming-liang lo porta avanti all’interno di una poetica personale e ben riconoscibile, tanto nei temi quanto nello stile. Ed è forse anche questa una delle forze dei grandi autori contemporanei: quella di saper guardare al passato culturale e cinematografico riuscendo al tempo stesso a creare un proprio immaginario, costituito, parafrasando Truffaut, da “una propria idea di mondo e da una propria idea di cinema”.
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